comunità e comuni nelle valli dell'Adda e della Mera sec. XVI - 1797

Gli ordinamenti giuridici vigenti nelle valli dell’Adda e della Mera furono, per tutta l’epoca del dominio grigione (e così come era stato nel periodo medioevale), articolati su più livelli. Al livello più basso stavano gli statuti e gli ordini delle singole comunità, che regolavano in particolar modo le attività economiche, tra le quali spazio preponderante avevano quelle agricole, forestali e pastorali. Tali ordinamenti prevedevano in taluni casi le modalità di scelta degli amministratori e degli incaricati di comunità; davano disposizioni dettagliate circa il godimento dei beni comuni, per evitare abusi o sopraffazioni; stabilivano i doveri comunitari e le modalità di regolamentazione dei rapporti tra i singoli e i gruppi all’interno della comunità; stabilivano infine quali fossero le violazioni e come dovessero essere sanzionate. Non vi era, a questo livello, nessuna articolazione per materia e gli statuti di comunità prevedevano, spesso alla rinfusa, norme eterogenee in materia civile, penale, amministrativa. Tali statuti erano in genere di diretta emanazione popolare, tramite assemblee plenarie dei membri della comunità, ed erano successivamente sottoposti all’approvazione dell’autorità che rappresentava il potere superiore dello stato (Zoia 1978).

L’ordinamento comunale nelle valli dell’Adda e della Mera, quale appariva agli inizi del XVI secolo, era frutto di un processo di affermazione secolare, e si era diversificato e fortemente connotato a livello locale, essendosi trovato a coesistere, al suo sorgere, con altre istituzioni che agivano sullo stesso territorio e nei confronti della stessa popolazione.

La persona giuridica pubblica del comune si affermò tra i secoli XI e XIV, quando gli individui componenti le comunità furono in grado di provvedere, attraverso gli organi comunali, al soddisfacimento dei loro interessi sociali, e quindi politici, di carattere fondamentale, quando vennero meno l’ente o l’organo che li avevano esercitati sullo stesso territorio, come il conte a Chiavenna, i vicedomini o capitanei in Valtellina, l’avvocato a Bormio (Aureggi 1958).

La base territoriale su cui era insediata una comunità rurale originaria nelle valli dell’Adda e della Mera fu la pieve. Il territorio della pieve rispose fin dai primordi alle esigenze di una economia essenzialmente agricolo-pastorale. Il territorio plebano era caratterizzato dall’esistenza di beni comuni, indivisi, e per il loro stesso carattere indivisibili, che costituirono lungo i secoli le pertinenze indivise di beni di proprietà individuale. I beni erano costituiti generalmente da pascoli di alta montagna (alpi), da boschi che salvaguardavano territorio e abitati dalle calamità naturali (boschi “tensi”), da pascoli comuni di mezza montagna (monti), da boschi destinati alla raccolta del legname per i focolari.

Nelle valli dell’Adda e della Mera, le comunità si riconducevano a due categorie fondamentali: comunità che avevano mantenuto l’originaria integrità plebana e in cui il villaggio era semplice elemento costitutivo; comunità che invece avevano subito una progressiva frantumazione, così che alcuni villaggi avevano raggiunto una propria autonomia, o addirittura una propria indipendenza, rispetto alla comunità originaria. Le comunità rurali minori, nate dalla frantumazione delle originarie comunità pagensi, diventarono comuni più tardi e con poteri limitati (Aureggi 1978).

La popolazione delle comunità nelle valli dell’Adda e della Mera era costituita dalla universitas dei proprietari dei fondi che avevano le loro pertinenze indivise nei beni comuni. Per partecipare alla comunità occorreva però, oltre al requisito della comproprietà, anche quello della discendenza da una famiglia della comunità e della residenza; per questo nelle norme consuetudinarie, trasfuse poi negli statuti, sia la vendita di immobili a stranieri, sia il matrimonio della donna della comunità con uno straniero erano ostacolati. In verità, nella maggior parte delle comunità, furono progressivamente liberalizzati gli acquisti di immobili da parte di stranieri, anche se rimanevano gravati da tributi diversi e superiori a quelli imposti ai membri della comunità.

Come era possibile divenire membro della comunità e del comune, così era possibile anche perdere tale requisito. Non bastava però il distacco materiale dal territorio della comunità per non appartenervi più, ma occorreva che il membro della comunità cessasse di tenervi una dimora, o di sostenere gli oneri che comportava la sua appartenenza alla comunità stessa (Aureggi 1978).

