parrocchia sec. XIII - sec. XX

Nell’Italia settentrionale l'organizzazione della vita ecclesiastica e della cura animarum si configura al di fuori delle città per pievi, raggiungendo un assetto praticamente compiuto tra il VII e il X secolo. Le cosiddette ecclesiae subiectae, inizialmente solo oratori o capelle nel territorio della pieve, acquistarono soprattutto a partire dal XII-XIII secolo una sempre più spiccata autonomia. Le cause dello smembramento della pieve furono senza dubbio molteplici e complesse. La chiesa plebana, dal X secolo denominata anche chiesa matrice rispetto alle altre del suo territorio, come già precedentemente la cattedrale cittadina, conservò tuttavia la sua fisionomia di chiesa battesimale e di caput decimationis fino al tardo medioevo. Lo studio dello sviluppo dell’istituzione parrocchiale deve pertanto tenere conto del più generale rapporto tra i luoghi di culto e i centri di popolamento, tra la conservazione di stampo gerarchico-istituzionale e l'innovazione di carattere localistico-popolare. Il sorgere della parocchia rurale va messo anche in rapporto con il costituirsi delle signorie territoriali, sia laiche sia ecclesiastiche. La parabola evolutiva istituzionale in ambito urbano presenta analogie con quella dell'ambiente rurale. Sembra necessario, in particolare, non perdere di vista il moltiplicarsi degli edifici di culto di carattere feudale, nobiliare o monastico, con il correlativo risvolto del giuspatronato privato (ius praesentandi, ius collationis, o electionis). Nelle città va ascritta in linea generale ai secoli XII-XIII la nuova situazione pastorale in cui la chiesa cattedrale vide venir meno il proprio esclusivo diritto di battezzare, ma d’altra parte non dovette essere assoluto il collegamento tra l’avvento della società comunale e il quasi simultaneo sorgere delle realtà istituzionali che vennero riconosciute canonicamente in seguito come parrocchiali (DCA, Parrocchia).

Tra XIV e XV secolo, il processo di enucleazione delle singole comunità rispetto all’originario centro pievano è ormai da tempo compiuto in tutte le diocesi lombarde, e le chiese locali compaiono come cappelle, cappellanie curate, rettorie talora già dotate di propri beni. Tuttavia, è solo molto più tardi, cioè con il Concilio tridentino, che si entra propriamente nella fase istituzionale parrocchiale. L’opera riformatrice o rifondatrice dei prelati che operarono in epoca post-tridentina riconobbe e istituzionalizzò la situazione di fatto, sovente sanzionandola in atti formali, sulla spinta da una parte delle istanze delle comunità locali, dall’altra dei dettati conciliari. Il parroco divenne infatti nella periferia della diocesi il fulcro portante del rinnovamento pastorale. Al parroco, come al vescovo, era richiesto l'impegno della residenza, era raccomandata la conoscenza del popolo attraverso la compilazione e l'accurata custodia dei libri parrocchiali, era richiesto di partecipare alle adunanze vicariali.

Non secondario aspetto della riforma tridentina fu l'accentuazione della valenza territoriale della parrocchia: "in quelle città a luoghi dove le chiese parrocchiali non hanno confini ben definiti e i loro rettori non hanno un popolo da reggere ma amministrano solo indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il Santo Sinodo comanda ai vescovi che, per ottenere con una maggiore certezza la salute delle anime loro affidate, diviso il popolo in parrocchie vere e proprie, assegnino a ciascuna un proprio parroco permanente, che possa conoscerle, e da cui soltanto ricevano lecitamente i sacramenti... E cerchino di fare al più presto la stessa cosa nelle altre città e luoghi dove non vi sono affatto chiese parrocchiali" (Concilium Tridentinum, Sess. XXIV, De Ref., cap. 13 ; DCA, Parrocchia). La caratteristica della territorialità finì per restare di fatto in primo piano nella stessa dottrina canonistica sulla parrocchia sino al Codice di diritto canonico del 1917 (CIC 1917, can. 216 § 1) e oltre, ancorché non fosse mai caduta la nozione di parrocchia personale (CIC 1917, can. 216 § 4) e gentilizia. Si deve attendere in pratica il Concilio Ecumenico Vaticano II per trovare un cambiamento nella prospettiva ecclesiologica della parrocchia. L’istituzione parrocchiale, però, già alla sua stessa origine non si risolveva intrinsecamente nel territorio, ma risultava costituita anche da altri elementi essenziali, cioè la popolazione, la chiesa parrocchiale, e il parroco, investito dell’ufficio ecclesiastico. Da un punto di vista costitutivo, l’elemento indispensabile era, come è ancora oggi, il popolo dei fedeli. L’individuazione del “populus” era fatta sulla base dell’elemento territoriale, attraverso il concetto del domicilio.

