comune del ducato di Milano sec. XVI - 1757

I rapporti tra le comunità rurali e i comuni medioevali hanno presentato, all’interno degli stessi confini del ducato milanese, caratteri profondamente diversi da zona a zona, secondo il variare, da una parte, degli elementi costitutivi della comunità, cioè territorio, popolazione, ordinamento, e, dall’altra, dalle origini e dalla posizione assunta dal comune.

Da ciò è disceso che gli ordinamenti delle comunità della pianura o della fascia collinare del ducato, dove si impose fin da alta epoca la grande signoria fondiaria e dove più forti si affermarono gli interessi economici dei ceti cittadini, si distinguono nettamente da quelli delle comunità montane e pedemontane. Il significato del termine stesso di comune, considerando le comunità dell’area montana, è stato molto diverso da quello che il medesimo termine assunse presso la comunità rurale del piano e presso le comunità dei borghi più importanti e delle città.

Per la nascita del fenomeno comunale, nei termini particolari dell’epoca medioevale, furono necessarie varie componenti economiche, sociali e politiche. Elemento catalizzatore fu senz’altro la comunione attiva di interessi che si creò fra tutti coloro che, rustici e nobiles, erano (a diverso titolo e in varie misure) soggetti a un determinato signore, e che per presentare le proprie rivendicazioni di diritti avevano bisogno di esprimere una rappresentanza comune, unica o distinta in rusticana e nobiliare.

Nel periodo medioevale, la qualifica più comune per le località comprese nelle varie pievi milanesi (come risulta, a esempio, dal “liber notitiae” di Goffredo da Bussero) era quella di “vicus”, impiegata a designare i villaggi, gli insediamenti che risultavano da un agglomerato di abitazioni vicine. Altre qualifiche, come “fundus”, “locus”, “locus et fundus”, “vicus et fundus” erano probabilmente usate come sinonimi, per indicare appezzamenti definiti di terreni con i relativi insediamenti familiari.

Nei confini dei contadi milanesi, il sistema comunale iniziò una chiara evoluzione e un progressivo consolidamento nel corso del XIII secolo, quando lo spirito di indipendenza del comune di Milano influenzò e stimolò anche nelle campagne la ricerca di autonomia dai vincoli feudali e di forme più larghe di autogestione. La frammentarietà della documentazione disponibile, tuttavia, costituisce un limite a questo tipo di ricerca. Sul cammino dell’emancipazione delle comunità locali, s’innestavano nuove e sfuggenti realtà: la politica difensiva dei feudatari, l’articolazione della popolazione in nobiles, cives e rustici con differenti legami e interessi diversi, la difficile democrazia interna della comunità, resa effettiva dalla possibilità di elezione dei propri rappresentanti, ma subordinata alla volubile situazione del comune cittadino, la stentata ricerca di equilibrio tra tributi locali, cittadini e feudali, ai quali le comunità rustiche erano sottoposte.

Pur con rare eccezioni, l’estensione dei terreni appartenenti alle comunità comprese nel territorio dei contadi milanesi fu sempre esigua, e non tale, comunque, da poter costituire la base di sviluppo per la stessa istituzione comunale, come avvenne nella fascia prealpina dello stesso ducato. I consorzi comunali sorsero piuttosto come associazioni o compagini (“universitates”) di possessori e rustici locali, che contrattavano con il signore del luogo i limiti entro cui intendere la propria soggezione. La crescita del comune coincise con il declino del sistema curtense, che appare largamente testimoniato, a esempio nel territorio del contado della Martesana, fin dal X secolo.

In tutto il territorio dei contadi milanesi la grande proprietà, laica o ecclesiastica, condizionò sempre, dal medioevo alla fine dell’età moderna, lo sviluppo e l’azione dell’istituzione comunale.

Tra i primi ufficiali eletti dalle università si ritrovavano consoli, campari, porcari, degani, gastaldi: da tali nomine (attestate con più frequenza dal XIII secolo) si può desumere come il comune rurale mirasse in primo luogo all’autonoma gestione dell’economia sviluppata al proprio interno e all’indipendenza dei propri rappresentanti (consoli). I vincoli signorili rimasero tuttavia forti, in non limitati casi, per tutto il XIII secolo.

