comune di Bormio sec. XII - 1797

Il sorgere del comune di Bormio a potenza egemone delle alte valli dell’Adda e dei suoi affluenti risale, probabilmente, agli ultimi decenni del XII secolo: l’ascesa fu resa possibile dalla crisi della potestà feudale dei Matsch, avvocati, ma citati anche come conti, di Bormio che alienarono al comune il diritto di impartire la giustizia e il possesso dei beni demaniali. Il 12 agosto 1185 vi sarebbe stata una convenzione tra il comune di Bormio e l’avvocato Eginone di Matsch: a quella data i poteri dell’avvocato dovevano essere ormai ridotti e costituire quasi esclusivamente delle formalità, essendo la giurisdizione nella sua completezza già passata al comune; al feudatario doveva essere rimasto solo un potere di ricorso analogo al potere di giudicare in appello. Anche i diritti finanziari connessi con l’avvocazia erano già allora passati al comune (Aureggi 1956; Martinelli Perelli 1977).
Nel XIII secolo, il comune di Bormio si allontanò dalla dipendenza retica, trovando un nuovo interlocutore e avversario nel comune di Como. La lotta tra il centro lariano e la comunità di Bormio fu di volta in volta diplomatica, politica e militare. Nel 1201 Bormio dovette accettare un trattato di pace con Como: Bormio conservava le proprie istituzioni, il proprio autogoverno e ottenne il libero commercio in tutto il territorio controllato da Como. In cambio si obbligava a determinate imposte, decime, rendite, ed alla fedeltà politica e militare, poiché la maggiore autorità, il podestà, doveva essere nominato da Como. Dopo vari decenni di contrasti, sul finire del XIII secolo declinò il potere di Como e nel 1300 Bormio ritornò sotto la signoria del vescovo di Coira, che fu ribadita nel 1336.
Bormio entrò sia pure non continuativamente nell’orbita dello stato visconteo nel 1350, e solo durante la signoria di Giangaleazzo al comune venne riconosciuta completa ed effettiva autonomia (Benetti, Guidetti 1990).
Data, modalità di formazione e di composizione dell’originaria associazione di cittadini bormini che componevano la “universitas Burmii” sono oscure. Il comune si configurava probabilmente come associazione dei capifamiglia posti su un piano di parità, indipendentemente dal censo e dalla qualifica di proprietario terriero. Al tempo della pace con Como, all’inizio del XIII secolo, era già organizzato il nucleo essenziale delle istituzioni politiche comunali, articolato attorno all’assemblea dei vicini e alla figura del decano. L’assemblea dei vicini era formata dai meliores, duecento capifamiglia della terra mastra di Bormio. Al decano spettava il compito di presiedere l’assemblea e di svolgere funzioni esecutive. In base al trattato, i bormini dovevano accettare la nomina di un podestà, che esercitava il controllo sulla comunità, senza privare il comune della sua autonomia amministrativa e politica (Celli 1984).
Nel corso del tempo, con evidenza a partire dal XVI secolo, l’organizzazione comunale originaria perdette parte della sua democraticità, tanto che la base della sovranità non risiedeva più nel “consilium magnum” di tutti i capifamiglia, che in epoca tarda veniva convocato per determinare l’ammissione al comune di nuovi membri e in poche altre occasioni, bensì dal “consilium populi”, organo composto da circa cento persone, con forte connotazione rappresentativa. Questa evoluzione fu condizionata dall’aumento demografico e dal mutare degli equilibri territoriali, essendo diventate le valli del contado più popolose della terra mastra di Bormio. Il consolidarsi di forme di autogoverno locale nelle vicinie o vicinanze di valle fu favorito dal comune, ma provocò conseguentemente una distinzione fra le istituzioni comunali, che all’origine erano state le istituzioni dell’unica vicinanza generale “loci Burmii” e le istituzioni di valle, di quartiere e di contrada. La capillarizzazione politica trovò analogia sul fronte religioso nel moltiplicarsi delle parrocchie. Il consiglio del popolo si trasformò in organo di raccolta dei rappresentanti delle vicinie, anche se il peso della città di Bormio rimase sempre preponderante. Contemporaneamente allo scivolamento della sovranità verso i corpi locali, si rafforzò il potere degli organi comunali superiori, in particolare dell’assise penale, che in sessione politica era detta consiglio ordinario o assentato, e dei reggenti.