La parrocchia, che in quanto tale solo in epoca recente, cioè con il Codice di diritto canonico del 1983, ha visto riconosciuta la possibilità di vedere sanzionato il proprio profilo istituzionale con il riconoscimento della personalità giuridica, ha sempre avuto rilievo istituzionale-giuridico sia pure indirettamente, attraverso i suoi tre elementi costitutivi della chiesa, del beneficio parrocchiale e della fabbriceria, i quali a loro volta hanno avuto solo in determinati periodi riconosciuta dallo stato una specifica personalità. Nella chiesa parrocchiale si esercitavano le funzioni di culto e si amministravano i sacramenti. A essa si connetteva l’ufficio ecclesiastico, cioè il complesso di funzioni che per diritto proprio doveva esercitare chi era addetto alla chiesa, cioè il sacerdote parroco. Alla chiesa si potevano riferire diritti spirituali e temporali e beni immobili. Il beneficio parrocchiale era costituito dalla rendita dei beni assegnati al sacerdote addetto, come compenso per l’ufficio che egli esercitava. La fabbriceria era la fondazione destinata alla conservazione e manutenzione della chiesa e alle spese di culto. L’erezione di nuove parrocchie comportava necessariamente la previsione dei relativi redditi beneficiari, che costituissero una dotazione stabile e congrua. Potevano anche essere eretti benefici senza attribuzioni, purché ci fosse la previsione di futuri altri redditi. Il vescovo aveva la facoltà di dividere una parrocchia per formare nuove circoscrizioni parrocchiali, ma per costituire nuovi benefici doveva sentire il parere del capitolo cattedrale. La nuova parrocchia non doveva portare detrimento a quelle già esistenti, e per questo il vescovo, prima di decidere nuove erezioni, doveva sentire il parere dei rettori delle chiese preesistenti.

La costituzione di nuove parrocchie doveva essere motivata o dalla difficoltà per la popolazione di accedere alla precedente chiesa parrocchiale, o dalla crescita della popolazione. Il caso più frequente di erezione di nuove parrocchie era quello che avveniva per divisione, per cui una parte del territorio e della popolazione con i diritti spirituali e temporali di più parrocchie veniva separato allo scopo di formare un nuovo ente. Nel caso di “divisio”, il vescovo doveva provvedere che fosse assegnata alla nuova parrocchia una congrua dotazione, che doveva desumersi dai redditi pertinenti alle chiese matrici, purché alle medesime rimanesse una sufficiente quota di redditi. Lo smembramento, invece, era la divisione parziale di una sola parrocchia matrice o del beneficio, cioè lo stralcio da questa di una parte del territorio e del beneficio, per assegnarli alla nuova chiesa. Ai vescovi spettava inoltre la potestà di trasferire la sede di una parrocchia da un luogo ad un altro, e da una chiesa ad un’altra, anche all’interno di una stessa parrocchia.