Negli atti ufficiali del XIV secolo, come a esempio gli statuti delle strade e delle acque del ducato di Milano (Compartizione delle fagie 1346), apparivano compresi nelle pievi milanesi diversi luoghi e cassine, chiamati a contribuire alla manutenzione dei tratti di strada che li attraversavano. Nel periodo visconteo erano numerosi i luoghi e le cassine che “facevano comune” da sè, essendo intestatari ciascuno, all’interno della propria pieve, di una quota di tributi. Tra il XV e il XVI secolo, ma soprattutto dopo la redazione dell’estimo di Carlo V, i prospetti approntati dall’autorità centrale dello stato per le esazioni fiscali e gli estimi erano i documenti principali che consentivano di ricostruire, con sufficiente esattezza, gli elenchi dei comuni agenti con propri ufficiali (almeno console, talvolta esattore a anche cancelliere) all’interno delle pievi. Il maggior numero di comuni, talora di ridottissimo peso demografico, si ebbe nel corso del XVI secolo; dalla seconda metà del XVI secolo, ma in particolar modo con la formazione del nuovo estimo nella prima metà del XVIII secolo, si diffuse la tendenza alla concentrazione dei comuni.

Nelle pievi di pianura e collinari del ducato di Milano le strutture delle amministrazioni locali, dal loro emergere nelle fonti alla riforma teresiana del 1755, rimasero assai semplici, e per lo più regolate secondo uno schema comune.

L’assemblea pubblica degli uomini del comune, cioè di coloro che pagavano gli oneri alla camera ducale e regia (denominata convocato o adunanza, oppure indicata come consiglio generale) costituiva l’organo deliberativo, in alternativa, in taluni centri, a un consiglio di più ridotte dimensioni, formato dai rappresentanti dei maggiorenti locali. Assemblee e consigli erano convocati dal console, nella maggior parte dei casi sulla pubblica piazza, premesso il suono della campana. Le riunioni avvenivano generalmente all’inizio o alla fine di ogni anno, per il rinnovo delle cariche comunitarie e per l’approvazione della ripartizione degli oneri spettanti alla comunità; solo di rado erano nuovamente convocati, in via straordinaria, per questioni di rilevante importanza, o quando si trattava di stanziare nuovi tributi. In gran parte delle comunità delle pievi milanesi, consoli (per l’esercizio subordinato delle azioni di tutela dell’ordine pubblico e del rispetto delle norme amministrative) e sindaci (responsabili della conduzione amministrativa del comune), coadiuvati da un notaio o cancelliere, talvolta da un contabile o ragionatto, e da servitori comunali (messi) costituivano l’intero apparato esecutivo. Esattori e postari del sale, scelti con asta pubblica (incanto) e nominati dall’assemblea, si accollavano le operazioni connesse alla riscossione dei tributi diretti e indiretti. La formazione dei “capitoli” di regolamentazione dell’attività degli esattori, insieme alla formazione e approvazione dei “comparti” o “riparti” (la suddivisione, cioè, dei diversi tributi gravanti sulla popolazione del luogo), costituivano in molte piccole terre la principale preoccupazione degli amministratori. Tuttavia, entro tale schema generale, permanevano varietà di sistemi riconducibili, oltre che alla diversa ampiezza e importanza dei comuni, alla loro posizione geografica e a particolari situazioni storiche, al vario stratificarsi di consuetudini locali e di normativa emanata dal potere centrale. In molte piccole o piccolissime terre gli organi deliberativi si riducevano così, come si è accennato, a più ristretti consigli, nei quali un numero limitato di proprietari terrieri si radunava per decidere le consuete nomine comunali e per risolvere i problemi della vita locale. Il sistema di governo delle comunità nel ducato milanese, sostanzialmente ereditato dall’età medioevale, si trasmise formalmente in modo quasi immutato fino al XVIII secolo, non senza tuttavia aver accolto tendenze a un maggior irrigidimento nella composizione degli organi amministrativi locali e propensioni a un graduale atrofizzarsi della partecipazione collettiva, a favore di ridotte rappresentanze, per lo più di proprietari terrieri o loro agenti e procuratori (Superti Furga 1979).

L’organizzazione amministrativa delle comunità che componevano il territorio del ducato consolidatasi nel corso dei secoli secondo le tradizionali norme sancite dalle consuetudini può essere ancora ricostruita attraverso la documentazione raccolta in occasione delle operazioni censuarie iniziate nel secolo XVIII da Carlo VI e terminate in età teresiana. Particolarmente utili sotto questo aspetto risultano le “risposte ai 45 quesiti” fornite dai cancellieri delle comunità alla giunta del censimento, nelle quali l’organizzazione comunitaria appare strettamente intrecciata al sistema fiscale e trova la propria ragione d’essere nella compatibilità con il tortuoso e articolato sistema di ripartizione ed esazione delle imposte.

