contado di Bormio sec. XIV - 1797

Nella storia della politica locale delle valli dell’Adda e della Mera l’evoluzione del sistema feudale non seguì un percorso unitario: a Bormio l’originaria compagine della pieve non si disgregò in entità minori. Avanti l’affermazione del comune di Bormio, deteneva sul medesimo territorio poteri pressoché comitali (poteri pubblici e poteri giurisdizionali), benché non ne avesse il titolo, un ufficiale o funzionario che li esercitava per conto del feudatario. L’unità politico-amministrativa del bormiese, avocazia (o avvocazia) divenne ereditaria della famiglia von Matsch nel corso del XII secolo.
È difficile stabilire l’origine dell’istituto dell’avvocazia bormina. Nel IX secolo, la pieve di Bormio, unitamente a quella di Mazzo, appariva sita “in ducatu mediolanensi”. Questo fatto induce a supporre che le funzioni pubbliche e prima fra esse la giurisdizione (intesa non solo come diritto di esigere i tributi connessi con il placitum, ma anche di giudicare in materia civile e in materia penale) spettassero al duca di Milano, il quale le esercitava a mezzo di un suo funzionario, probabilmente un gastaldo. Mancano tuttavia il diploma o i diplomi regi (di un sovrano carolingio o italico) attraverso i quali il gastaldo bormiese ricevette la conferma dei poteri e dei diritti che una volta gli spettavano in quanto collaboratore del duca. È anche possibile che al gastaldo sia succeduto un dominus plebis, con poteri oltre che giurisdizionali, anche occasionalmente militari. Non è possibile stabilire con esattezza se questo dominatus si chiamò da subito avvocazia e se la famiglia von Matsch ne fu da principio titolare: si è portati in definitiva a credere che l’avvocazia di Bormio sia sorta come istituto per l’esecuzione delle pubbliche funzioni ed in particolare della giurisdizione, da un dominatus loci, a sua volta succeduto, nella prima metà del IX secolo ad una gastaldia con funzioni giurisdizionali (Aureggi 1956).
Nella seconda metà del XII secolo (il primo documento certamente datato è del 1185) l’insieme degli abitanti di Bormio e del suo territorio, la così detta “terra mastra” (che comprendeva le terre di Piatta, Piazza, Oga, Fumarogo) (Guler 1616; Quadrio 1775-1776), si presentava come un’unità giuridica a sè stante (comune), che contrattava con l’avvocato Eginone di Matsch i limiti entro cui intendere la fedeltà feudale dovuta all’avvocato, ed otteneva due fondamentali diritti sovrani: l’amministrazione della giustizia (curia) ed i diritti su foreste, pascoli, acque e sottosuolo (gastaldia). Gli avvocati di Bormio, i von Matsch di Venosta, risiedevano solo saltuariamente a Bormio, dove si recavano in giorni stabiliti per esercitare la giustizia e ricevere i censi e le decime a loro dovuti. All’interno dell’avvocazia i vicini della terra mastra di Bormio poterono sviluppare, oltre alla capacità di valorizzare economicamente il territorio, anche la forza di affermare la propria autonomia politica, agendo attraverso l’istituto del comune (Benetti, Guidetti 1990). La formazione del contado è legata strettamente all’ascesa politica del comune di Bormio, che una volta affrancato dall’egemonia e limitazione nella propria giurisdizione derivante dal diretto esercizio degli antichi diritti signorili, tentò, nel terzo decennio del XIV secolo, di usurpare nelle valli i diritti dei Venosta e del vescovo comense, del quale i Venosta erano diventati vassalli (Storia di Livigno 1995).
Nel corso del XIV secolo, il comune di Bormio era già un potente soggetto economico, gestendo il patrimonio gastaltico ereditato dagli avvocati di Matsch. Il comune possedeva pascoli, boschi, segherie, molini; nell’ambito territoriale del contado prelevava la decima sui raccolti dei cereali, che veniva immagazzinata per essere usata in caso di necessità. Il comune aveva parimenti il monopolio dei forni e delle fucine per la lavorazione del ferro, di gualcherie e tintorie per produrre tessuti, della farmacia, delle osterie, del macello, delle acque termali. Erano tutte attività date in appalto a singoli cittadini, ma il cui controllo spettava agli organi della comunità.
Nell’ultimo scorcio del medioevo, gli abitanti di Bormio perfezionarono le istituzioni che si erano sviluppate nei secoli precedenti: si continuava a riconoscere che la base del potere era l’insieme delle famiglie rappresentate dai loro capi, la vicinantia, parallelamente alla quale si pose il consiglio del popolo (consilium populi) o consiglio maggiore che aveva il potere di fare le leggi e discutere i problemi di politica generale; in età sforzesca il consilium populi era composto da 110-130 membri, in parte scelti da Bormio e dalla terra mastra, in parte in rappresentanza delle popolazioni dei montes, inviati dalle vicinanze delle contrade delle valli. All’applicazione delle leggi ed all’attività giudiziaria provvedeva il consiglio ordinario (o consiglio minore) composto da dieci uomini della terra mastra e da sei dei montes (Benetti, Guidetti 1990).
Pur avendo avuto, probabilmente, un’origine federativa (Besta 1945), il comune di Bormio adempì sempre ad una doppia funzione, locale e provinciale (sul territorio del contado). La moltiplicazione delle organizzazioni e delle istituzioni locali avvenne per la contrapposizione tra terra mastra e monti, raggruppati nella Valle di Sotto (o di Cepina), Valle di Dentro (o di Semogo o di Pedenosso) e Val Furva, a cui si aggiungeva la Valle di Livigno (Baitieri 1957).