Nei territori diocesani già compresi entro i confini della Lombardia austriaca, le riforme avanzate dal governo portarono come è noto alla predisposizione di un piano complessivo di riorganizzazione delle parrocchie, che trovò materialmente attuazione nell’ambito delle città maggiori tra il 1787 e il 1789. L'intento della giunta economale era di intervenire sui benefici ecclesiastici sopprimendo quelli non direttamente connessi con la cura animarum, al fine di recuperare tra l'altro rendite da destinarsi a maestri, medici e levatrici di campagna; e di impiegare per la cura d'anime propriamente parrocchiale nelle città le chiese già officiate da regolari in quanto generalmente più capienti; adibendo una serie di edifici, tra i quali le soppresse parrocchiali, a chiese sussidiarie. Anche la successiva politica ottocentesca verso le istituzioni ecclesiastiche e corporazioni religiose (dall’epoca napoleonica all’Italia post-unitaria) fu attuata in modo da salvaguardare la cura d’anime parrocchiale.

Il Concilio Vaticano II ha confermato la fiducia della Chiesa nell'istituzione parrocchiale proponendo di essa una lettura nella prospettiva dell'ecclesiologia di comunione (costituzione 4 dicembre 1963, § 42; decreto 28 ottobre 1965, §§ 30-32; decreto 18 novembre 1965, § 10; direttorio 22 febbraio 1973, §§ 174-183). Il Codice di diritto canonico del 1983 ha segnato una svolta importante con riconoscere personalità giuridica alla parrocchia (CIC 1983, can. 515 § 3) espressamente concepita come “Communitas Christifidelium”, nonché con l'avvio del superamento del sistema beneficiale (CIC 1983, can. 1272-1274). Il nuovo Codice ha tuttavia confermato che possano esistere parrocchie personali (CIC 1983, can. 518) costituite ad esempio per fedeli di una stessa lingua o di uno stesso rito, le“parrocchie” ospedaliere, le quasi-parrocchie (CIC 1983, can. 516) tra cui vanno annoverate le vicarie curate e le delegazioni vescovili. In seguito alla revisione concordataria (legge 20 maggio 1985) e all’entrata in vigore del relativo regolamento di esecuzione (decreto 13 febbraio 1987), il riconoscimento della personalità giuridica agli enti della Chiesa cattolica, ai quali in base alla Costituzione della Repubblica Italiana (costituzione 27 dicembre 1947, art. 7, 8 e 20) e già al Concordato del 1929 veniva riconosciuto lo stesso trattamento degli enti civili, cioè quello di soggetti di diritto privato, è stato modificato. La legge 222 del 1985 prevede la riconoscibilità degli "istituti religiosi di diritto diocesano" (art. 8) e delle "società di vita apostolica ed associazioni pubbliche di fedeli" (art. 9), anche se a determinate condizioni, e dispone espressamente (art. 10) la riconoscibilità alle condizioni previste dal codice civile per le associazioni costituite o approvate dall'autorità ecclesiastica che non possano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica ai sensi dell'art. 9 della legge.

La medesima legge dispone (art. 29) che “con provvedimento dell’autorità ecclesiastica competente”, vengano “determinate la sede e la denominazione delle diocesi e delle parrocchie... Tali enti acquistano la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del Ministro dell’Interno...” .

BENEFICIO PARROCCHIALE

La precisa definizione dei benefici, e tra questi del beneficio parrocchiale (beneficio curato), come enti giuridici venne solo con il Codice di diritto canonico del 1917. Al can. 1409, infatti, il beneficio ecclesiastico era identificato come un ente giuridico, eretto dalla competente autorità ecclesiastica, in perpetuo, e costituito dall’ufficio sacro, sul quale solamente si fondava la personalità giuridica del beneficio, e dal diritto di percepire i redditi della dote annessa, come mezzo necessario a sostenere l’ufficio da parte del beneficiato, usufruttuario e non proprietario del beneficio. L’autorità ecclesiastica era l’unica che potesse congiungere la dote, da chiunque costituita (“fundatio beneficii”) all’ufficio ecclesiastico (“erectio beneficii”). Il beneficio era dunque costituito da due elementi: uno definito “spirituale”, l’ufficio sacro, l’altro “materiale”, la dote annessa.