Alla metà del XVIII secolo, epoca di rilevazione dei 45 quesiti, caratteristica della vita locale era la spiccata frammentazione amministrativa. Comuni, spesso costituiti da agglomerati di poche case, e cascine si amministravano separatamente e pagavano separatamente la loro quota fiscale.

Tra gli apparati amministrativi di ogni comunità, l’organo deliberativo era l’assemblea dei capi di casa, denominata anche consiglio generale o convocato. Prerogativa dell’assemblea generale era l’approvazione dei bilanci, la ripartizione degli oneri, il rinnovo delle cariche comunitarie. Riunioni “straordinarie” erano invece indette per discutere problemi di particolare rilevanza o per far fronte a situazioni inaspettate e imprevedibili, provocate da calamità naturali, dalla guerra, dall’alloggiamento di eserciti, o ancora quando si trattava di approvare ulteriori aggravi finanziari a carico della comunità o di prendere decisioni che incidevano sul patrimonio pubblico (Superti Furga 1995).

È verosimile ritenere anche nelle comunità più piccole, di fatto prive di una vera e propria vita amministrativa, si riunissero una volta all’anno i “capi di casa” insieme agli ufficiali comunali per l’approvazione dei “riparti” relativi a spese e taglie.

Al consiglio particolare o consiglio ristretto in seno alle comunità erano demandate sia funzioni deliberative sia tutte le competenze di carattere esecutivo. Con tendenza diffusa soprattutto a partire dalla fine del XVI secolo, in non poche comunità l’attività dei consigli fu progressivamente subordinata al controllo delle persone più facoltose delle comunità, alle quali, sovente attraverso i loro agenti, a volte direttamente, era riconosciuta la possibilità di intervenire in ogni momento della vita amministrativa e di vincolare alla loro approvazione le operazioni di ripartizione dei carichi fiscali.

Per l’ordinaria gestione della vita quotidiana di ogni singola comunità prestavano servizio i consoli, normalmente scelti tra le “persone vili”. Nominati “a pubblico incanto” o secondo un ruolino di turni, i consoli ricevevano una modestissima remunerazione per svolgere compiti di polizia locale, presenziare agli arresti, notificare le confische di beni, sporgere le denunce per i reati che venivano commessi nei territori del comune. Tali denunce dovevano essere presentate al “maior magistratus” cui la comunità era giurisdizionalmente subordinata e di fronte al quale il console era tenuto, di norma ogni anno, a prestare giuramento. Presso la “banca criminale” del giudice (podestà) il console prometteva di impegnarsi a svolgere le proprie mansioni con diligenza e scrupolosa applicazione delle norme e degli statuti.

Nell’occasione la comunità corrispondeva al giusdicente una modesta somma (Superti Furga 1995).

Sindaco, cancelliere ed esattore, a volte camparo e fante, erano le cariche che completavano l’apparato comunale.

Generalmente al cancelliere spettava il compito di tenere in ordine i libri dei riparti delle imposte, i libri del bilancio comunale e tutte le pubbliche scritture. Spesso il cancelliere operava in più comunità e riceveva da ognuna uno stipendio proporzionato alle incombenze e alla mole di lavoro che doveva svolgere.

In caso di necessità la difesa degli interessi della comunità era demandata a procuratori speciali, scelti tra gli esponenti più rappresentativi della realtà locale.

Unica persona legalmente riconosciuta per la riscossione delle imposte era infine l’esattore, nominato generalmente ogni triennio. Nel momento stesso della nomina, che solitamente avveniva per asta pubblica, esattore e comunità fissavano, oralmente o per iscritto, “i patti di convenzione” che stabilivano la scadenza dei pagamenti, l’interesse sulle somme, l’onorario. L’esattore aveva l’obbligo di pagare, entro la data prefissata e senza possibilità di dilazione, le imposte dovute usando del capitale proprio; in seguito doveva provvedere alla riscossione sulla base dei riparti che gli venivano consegnati dalla comunità presso cui prestava servizio. Doveva innanzitutto esigere dai singoli contribuenti la quota corrispondente ai carichi regi e provinciali; in secondo luogo, provvedere alla esazione dei tributi per le spese locali. Per le somme che non riusciva a riscuotere l’esattore aveva la facoltà di “retrodare, ossia di imporre di nuovo la prima esazione sopra i paganti e contribuenti” (Risposte ai 45 quesiti, 1751).

ultima modifica: 12/06/2006

[ Saverio Almini ]