Ospedale maggiore di Milano (1456 -)

Sede: Milano

Tipologia ente: Ospedale

Progetto: Archivio degli Istituti provinciali per l'assistenza all'infanzia di Milano: fondi del Brefotrofio provinciale di Milano

L'Ospedale Maggiore di Milano fu fondato, con una donazione, dal duca Francesco I Sforza, nel 1456. Si portava così a termine il processo di concentrazione delle opere pie ospitaliere cittadine, avviato pochi anni prima dall'arcivescovo Enrico Rampini. Da quel momento l'amministrazione del nuovo ente e degli ospizi da questo dipendenti, che traevano le proprie risorse dalle rendite patrimoniali, dai lasciti e dalle elemosine dei benefattori, fu affidata a un consiglio (il Capitolo) formato da diciotto nobili milanesi, nominati dall'arcivescovo sulla base di un elenco già predisposto, e da un luogotenente ducale. Contemporaneamente si diede inizio alla costruzione della Ca' Granda, la nuova sede nosocomiale progettata dall'architetto fiorentino Antonio Averulino, detto il Filarete. Fra i numerosi ospizi milanesi aggregati, sorti nei secoli precedenti grazie all'iniziativa degli ordini religiosi e delle confraternite laiche, vi erano anche quei ricoveri che, come l'Ospedale di Santo Stefano (o del Brolo), l'Ospedale Nuovo (o di Santa Maria Maggiore, detto anche di Dona Bona), l'Ospedale di San Celso e l'Ospedale di Santa Caterina al Ponte dei Fabbri, si erano affiancati o avvicendati, seppure in modo non esclusivo, nell'assistenza materno-infantile. Dal 1456 divennero dunque competenza del nuovo Ospedale, oltre alla cura dei malati poveri, che non costituisce oggetto di questo profilo, anche l'assistenza ostetrica alle partorienti "miserabili" e il soccorso degli esposti, cioè dei numerosi bambini che i parenti affidavano alla carità pubblica.

Nel 1495 il Capitolo deliberò di riservare agli esposti "da latte", alle partorienti e alle balie interne - allora alloggiati presso l'Ospedale del Brolo - i locali dell'Ospedale di San Celso, che già dalla seconda metà del 1400 ricoverava gli esposti "da pane", ossia svezzati. Alla sua supervisione furono assegnati, in aggiunta ai tre membri capitolari competenti per il sestiere di porta Ticinese, dove era situato l'edificio, altri due membri capitolari e il luogotenente ducale. A San Celso, nel 1594, fece la sua prima comparsa il torno (o ruota) che offriva ai genitori un mezzo più sicuro di consegna dei neonati, in alternativa all'abbandono in luogo pubblico. Del suo uso, tuttavia, i registri d'ingresso non fanno cenno fino al termine del secolo successivo. Nel frattempo, per i "colombini" e le "colombe" (così erano chiamati gli esposti e le esposte milanesi, con riferimento all'insegna del loro nuovo padre, l'Ospedale Maggiore) era emersa la necessità di una nuova sede. Dopo un primo trasferimento, subito revocato, delle sole gravide e balie (1653-1654), nel 1671 l'intera "famiglia" fu collocata all'interno della stessa Ca' Granda, recentemente ampliata grazie al cospicuo legato Carcano. Alle donne e ai bambini furono assegnati due quartieri distinti: tali spazi, isolati dagli altri locali e dotati di ingressi autonomi, vennero poi complessivamente designati con il nome di "Quarto delle balie". Alcuni anni più tardi, nel 1689, il Capitolo stabilì di aprire un nuovo torno, probabilmente collocato presso la "porta degli scalini", che, eliminata nel 1708, allora si affacciava sull'attuale Via Festa del Perdono.