L’origine dei benefici, intesi in senso generale, si deve ricercare nelle prime fasi della cristianizzazione. All’origine il vescovo distribuiva le offerte dei fedeli, per mezzo dell’arcidiacono, ai poveri, alle chiese, al clero. I sacerdoti rurali godettero, a loro volta, l’usufrutto di un praedium, diritti feudali, prestazioni reali. Soltanto verso l’XI secolo i benefici divennero perpetui. La dote del beneficio poteva essere costituita da beni mobili o immobili, come campi, vigneti, boschi, pascoli, case, e in seguito titoli del debito pubblico o titoli di stato; da prestazioni certe e obbligatorie da parte di famiglie o persone morali, come le decime, la congrua governativa, assegni del comune; da offerte sicure e volontarie dei fedeli, spettanti al beneficiato, come le tasse o quotazioni liberamente assunte; dai diritti di stola, nei limiti delle tasse diocesane o della legittima consuetudine, pagati a chi compiva l’ufficio ecclesiastico, non come compenso strettamente personale, ma a titolo appunto beneficiario. Il beneficio parrocchiale era, come si è accennato, un beneficio curato, in quanto aveva annessa la cura d’anime: in analogia con gli uffici ecclesiastici, anche i benefici potevano distinguersi in riservati e di libera collazione, elettivi e di giuspatronato. Non erano ritenuti veri benefici (CIC 1917, can. 1412) le vicarie parrocchiali, non essendo erette in perpetuo; le cappellanie laicali; le coadiutorie con o senza futura successione; le pensioni personali; la commenda temporanea.

L’erezione era l’atto legittimo con cui la competente autorità ecclesiastica costituiva il beneficio. La fondazione consisteva invece nella costituzione della dote beneficiaria. Il beneficio non si poteva erigere se non aveva una dote stabile e conveniente, con redditi perpetui; prima dell’erezione dovevano essere chiamati e sentiti i terzi cointeressati (CIC 1917, can. 1416), ma non era necesario il loro consenso; il beneficio, quanto alla forma, doveva essere eretto con strumento o scrittura legale e pubblica, ove si dichiarava il luogo (chiesa, cappella) in cui si erigeva; quale fosse la dote del beneficio e quali i diritti e gli oneri del beneficiato (CIC 1917, can. 1418).

Con la legge 15 agosto 1867 n. 3848 fu disconosciuta la personalità giuridica di molti benefici, ma furono pienamente riconosciuti dallo stato i benefici parrocchiali con quelli cui era annesso l’onere permanente della cura d’anime. Nell’Italia post-unitaria i benefici in cura d’anime di nuova erezione potevano ottenere il riconoscimento giuridico, in applicazione dell’art. 2 del codice civile, con il quale lo stato si riservava il diritto esclusivo al riconoscimento dei corpi morali; non mancavano però, in forza della legge 13 maggio 1871 n. 214 detta delle Guarentigie (art. 16) e del regio decreto 6 maggio 1920 n. 642 alcune limitazioni. Un deciso chiarimento fu portato dall’art. 31 del Concordato del 1929 tra Italia e Santa Sede, concernente l’erezione di nuovi enti ecclesiastici e tra questi delle nuove parrocchie (più propriamente: dei benefici parrocchiali). La procedura per ottenere il decreto di riconoscimento agli effetti civili dal Ministero degli interni, Direzione generale dei culti, era indicata dall’art. 7 del regolamento esecutivo. La domanda veniva indirizzata dal rappresentante dell’istituto ecclesiastico canonicamente eretto, corredata del provvedimento canonico di erezione e dei documenti atti a dimostrare la necessità o l’evidente utilità dell’ente e la sufficienza dei mezzi per il raggiungimento dei propri fini (regolamento esecutivo, art. 7).

