monastero di San Benedetto 758 - sec. XV

Monastero benedettino maschile.
Il monastero fu fondato nel 758 da re Desiderio a Leno in una zona di antico insediamento longobardo, su strutture preesistenti tra cui una chiesa anch'essa fondata dal re e dedicata al Salvatore, a Maria e a san Michele (Bognetti 1963, p. 523; Violante 1963, p. 1004; Breda 2002 a, pp. 244-245). Per quanto concerne la dedicazione del cenobio, nei diplomi imperiali fino al 1001 il monastero è intitolato al solo san Benedetto; nelle bolle papali e nei diplomi imperiali dal 1014 in poi compare la duplice dedicazione a san Salvatore e san Benedetto (Violante 1963, pp. 1004-5). Il monastero verrà in genere definito di San Benedetto "de Leonis" o "ad Leones" (Picasso 2002 b, p. 16). La nuova istituzione, ampiamente dotata di beni dal re longobardo, ricevette in breve tempo le importanti reliquie dei santi Vitale e Marziale giunte da Roma (Azzara 2002, pp. 21-22) e quelle di san Benedetto da Montecassino. Anche i primi monaci giunsero a Leno da Montecassino (Bognetti 1963, pp. 424 e 437; Violante 1963, p. 1005; Azzara 2002, p. 22); nel giro di poco più di vent'anni la comunità crebbe, raggiungendo le cento unità (Azzara 2002, p. 23; Constable 2002, p. 157; Archetti 2002 b, p. 93), di cui circa un terzo erano "pueri oblati". I documenti pubblici del monastero di Leno dall'inizio dell'età carolingia danno notizia dei provvedimenti presi in favore del cenobio (Baronio 2002, pp. 35-46; Archetti 2002 b, pp. 103-107; Constable 2002, pp. 158-160). Dal IX al tutto l'XI secolo i beni di San Benedetto furono più volte riconfermati dall'autorità laica ed ecclesiastica: il monastero ricevette la protezione apostolica, l'immunità dalla giurisdizione civile, il diritto di ricorrere a un avvocato del monastero per le cause giudiziare, l'esenzione da qualsiasi ingerenza laica o ecclesiastica sulle sue terre e i suoi beni. Per quanto concerne il patrimonio monastico, esso si andò consolidando nell'XI secolo. I beni erano dislocati innanzitutto nella pieve di Leno e nella bassa bresciana; il cenobio possedeva fondi in Franciacorta, in Valsabbia e lungo tutta la sponda bresciana e veronese del Garda, case e terreni a Brescia (Terraroli, Zani, Corna Pellegrini 1989, p. 120), Verona (Varanini 2002, p. 87-91) e Pavia, nonché beni nel mantovano, nel parmense e nel modenese, lungo il corso dell'Oglio, una corte a Sabbioneta, delle saline a Comacchio e diritti di ripatico sui porti del Po in questa zona. Nell'Italia centrale il cenobio era provvisto di beni in Garfagnana e in Lunigiana, tra cui un ospizio e un priorato a Montelungo (Rigosa 2001, pp. 289-294). Nell'XI secolo il monastero possedeva un patrimonio ampio e diversificato in grado di garantire l'autosufficienza economica, manteneva l'esercizio della giurisdizione civile ed ecclesiastica nella zona intorno al cenobio e il controllo di punti strategici di transito di merci e di uomini (Baronio 2002, p. 37). Il monastero, tra i più importanti della zona insieme a quello di Santa Giulia di Brescia, aveva tra i monaci e tra i vassalli i membri delle più importanti famiglie bresciane, tra cui i Gambara e i Lavellolongo, Capriano, Poncarali e altre (Baronio 1984, pp. 9-45), feudatarie oltre che dei monasteri di cui si è detto, anche del vescovo e del cenobio di San Faustino di Brescia. La situazione di prosperità e relativa tranquillità del cenobio - non erano però mancati contenziosi e cause per questioni patrimoniali e giurisdizionali, quali ad esempio quella del 1060 con il vescovo di Luni per le decime di Montelungo (Kehr 1913, p. 344) - continuò anche nel secolo successivo, nonostante le difficoltà subite prima e durante la guerra tra Federico I e il comune di Brescia. Le cose cominciarono a peggiorare nel corso del conflitto e dello scisma tra l'imperatore e il papato, quando anche la vita interna del cenobio, filoimperiale (Violante 1963, p. 1051), fu sconvolta. I contrasti con l'autorità episcopale bresciana, che puntava a espandere la sua giurisidizione sulle campagne bresciane a spese del cenobio, conobbero una svolta con il processo tra il vescovo Raimondo e l'abate di Leno per diverse questioni giurisdizionali relative al possesso e ai