In epoca grigione il comune di Bormio riuscì a salvaguardare le proprie prerogative ed egemonia sul contado, consolidate già durante il periodo visconteo, dovendo accettare però una limitazione dei poteri di indirizzo dei propri organi maggiori soprattutto per la gestione economica delle risorse comuni.
Nella prima metà del XIV secolo erano già formate le contrade di San Bartolomeo, Santa Maria Maddalena, Piazza, San Brizio, Santa Maria di Cepina, Santa Maria d’Osteglio e Oga in Valdisotto; San Gallo, San Giacomo di Fraele in Valdidentro; San Nicolò in Valfurva, a cui se ne aggiunsero altre minori ed in via di continuo sviluppo come Premadio, Isolaccia, Uzza, San Gottardo di Furva, Fumarogo (Canclini, De Angelis 1993).
Per quanto riguarda le istituzioni locali nell’ambito del contado, il capoluogo Bormio (che era composto dalle contrade di Dosso Ruina, Via Maggiore, Dossiglio, Buglio, Combo) provvedeva ad eleggere tramite i vicini, in ciascuna delle contrade, due deputati, tra i quali ne venivano scelti due, denominati “capi”, responsabili di amministrare le attività e passività della terra di Bormio e di intendere a far rispettare le gride ed ordini riguardanti la campagna e le strade.
La Val Furva era composta da sei contrade, ciascuna delle quali aveva a capo due anziani, eletti ogni anno dai vicini delle rispettive contrade. Tutti gli abitanti della Val Furva eleggevano due amministratori che venivano chiamati massari della valle, che amministravano le attività e passività dell’intera valle, attendevano a far osservare gli ordini per le strade, per i boschi e per la campagna.
La Valle di dentro era composta da sei vicinanze, a capo di ciascuna delle quali c’erano due anziani, che amministravano le attività e le passività della vicinanza, attendevano a mantenere gli ordini per la campagna e per le strade.
La Valle di dentro era composta da sette vicinanze, a capo delle quali veniva eletto uno o anche due deputati detti aguadri dei boschi, che dovevano vigilare sui boschi tensi, affinché nessuno tagliasse il legname senza il permesso scritto del consiglio ordinario del comune di Bormio.
La vicinanza di Livigno aveva per capi due anziani e in più un mistrale, che giudicava nelle cause civili sino alla somma di lire 100 locali (Amministrazione contado di Bormio, 1796).
Pur basata su un concetto democratico, la popolazione del contado fu sempre distinta tra “cittadini” della terra mastra e “vicini” delle valli, che non si trovavano sullo stesso piano con Bormio, pur avendo gli stessi diritti dal punto di vista giuridico: negli organi di governo comunali Bormio detenne sempre la maggioranza dei rappresentanti. Tra i 120 componenti del consiglio del popolo, 60 erano della terra mastra di Bormio e i rimanenti equamente ripartiti tra le vicinanze di Valdisotto, Valdidentro, Valfurva; Livigno era rappresentata dai due anziani e dal mistrale. Al consiglio del popolo (o consiglio maggiore o non assentato, perché i convenuti si riunivano restando in piedi) competeva la nomina dei magistrati e degli ufficiali minori, la nomina del caneparo maggiore, soprintendente a tutta l’attività finanziaria del comune, e quella del capitano della milizia del comune; spettavano inoltre le decisioni circa l’uso dei beni della comunità. Il consiglio del popolo eleggeva con un complesso meccanismo a doppio turno in parte affidato alla sorte il consiglio ordinario (o consiglio minore o assentato, perché le riunioni avvenivano con i convenuti seduti), che era depositario del potere esecutivo. Il consiglio ordinario era formato da sedici “egregi domini consules et iudices in criminalibus”, dieci della terra mastra e sei delle vicinanze, cioè due per valle (Livigno era escluso dalla rappresentanza). La sua funzione era duplice: doveva esercitare la giustizia penale e provvedere all’amministrazione della comunità. Dal 1481 la competenza civile del consiglio ordinario di Bormio fu affidata ad un consiglio di tredici deputati, tutti della terra mastra, mentre la competenza penale rimase al consiglio ordinario. I veri capi del comune erano i due reggenti, eletti dal consiglio maggiore, che duravano in carica per la durata di una “sorte” (l’annualità amministrativa era divisa in tre “sorti”: primavera, dal 16 febbraio al 15 giugno; estate, dal 16 giugno al 15 ottobre; inverno, dal 16 ottobre al 15 febbraio): essi rappresentavano la massima carica esecutiva e politica del comune; erano gli interpreti ed esecutori delle decisioni consiliari, provvedevano al mantenimento del patrimonio pubblico, ricevevano e distribuivano le rendite comunali, avevano i diritti di polizia, potendo nominare vigili e poliziotti, ricevevano il giuramento degli ufficiali minori ed esercitavano su tutti gli organi minori un controllo.
Come dignità i reggenti avevano superiore solo il podestà, che tuttavia era piuttosto sopra o al di fuori dell’ordinamento interno del comune; secondo gli statuti di Bormio il podestà non aveva poteri normativi, ma solo direttivi. La sua vera posizione era quella di garantire l’esatta applicazione delle norme statutarie e, nel periodo grigione, svolgeva un ruolo effettivo soprattutto in ambito giudiziario, presiedendo i due tribunali con mandato biennale.
Una stima della popolazione del contado di Bormio riferita all’anno 1624 si desume dagli atti della visita pastorale di monsignor Carcano, delegato del vescovo Scaglia: allora gli abitanti erano circa 5.700 ripartiti in Bormio (800), Pedenosso (con Isolaccia e Trepalle) (813), Semogo (344), Premadio (con Molina e Torripiano) (440), Valfurva (1.300), Valdisotto (1.173) (di cui Oga 211), Livigno (847) (Perotti 1992 a).

ultima modifica: 09/01/2007

[ Saverio Almini ]