Una forma particolare di conferimento del beneficio era quella preceduta dalla presentazione del candidato da parte di un patrono (comunità; padronato; famiglia; clero regolare; re; governo). Il giuspatronato veniva definito (CIC 1917, can. 1448) quel complesso di privilegi e di oneri che, per concessione della Chiesa, spettavano ai cattolici fondatori di una chiesa, di una cappella o di un beneficio, oppure a coloro che dai fondatori avevano legittimamente acquisito il diritto: il patrono presentava l’ecclesiastico da lui prescelto, al quale, se ritenuto idoneo per il benefico vacante, l’ordinario doveva conferire il beneficio (CIC 1917, can. 1466). Le elezioni e le presentazioni popolari, largamente diffuse in epoca moderna in varie zone della Lombardia, erano appena tollerate dal Codice di diritto canonico del 1917 e a condizione che il popolo scegliesse tra una terna di nomi proposti dall’ordinario (CIC 1917, can. 1452). Solo con il Concordato del 1929 (art. 25) lo stato italiano rinunciò alle prerogativa sovrana del regio patronato sui benefici maggiori e minori, che gradualmente decaddero.

L’istituto del beneficio ecclesiastico, anche dopo il Concilio Vaticano II, ha costituito il principale strumento tecnico per procurare il sostentamento del clero. Il Concilio si è occupato del beneficio nel decreto “Presbyterorum Ordinis” (decreto 7 dicembre 1965, §. 20), giungendo alla conclusione che il sistema beneficiale doveva “essere abbandonato, o almeno riformato a fondo”. Il Codice di diritto canonico del 1983 ha successivamente prefigurato (CIC 1983, can. 1272 § 1) l’istituto diocesano per il sostentamento del clero, chiamando la Conferenza episcopale alla graduale devoluzione dei redditi e per quanto possibile della dote stessa beneficiale all’istituto. La finalità di questa trasformazione, attuata nelle diocesi con normativa particolare degli ordinari, era di sostituire un sistema pressoché privatistico di sostentamento del clero (“ius percipiendi reditus”) con un sistema pubblicistico e solidaristico (istituto diocesano per il sostentamento del clero) (Rovera 1985).

PARROCO

Se si eccettuano le chiese collegiate urbane e le non molte canoniche plebane del forese, le parrocchie lombarde ebbero di norma, tra XVI e XX secolo, non più di un sacerdote addetto, il parroco, al più coadiuvato da un vicario. Diverso il caso dei sacerdoti addetti alle cappellanie (cappellani), istituite nelle parrocchie, coabitanti e celebranti nel medesimo territorio e sovente nella stessa chiesa, il cui sostentamento si basava però su rendite stabilite nei rispettivi atti di fondazione e la cui attività di culto non era correlata con l’istituto parrocchiale, bensì regolata dalla finalità della propria fondazione. Prescindendo dai non molti casi di cura d'anime collegialmente organizzata, casi nei quali accanto al praepositus o all'archipresbyter compariva il canonicus curatus, detto anche canonicus parochus, alle difficoltà della cura pastorale si soleva far fronte attraverso la suddivisione porzionaria della parrocchia. Già a partire dal secolo XIV tale soluzione risulta introdotta in diverse parrocchie, sia pure con varianti e peculiarità locali. Ad esempio, unica chiesa officiata alternativamente dai porzionari, oppure più edifici di culto officiati dai rispettivi rettori (DCA, Parrocchia).

La responsabilità della parrocchia era comunque affidata ai parroci, che una volta nominati erano di norma inamovibili, se non per gravi motivi. A capo di ciascuna parrocchia non si trovava che il solo parroco, come a capo della diocesi non c'era che il vescovo. La scelta e la nomina dei parroci e dei vicari spettava normalmente al vescovo. Tuttavia, in non pochi paesi esisteva il diritto di patronato, in virtù del quale alcune persone fisiche (il discendente da una famiglia nobiliare, ad esempio) o morali (un capitolo, un comune) erano abilitate a presentare al vescovo i candidati, allorché le parrocchie di cui avevano il patronato si rendevano vacanti. Il vescovo era obbligato a conferire la parrocchia al sacerdote presentato, se questi soddisfaceva alle condizioni richieste. Con il tempo il diritto di patronato si è progressivamente eroso a favore delle facoltà degli ordinari diocesani, soprattutto dalla fine dell’antico regime. Nel XIX e XX secolo, il diritto di patronato così come il diritto di elezione non hanno goduto del favore della legislazione canonica. Con i Patti Lateranensi del 1929 tra Italia e Santa Sede, lo stato si è impegnato, sia pure in modo non automatico, alla revoca del diritto di patronato regio laddove esistente.