Nell’epoca di affermazione dell’istituto comunale, i membri delle famiglie delle comunità partecipavano alle adunanze generali della pieve (primo nucleo di quegli organi di autogoverno che in epoca viscontea si formarono all’interno delle giurisdizioni, composte da più pievi, dette terzieri) e a quelle particolari del comune rustico a cui erano legate; essi avevano il godimento regolato dei beni comuni e decidevano per la loro distribuzione e talvolta anche per l’alienazione e il riparto; partecipavano ai redditi del comune ed eleggevano le magistrature locali (Solmi 1926; Solmi 1927).

Dove il comune non nacque come personalizzazione dell’intera comunità pievana, bensì di una modesta e autonoma comunità vicana, la stessa esiguità territoriale e demografica non gli consentì di affermarsi indipendentemente dalle istituzioni feudali e di assumere le loro stesse funzioni, ma anzi lo vincolò in posizione subordinata al signore del luogo (Aureggi 1960).

L’istituto del dominilocato non fu perciò universalmente applicato in Valtellina. Là dove era vigente, venivano designati per ogni comunità alcuni rappresentanti appartenenti a importanti famiglie i quali erano, per la loro qualità di nobili, a capo, per metà, del governo comunitario. Con la metà della direzione del comune si intendeva il diritto di intervenire in ogni decisione comunitaria con la possibilità concreta di gestire parte dei beni comunali. Il dominilocato decadde completamente con il dominio grigione, quando si affermò un principio rigidamente democratico nel governo dei comuni (Zoia 1989).

Il nucleo fondamentale costitutivo dei singoli comuni o dei singoli vici componenti il comune erano le contrade, complesso più o meno numeroso di edifici abitato da un corrispondente numero di famiglie, generalmente legate all’origine a un unico ceppo famigliare (Uomini delle Alpi 1983).

A seconda dell’estensione del territorio comunale e non secondariamente della sua importanza ed evoluzione storica, le contrade nel loro insieme potevano semplicemente costituire il comune, oppure, raggruppate, costituire dei gradi intermedi dell’organizzazione amministrativa: liste, quartieri, terzieri, quadre, squadre, colondelli, cantoni, vicinanze. Questi raggruppamenti non corrispondevano a una semplice suddivisione geografica delle comunità, e potendo variare nel tempo per denominazione, estensione, estimo, davano vita ad altrettanti organi complementari a quelli dell’intero comune, con gradi diversi di autonomia sul piano economico e amministrativo.

Per quanto riguarda, in generale, gli organi di autogoverno e gli aspetti amministrativi, i comuni valtellinesi avevano per capo un decano o un console, dei deputati consiglieri o agenti del comune. I comuni inoltre avevano un cursore o servitore del comune e un cancelliere di comunità. Ogni giurisdizione della Valtellina teneva propri consigli, formati dai decani, consoli o deputati di ciascun comune. La pluralità dei voti dei comuni formava il risultato delle deliberazioni dei consigli di giurisdizione. Ciascuno di tali consigli inviava uno o due deputati al consiglio generale di valle, che era il massimo organo di governo della Valtellina. La Valtellina aveva per capo un cancelliere detto di valle, i terzieri e le due squadre avevano anch’essi un cancelliere. Nella propria amministrazione ed economia i comuni (tramite decani e consigli) e la Valtellina (tramite il consiglio di valle) erano indipendenti.

Il metodo di elezione, il numero, la denominazione e il complesso delle competenze dei funzionari variava da comune a comune. Pur in presenza di una molteplicità di istituzioni e figure evolutesi autonomamente nelle singole realtà locali (talora dotate di importanti prerogative, come nei casi di Bormio e Chiavenna), in epoca grigione coesistevano di fatto due prototipi di organizzazione amministrativa delle comunità, derivanti da un unico fondamentale modello, rimasto sostanzialmente intatto nelle comunità di più scarso peso demografico ed economico, e corrispondente alla fase più antica di sviluppo delle altre comunità, poi progredite verso forme sempre più complesse di autogoverno.

Nel primo caso la comunità aveva il suo organo deliberante nell’assemblea dei vicini, che eleggeva annualmente il decano o il console; nominava un notaio per la redazione dei verbali delle adunanze e delle scritture riguardanti la comunità; eleggeva sindaci, procuratori o deputati per negozi particolari o con compiti specifici; queste comunità avevano generalmente almeno un saltaro (guardaboschi) e un camparo (guardia campestre).

Avveniva generalmente in modo analogo sia nelle comunità minori, sia nelle maggiori, il controllo finanziario delle entrate e delle uscite e la riscossione delle imposte. Ognuna delle singole frazioni della comunità (contrade o quadre) aveva uno o più esattori tratti dagli stessi abitanti che rendevano poi conto del proprio operato al decano o al console dell’intera comunità.

Le entrate delle comunità valtellinesi e valchiavennasche, per tutto il periodo di antico regime, furono ordinariamente costituite dalle taglie (tasse sugli immobili, stabilite in base all’estimo) e dalle imposte personali (focatico), che erano predisposte talvolta unitariamente per la comunità ma più spesso frazione per frazione (si davano anche casi di completa separazione dell’estimo di una frazione da quello del resto della comunità).