In generale, nei consessi comunitari la rappresentanza non corrispondeva alla consistenza numerica delle singole vicinanze. In tutte predominava l’elemento borghigiano, al quale la consuetudine attribuiva non solo la maggioranza degli ufficiali, dei canepari, dei procuratori, dei giudici e del governo (dieci su sedici nel penale, dieci su tredici nel civile; due contro uno nelle commissioni, ma anche la prevalenza nel consiglio del popolo (sessanta su centoventi): le tre valli di Cepina (Valdisotto), Pedenosso (Valdidentro), Furva si dividevano equamente i seggi restanti; Livigno era esclusa dal consiglio ordinario e partecipava al consiglio del popolo con tre rappresentanti, cioè due consoli e il mistrale (Storia di Livigno 1995; Inventario Bormio 1996).
Nei rapporti con Bormio, che mantenne di fatto la propria autonomia nel trapasso di regime del primo Cinquecento (Baitieri 1957; Baitieri 1958; Baitieri 1960; Besta 1926-1927; Besta 1945; Bognetti 1934; Bognetti 1957), un mutato rapporto politico dei Grigioni si affermò a partire dal 1536. Alla comunità venne riconosciuto l’antico diritto del “merum et mixtum imperium” e la piena giurisdizione, concessi ai magistrati locali eletti regolarmente secondo le antiche tradizioni, ma la concessione era fatta “salva superioritate” dei dominanti. Nella nuova edizione degli statuti nel 1536, anche al podestà era concesso il merum et mixtum imperium, e a lui dovevano quindi obbedire i bormini anche in campo giurisdizionale.
Vennero riconfermati dalle tre leghe tutti i privilegi circa i dazi e monopoli sui vini e sul sale: la comunità aveva, cioè, la piena e totale amministrazione dei proventi di tali esenzioni; quanto al potere legislativo, alla comunità era “lecito aggiungere e togliere agli statuti”, nei limiti però di quanto concerneva la vita interna della comunità stessa. Gli statuti riformati furono pubblicati in forma ufficiale insieme ai nuovi statuti della Valtellina (1548-1549), e sono conservati nell’archivio comunale di Bormio (statuti di Bormio 1561). La revisione degli statuti portò ad uno squilibrio interno nel contado per quello che riguardava i rapporti tra le valli e la terra mastra di Bormio, poiché fu sancito il diritto di appellarsi direttamente alle tre Leghe, senza passare per i tribunali locali.
La costituzione comunale, così come si era evoluta, garantiva in ogni caso allora alla terra mastra l’egemonia politica sul contado: l’attività di coordinamento e di indirizzo politico che Bormio, tramite gli organi comunitari, esercitava era finanziata gestendo il patrimonio gastaltico ereditato dagli avvocati di Matsch, cioè i proventi dell’affitto delle alpi e dei boschi, la riscossione delle decime, i diritti minerari, i dazi, le privative, e i diritti di giustizia: il comune di Bormio aveva acquisito infatti, fin dai secoli iniziali del suo sviluppo, il privilegio del godimento di una rilevante parte delle decime vescovili gravanti sui beni fondiari ad essi vincolati compresi entro la sua giurisdizione.
Qualora le spese avessero superato le entrate, il governo del comune poteva mutuare prestiti presso privati o ricorrere alle vicinanze, ripartendo i contributi in base all’estimo. Ma nel corso del XVI secolo le valli, già aggravate da una ripartizione delle risorse comuni, soprattutto dei pascoli, giudicata sperequata, accettarono con crescente difficoltà di partecipare al ripianamento dei debiti contratti da organi in cui i loro rappresentanti figuravano in posizione di minoranza. La rivolta maturò verso il 1603, quando le contrade chiesero che si operasse una redistribuzione delle risorse e si ridefinissero le fonti finanziarie spettanti al governo di comunità ponendo, fra l’altro, un limite all’indebitamento. Gli arbitri eletti per dirimere la contesa fecero proprie quasi tutte le tesi espresse dal contado: i pascoli furono assegnati e ripartiti tra le vicinanze, proporzionalmente al numero di bestiame invernato; si limitò la possibilità del consiglio minore di contrarre prestiti senza il parere preventivo del popolo; si quotizzò il debito pubblico, riformando l’estimo, e si procedette a modificare la proporzione nelle deputazioni della rappresentanza tra terra mastra e valli. La perdita dei cespiti più redditizi comportò la paralisi della capacità d’indirizzo e coordinamento politico del comune, il quale, sul piano economico, finì a dipendere più strettamente delle contrade dai suoi creditori e dai diritti di giustizia. Nel 1612 le valli proposero senza successo uno schema di spartizione che affidava alla terra mastra e Livigno la metà del gettito annuo complessivo delle decime, e il resto, in quote uguali, alle vallate di Pedenosso, Furva, Cepina. Un ulteriore tentativo fu compiuto nel 1671, con tenace difesa da parte della terra mastra e degli organi della comunità (Gobetti 1996).