Il Codice di diritto canonico del 1917 fissava e riassumeva facoltà, prerogative, obblighi del parroco così come di fatto consolidati dall’epoca post-tridentina. In possesso del foglio di nomina, il parroco emetteva la professione di fede e prendeva possesso della parrocchia nel corso di una cerimonia più o meno solenne. A partire dalla presa di possesso, aveva diritto di esercitare i poteri legati alla funzione parrocchiale ed era costretto agli obblighi che ne derivavano. I diritti del parroco non erano rapportabili a quelli del vescovo. Egli non disponeva nè del potere legislativo, nè del potere giudiziario, nè del potere coercitivo. La Chiesa non gli riconosceva sui parrocchiani che una specie di potere dominativo o paterno. Poteva dare ordini ai parrocchiani, ma non precetti giurisdizionali e in nessun caso era autorizzato a infliggere pene canoniche. Tuttavia gli era riservata tutta una serie di funzioni pastorali e cultuali, che gli altri sacerdoti potevano compiere soltanto con il suo permesso: l'amministrazione del battesimo solenne e dell’estrema unzione, il trasporto pubblico della comunione e del viatico, l'assistenza al matrimonio, la benedizione nuziale, la benedizione del fonte battesimale. Il parroco poteva assolvere dai peccati i propri parrocchiani nel mondo intero; li dispensava pure, ovunque, dal digiuno, dall'astinenza e dalla legge che impone l'assistenza alla messa, come pure dall'astensione dal lavoro nelle domeniche e nei giorni di festa. Godeva degli stessi poteri, nel proprio territorio, sugli stranieri di passaggio; poteva dispensare dagli impedimenti matrimoniali che il Codice di diritto canonico gli riconosceva nei casi urgenti e in pericolo di morte. Gli obblighi che il diritto imponeva al parroco erano dettati dalla preoccupazione del bene delle anime di cui aveva la responsabilità: la residenza, la predicazione, il catechismo, l'amministrazione dei sacramenti, l'assistenza ai malati e ai moribondi, l'offerta del sacrificio della messa per i suoi parrocchiani la domenica e le feste. Erano inoltre compito del parroco diversi adempimenti amministrativi: la tenuta dei registri di battesimo, di cresima, di matrimonio, di morte, di stato d'anime, le investigazioni matrimoniali, l'amministrazione dei beni temporali della chiesa e della parrocchia in collaborazione con il consiglio dei fabbricieri. L'attività dei parroci e lo stato delle parrocchie erano sottoposti a un controllo continuo e regolare da parte dell'amministrazione diocesana. Il vescovo era obbligato a visitare, in persona o per mezzo di un delegato, ogni parrocchia della sua diocesi ogni cinque anni. Con gli elementi raccolti nel corso dell'ispezione delle parrocchie stendeva il rapporto quinquennale sullo stato della diocesi, richiesto dalla Santa Sede. Così, con l'intermediario dei vescovi, l'autorità centrale conosceva la situazione di ciascuna chiesa particolare anche nei minimi dettagli.

Per quanto riguarda lo status del parroco, solo all'inizio del XX secolo si giunse a un importante snodo del dibattito giuridico-pastorale relativo al tema dell'amovibilità-inamovibilità. La Sacra Congregazione concistoriale con il decreto “Maxima Cura” del20 agosto 1910, recepito nel Codice di diritto canonico del 1917, precisava, sul presupposto di una generale e acquisita inamovibilità, i casi particolari di una possibile revoca del mandato del parroco e di una conseguente rimozione. E' noto che oggi il diritto generale (motu proprio 6 agosto 1966, I, § 20) ha ampiamente superato il criterio dell'inamovibilità.