diritti sulle chiese della Bassa bresciana, negli anni 1194-1195 (Violante 1963, p. 1052; Constable 2002, pp. 125-214). Il processo, di cui non si conosce l'esito, fu probabilmente favorevole al vescovo supportato dal comune di Brescia, che mirava in tal modo a ridurre e il potere dei signori rurali vassalli del monastero (Violante 1963, p. 1055) e danneggiò fortemente gli interessi di San Benedetto, contribuendo ad un inevitabile, lento declino. Nel 1212 Innocenzo III delegò al vescovo di Cremona Sicardo il riordino economico del monastero (Violante 1963, pp. 1066-67): il monastero lenese attraversava una crisi anche morale e disciplinare, come si deduce dal fatto che Sicardo intervennisse vietando all'abate ed ai monaci il possesso di proprietà private, mentre quelle già possedute andavano cedute entro otto giorni. Testimoniano queste difficoltà anche le disposizioni emanate da Gregorio IX negli anni successivi (Cirimbelli 1971, p. 247). Poche e frammentarie sono le notizie sul cenobio per i secoli successivi. Nel XIV secolo il patrimonio librario e documentario dell'ente si era notevolmente ridotto, tanto che l'abate Andrea di Tachovia evidenziò la circostanza eccezionale del ritrovamento di una Bibbia (Ferraglio 2002, p. 153). Nel 1349 la "domus" umiliata "de medio" di Brescia venne aggregata al monastero di Leno, a cui sarebbe rimasta legata fino al 1436 (Violante 1963, pp. 1122). Alla fine del XIV secolo l'abate di Leno si rivolse al duca di Milano per ottenere delle esenzioni fiscali, sostenendo che il monastero aveva subito perdite di libri, "paramenti e ... ogn'altra cosa necessaria" (Ferraglio 2002, p. 153). Nel 1434 Eugenio IV confermò al cenobio i suoi beni: si riportava qui l'elenco di beni posseduti dal cenobio nel XII secolo, a riprova del fatto che nonostante la crisi il patrimonio monastico era rimasto sostanzialmente invariato. Questa ricchezza ebbe un ruolo di primo piano nelle sorti del monastero che nel XV secolo portarono al passaggio alla commenda. Nel 1471 l'abate Bartolomeo Averoldi intrecciò contatti con i rappresentanti della congregazione di Santa Giustina di Padova, per introdurre il cenobio lenese nella congregazione (Tagliabue 2002 b, p. 215-238). Il tentativo di Averoldi non andò a buon fine: il considerevole patrimonio fondiario del monastero di Leno costituiva una ricca fonte da concedere in beneficio ai potenti alleati di Sisto IV (Tagliabue 2002 b, p. 215-223); nello stesso tempo la ricchezza fondiaria lenese era oggetto di attenzione da parte del Senato veneto. Per tutti questi motivi il cenobio non fu aggregato a Santa Giustina. Nel 1479 Averoldi rinunciò alla carica di abate di Leno e il monastero venne dato in commenda. Gli edifici costituenti il cenobio e la basilica abbaziale risentirono fortemente della situazione di abbandono, come si ricava dagli atti della visita apostolica compiuta nel 1580 da Carlo Borromeo alla diocesi di Brescia, in occasione della quale il cardinale si recò personalmente a Leno. Nel 1676 la commenda di Leno cadde vittima del "Magistrato sopra i monasteri" istituito dal governo veneto. Nel 1734 fu abate commendatario il vescovo di Brescia Angelo Maria Querini (Spinelli 2002 a, pp. 339-49), ma nemmeno sotto il suo governo il monastero riuscì a risorgere. Nel 1782, alla morte del commendatario Lombardi, si provvide alla vendita dei terreni su cui il monastero, ormai fatiscente, era edificato; la chiesa divenne cava di materiale per la costruzione della nuova parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo (Baronio 2002, p. 49). Nel 1783 la vicinia del comune di Leno chiese al Governo Veneto, a nome della popolazione, il permesso di trasferire l'arca con le reliquie dei santi Vitale e Marziale dalla basilica che minacciava di crollare alla nuova chiesa e di abbattere l'antico edificio sacro: il comune ricevette risposta affermativa il 5 giugno di quell'anno (Cirimbelli 1971, pp. 16 -17). La traslazione dell'arca avvenne il 20 novembre 1785 alla presenza del vescovo di Brescia Giovanni Nani, che due giorni dopo accordò all'arciprete di Leno il permesso di sconsacrare la chiesa abbaziale e farla demolire (Cirimbelli 1975, p. 257).

ultima modifica: 12/06/2006

[ Diana Vecchio ]