L’evoluzione del comune tra XVII e XVIII secolo portò comunque progressivamente al ripristino e all’ampliamento del potere di indirizzo e controllo popolare, attraverso l’assemblea maggiore, specie dopo che il consiglio ordinario era stato costretto a rinunciare a quasi tutti gli spazi di autonoma determinazione politica, particolarmente in seguito all’introduzione della norma per cui al consiglio ristretto erano vietati stanziamenti superiori alle cento lire, ma sotto aspetti nuovi: l’ascesa delle valli trasformava il parlamento comunale in un organo di rappresentanze territoriali. Il nuovo riferimento di aggregazione e determinazione politica non furono però le valli, bensì le contrade, spesso in contrasto e lite tra loro.
Il comune di Bormio fu dunque un importante soggetto economico in quanto proprietario di fondi e titolare di forni, fucine, segherie, mulini, e dei servizi di macello, taverna, bottega. I beni comunali venivano concessi in affitto a privati dietro pagamento di canoni; gli alpeggi venivano livellati ad engadinesi, venostani, camuni, valtellinesi, che vi conducevano greggi e armenti nei mesi estivi. Altre fonti di reddito erano il patrimonio forestale, il cui sfruttamento era severamente regolamentato, le “terre nove”, terreni guastivi ceduti a privati con possibilità di coltura, i “balnea”, cioè le fonti termali. Il comune inoltre, in virtù della posizione geografica, godeva di una serie di diritti di transito la cui esazione veniva appaltata al miglior offerente: il “pedagium somarum” per i carichi transitanti per la strada dei Bagni e delle Scale di Fraele, quello dell’erbatico pagato dai somarini che passavano sulla stessa via, il “pedagium castronum” per il bestiame minuto e grosso, il “pedagium lanae”, il “datium fructorum” e quello “anforarum”; il comune percepiva anche una tassa sulla pesatura delle mercanzie (Inventario Bormio 1996; Gobetti 1991); il dazio sui vini di Valtellina verso la Rezia, la Germania e il Tirolo era passato sotto il diretto controllo del comune già nel 1330 (Canclini, De Angelis 1993).
Nell’ambito di Bormio anche la carità pubblica rimase a lungo una prerogativa del comune: i lasciti elemosinieri di cui esso si impossessò costituirono la base patrimoniale di un sistema caritativo assai più cospicuo di quello ecclesiastico. Entrando a far parte del patrimonio comunitativo, le rendite elemosiniere divennero al pari di altri cespiti oggetto di contesa fra terra mastra e valli durante la seconda metà del XVI secolo (Gobetti 1996).
Ancora sotto il controllo del comune c’era l’amministrazione dei redditi dell’istituto scolastico, affidata ad una deputazione di dieci individui, per metà della terra di Bormio e per metà delle valli. La deputazione veniva presieduta da un economo, che era quasi sempre un ecclesiastico, il quale doveva esigere le entrate dandone conto alla deputazione ogni anno. La deputazione durava in carica tre anni; l’economo tranne nel caso avesse dato adito a lamentele o cattivi maneggi, restava in carica anche più anni. La deputazione teneva le sue sessioni in una stanza dell’istituto scolastico, la chiave della quale restava presso il rispettivo segretario (Amministrazione contado di Bormio, 1796).
Il comune di Bormio disponeva infine di una propria milizia, nella quale l’ufficialato era rigidamente lottizzato tra Bormio e le valli. A capo della milizia del comune, che nel 1600 era forte di circa 1.500 uomini, stava il capitano, scelto tra gli abitanti della terra di Bormio, eletto con un sistema misto tra suffragio e sorte. In subordine c’era un alfiere, sempre della terra mastra, e immediatamente dopo il sergente delle milizie della cittadina. Ciascuna truppa di valle aveva a capo due caporali: per Livigno e Bormio il caporale era uno solo. Tutte le cariche erano vitalizie e di nomina del consiglio del popolo. Il corpo era in effetti scarsamente armato e dotato di un equipaggiamento inadeguato (Rovaris 1969; Urangia Tazzoli 1928; Urangia Tazzoli 1931).

ultima modifica: 09/01/2007

[ Saverio Almini ]