La vigente normativa canonica affida al parroco il governo della parrocchia, ossia la cura d’anime dei fedeli e l’amministrazione ecclesiastica dei beni parrocchiali, governo esercitato sotto la direzione e la vigilanza dell’ordinario. Al momento della presa di possesso canonica del proprio ufficio il parroco consegue di diritto precise funzioni e obblighi: l’annuncio integrale della parola di Dio attraverso le omelie, la catechesi, la liturgia eucaristica e il sacramento della riconciliazione, con particolare riguardo rivolti alla formazione dei fanciulli, dei giovani, dei lontani e degli erranti (CIC 1983, can. 528); la conoscenza dei fedeli affidati alle proprie cure, la condivisione dei problemi, l’assistenza agli ammalati, ai moribondi, ai poveri e ai deboli, la formazione spirituale degli sposi e dei genitori, l’attenzione verso associazioni con dichiarate finalità religiose (CIC 1983, can. 529); l’amministrazione del battesimo, della cresima in pericolo di morte e dell’estrema unzione, l’assistenza al matrimonio e la benedizione delle nozze, la pubblicazione delle ordinazioni e dei matrimoni, la celebrazione dei funerali e dell’Eucarestia più solenne nelle domeniche e nelle feste di precetto e la benedizione del fonte battesimale (CIC 1983, can. 530); l’obbligo alla residenza in parrocchia (CIC 1983, can. 533); infine, la redazione e tenuta dei registri parrocchiali e la cura e custodia dell’archivio (CIC 1983, can. 535).

VICARIO PARROCCHIALE (COADIUTORE)

Il vicario parrocchiale (coadiutore) è un sacerdote che tiene le veci del parroco nella cura d’anime. Si riscontrano atti relativi all’erezione di benefici coadiutorali già nel corso del XVII secolo; ma sacerdoti potevano svolgere le funzioni di coadiutore anche attingendo a redditi precari. Coadiutori furono stabiliti in seguito all’attuazione del piano governativo di riforma parrocchiale del 1787. I vicari venivano accordati anche in seguito dai vescovi alle parrocchie per le quali la distanza delle frazioni dal centro o l’accresciuta popolazione rendevano necessaria la presenza di altri sacerdoti nello svolgimento del culto e per l’attività pastorale, purché fossero garantite le sufficienti entrate. Il Codice di diritto canonico del 1917 enumerava cinque specie di vicari parrocchiali: vicari perpetui attuali; vicari economi; vicari sostituti; vicari adiutori; vicari cooperatori. Il primo era colui che esercitava la cura d’anime in luogo del parroco qualora questi fosse costituito da una persona morale e non fisica, ad esempio un capitolo. Il vicario economo era il sacerdote che reggeva una parrocchia vacante. Il vicario sostituto era il sacerdote al quale era commessa la cura d’anime in assenza legittima del parroco o per sua rimozione in attesa del perfezionamento della causa. Il vicario adiutore suppliva il parroco incapace di adempiere esattamente i suoi doveri per vecchiaia o altra causa permanente. Il vicario cooperatore (il “coadiutore” cui si accennava) doveva rimanere soggetto al parroco, il quale aveva il compito di istruirlo, dirigerlo nella cura d’anime, e ne dava le referenze all’ordinario (Masseo 1967).

Il Codice di diritto canonico del 1983 ha ribadito che la cura pastorale della parrocchia può essere attuata in modo adeguato affiancando al parroco uno o più vicari parrocchiali (coadiutori), i quali, come suoi cooperatori prestano la loro opera nel ministero pastorale, uniti al parroco e sotto la sua dipendenza. Il vicario parrocchiale può essere costituito per collaborare insieme al parroco in tutto il ministero pastorale da esplicare: o per l’intera parrocchia o per una determinata parte, o con un preciso ceto di persone, oppure per dedicarsi a un ministero specifico. I vicari parrocchiali, che devono essere sacerdoti, vengono nominati dal vescovo diocesano (Abate 1983).