L'attività assistenziale promossa dall'Ospedale Maggiore in favore dei minori si articolava in un complesso sistema che prevedeva ricoveri, accettazioni temporanee ed "elemosine" per il baliatico. Innanzi tutto, l'ingresso era aperto agli esposti della città e del Ducato, ivi compresi quelli inviati dagli Ospedali di Legnano e di Varese. Anche le donne accolte per il parto - che, se povere, erano poi tenute a restare come balie sedentarie - potevano lasciare il loro neonato fra gli esposti al momento della dimissione, ma solo se il padre, legittimo o naturale, non aveva i mezzi per mantenerlo oppure se rifondeva all'Ospedale le spese sostenute. Esisteva poi la possibilità di un ricovero a termine, per il solo periodo del baliatico. Questa forma di beneficenza era concessa sia ai figli lattanti delle inferme degenti nelle corsie della Ca' Granda, sia ad alcune categorie di neonati poveri legittimi, che vennero più volte ridefinite e circoscritte: generalmente si privilegiavano i figli di madri "impotenti ad allattare", i gemelli, gli orfani di madre. Poiché tali accettazioni temporanee erano subordinate ad una serie di requisiti e di garanzie che non tutti erano in grado di offrire, dagli anni Settanta del Seicento fu prevista la concessione di un'elemosina in favore delle famiglie povere escluse dal baliatico gratuito

Dopo l'ingresso, i bambini, se lattanti, venivano affidati ad una balia interna, e poi, non appena possibile, ad una balia esterna ("forese"), per essere infine consegnati, ormai svezzati, ad una nutrice. Inizialmente tali affidamenti all'esterno furono considerati temporanei e l'età della restituzione all'Ospedale fu indicata intorno ai quattro anni (1508). In seguito fu innalzata a sei anni (1558) e si previde anche la possibilità, per le famiglie affidatarie, di trattenere i bambini come figli propri oppure come servi, in seguito alla stipula di un regolare contratto. Infine (1594) il rientro fu fissato a sette anni. Dopo la riconsegna, per gli assistiti aveva inizio un periodo riservato all'istruzione di base, scolastica e religiosa, impartita da sacerdoti, e all'addestramento professionale, impartito da maestre interne - per le femmine - e da maestri a contratto, come tessitori, calzolai, calzettai - per i maschi. Al termine, i maschi erano assegnati alle botteghe cittadine, mentre le femmine, nell'attesa del matrimonio o della monacazione, restavano recluse, impegnate nelle attività produttive (lavorazioni pregiate, fabbricazione di nastri, ricamo e cucito) e nei servizi ospedalieri - attività grazie alle quali aumentavano le doti elargite dall'Ospedale. In alternativa le "colombe", dopo i dodici anni, potevano essere mandate, ma non senza esitazioni, ripensamenti e resistenze, anche da parte delle stesse assistite, a servizio in case private "honeste et da bene" di nobili e di artigiani, sposati e residenti in città, che, in cambio, si impegnavano a dotarle. Dalla metà del XVII secolo, in concomitanza con la decadenza dell'economia urbana e con gravi difficoltà gestionali, l'Ospedale Maggiore cambiò strategia e deliberò di lasciare gli esposti sani - che non fossero stati reclamati dai loro genitori - presso le famiglie contadine per tutta la durata dell'assistenza: gli affidatari ricevevano in cambio un salario decrescente fino al settimo anno d'età, e il corredo fino all'abdicazione. L'assistenza e la tutela, per coloro che non fossero inabili, cessavano con il compimento dei quindici anni, ma le femmine avevano diritto a ricevere anche una dote di 100 lire (oltre al "panno per una sottana") in caso di matrimonio o, se nubili, a tornare "in qualunque età" nell'Ospedale Maggiore. Tale organizzazione restò immutata nei secoli successivi, fino a che nel 1780 il "Quarto delle balie" fu chiuso e l'intera famiglia degli esposti fu trasferita nella nuova sede di Santa Caterina alla ruota.

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Compilatori
Reggiani Flores, Archivista