Nelle comunità maggiori o nella maturità di sviluppo delle istituzioni comunali, le quadre o le altre partizioni amministrative della comunità, oltre a nominare propri esattori, avevano ciascuna proprie adunanze e consigli, che eleggevano propri sindaci, decani o consiglieri; questi ultimi, riuniti insieme a livello dell’intero comune, costituivano il consiglio di comunità, nell’ambito del quale veniva poi eletto, con meccanismi differenziati ma generalmente in modo tale da garantire l’alternanza della carica fra le diverse parti del comune, il decano o il console.

Il consiglio di queste comunità fungeva da giunta esecutiva, ed era responsabile della gestione economica del comune, provvedendo a mettere all’incanto i servizi pubblici, tra i quali la brenta, la stadera, il prestino, la beccheria, l’osteria, e stabilendo le modalità di affitto dei beni comunali. Per tale gestione, a volte complessa, il consiglio si avvaleva di funzionari o agenti della comunità: campari, saltari, arbostari, e ufficiali in senso più stretto, come i messi o cursori e i servitori; il consiglio nominava inoltre gli stimatori e i revisori dei conti, e gli ufficiali responsabili delle scuole, confraternite, monti di pietà o altri istituti di natura religiosa, sociale e caritativa; la nomina dei parroci o dei curati spettava invece all’assemblea dell’intera comunità.

L’assemblea dei vicini ratificava, nelle comunità maggiori, l’elezione del decano o del console, dei consiglieri, sindaci e procuratori, e ne approvava le rese dei conti al termine del loro mandato, solitamente annuale; talora rimaneva appannaggio delle assemblee di vicinanza del comune (e non del consiglio di comunità) la nomina dei notai, cancellieri o attuari, che si ritrovavano a volte anche alla diretta dipendenza dei decani.

La rappresentanza e l’amministrazione del comune spettavano al decano o al console: essi facevano pubblicare ed eseguire i regolamenti particolari del comune sui pascoli pubblici, boschi, annona e vettovaglie, infliggevano le multe ai contravventori, venivano convocati in giudizio per i debiti dei comuni, sostenevano cause attive e passive con o senza la partecipazione e l’adesione del consiglio di comunità; prima di entrare in carica prestavano giuramento nelle mani dell’ufficiale di giurisdizione (podestà grigione).

I cancellieri (o notari o attuari) del comune, che potevano risiedere anche al di fuori del comune, custodivano i libri dell’estimo, facevano le volture, estraevano i quinternetti per l’esazione delle imposte che si emettevano per il pagamento delle spese e dei debiti comunali e li consegnavano agli esattori; i cancellieri registravano i verbali dei consigli e ne custodivano gli atti.

I cursori o servitori dei comuni erano depositari della fede pubblica; essi avevano l’obbligo di pubblicare gli ordini e gli avvisi, tanto governativi che comunali, intimavano le multe, avevano il diritto di fare gli atti esecutori contro i debitori, anche privati, se ne venivano incaricati.

L’organizzazione dell’economia e della società valtellinese, prolungatasi senza fratture dal medioevo alla fine dell’età moderna, risentì ovviamente delle trasformazioni climatiche, delle pestilenze, delle vicende militari, delle lotte politiche e religiose, che lasciarono tracce durature e che indebolirono con l’andare del tempo le capacità economiche delle comunità, sempre alla ricerca, tra l’altro, di un equlibrio tra le risorse e l’elemento demografico.

L’attaccamento alle proprietà dei campi, dei boschi, dei pascoli, vitali risorse primarie di sussistenza, non era d’altra parte che un riflesso dell’antico inscindibile legame tra quelle stesse risorse e le condizioni di relativa libertà personale e comunitaria di cui potevano godere gli abitanti (Benetti, Guidetti 1990). Se è pur vero che la Valtellina, dall’epoca del capitolato di Milano (1639) alla fine del dominio grigione (1797) potè godere di un lungo periodo di pace, molto spesso i comuni si trovarono esposti a gravi situazioni debitorie. In questo contesto, nella seconda metà del XVIII secolo, i valtellinesi tollerarono con crescente difficoltà che il legame politico con le tre leghe (che si sostanziava nell’amministrazione della giustizia) costituisse per i comuni un aggravio alla già difficile situazione, per via della malversazione e corruzione degli ufficiali grigioni e per il costo delle lunghe cause in materia finanziaria e giurisdizionale. Il rapido mutare della situazione internazionale, tra il 1796 e il 1797, determinò poi le scelte decisive per il destino della valle e dei contadi (Massera 1991 a).

ultima modifica: 02/01/2007

[ Saverio Almini ]