FABBRICERIA

Sotto il nome di fabbriceria si comprendono spesso tutte le amministrazioni le quali, con varie denominazioni (fabbriche, opere, cappelle) provvedevano all’amministrazione dei beni delle chiese e alla manutenzione dei rispettivi edifici, senza alcuna ingerenza nei servizi di culto. La loro fisionomia fu sempre di carattere laicale. Si trattava di istituti talora indistricabilmente legati alla storia delle comunità locali e alle loro strutture amministrative. Il loro rilievo istituzionale, invece, non fu sempre ben definito. Le fabbricerie in senso proprio traggono origine unicamente da leggi dello stato. In effetti, sotto il profilo giuridico, solo la legge napoleonica del 1807 istituì nelle parrocchie le fabbricerie, per la gestione dei beni e il controllo dei bilanci parrocchiali. Il Codice di diritto canonico del 1917 contemplava espressamente la fabbriceria (“consilium fabricae”: CIC 1917, can. 1183-1184). Con il Concordato del 1929 e con il regio decreto 26 settembre 1935 la rilevanza laicale delle fabbricerie fu di molto ridimensionata. Con la legge 27 maggio 1929 n. 848, legge di applicazione del Concordato tra Santa Sede e Italia, le fabbricerie, che la legislazione fino ad allora in vigore poteva riconoscere anche come persone giuridiche a sè stanti, a cui spettava la proprietà della chiesa, vennero considerate organi amministrativi della chiesa stessa, che assumeva a sua volta personalità giuridica. Anche dopo la legge del 1929 venne mantenuta la tutela statale, assicurando però il pieno accordo tra la potestà civile e quella ecclesiastica. La vigilanza e la tutela dell’amministrazione delle chiese aventi una fabbriceria erano dopo il 1929 esercitate dal ministro della giustizia e degli affari di culto, d’intesa con l’autorità ecclesiastica (art. 16). Per il diritto canonico allora vigente l’amministrazione dei beni e delle elemosine della chiesa spettava al legittimo rettore della chiesa stessa (CIC 1917, can. 1182) sotto la vigilanza e il controllo dell’ordinario, oppure al consilium fabricae ecclesiae, ossia alla fabbriceria, che doveva essere presieduta dal rettore e nominata, salve legittime eccezioni, dall’ordinario (CIC 1917, can. 1183). Il regolamento esecutivo della legge 27 maggio 1929 n. 848, emanato con decreto 2 dicembre 1929 n. 2262, conteneva anche un vero e proprio statuto civile delle fabbricerie (artt. 33-51). Dove mancava la fabbriceria, l’amministratore unico era il rettore della chiesa, sotto l’unico controllo dell’ordinario; dove c’era la fabbriceria, essa era presieduta dal rettore; le fabbricerie non erano più enti patrimoniali, bensì organi amministrativi delle chiese, privi di personalità giuridica, ma vigilati anche dallo stato. Se in una parrocchia c’era una sola fabbriceria (quella della chiesa parrocchiale) essa doveva amministrare anche i beni delle chiese sussidiarie o filiali e degli oratori dipendenti, almeno fino a quando non avessero ottenuto anch’essi una personalità giuridica propria. La fabbriceria, e il rettore per essa, doveva tutelare i diritti della chiesa presso i terzi, curando la riscossione degli assegni per spese di culto dovute dai comuni e, quando le competeva, dell’aliquota del 15% sull’ammontare della congrua del beneficiato, ammessa dal fondo per il culto. Le norme pratiche per la nomina delle fabbricerie, salvo il disposto dal diritto canonico e dal regolamento esecutivo (art. 33-36) si desumevano dai regolamenti o statuti vigenti per le singole fabbricerie. Di solito, il parroco o rettore della chiesa sceglieva i membri tra persone pie e probe della parrocchia, ne presentava i nomi all’ordinario per l’approvazione e nomina canonica, da dove passavano alla Prefettura per il riconoscimento o nomina civile (art. 35). Il parroco o rettore della chiesa, che faceva sempre parte di diritto della fabbriceria, per diritto canonico (CIC 1917, can. 1189 § 1), per la natura stessa dell’ente ne era il presidente, ma poteva essere nominato tesoriere (art. 42-44). Tra gli affari di culto di cui non doveva ingerirsi: elemosine di messe, modo e tempo di suonare la campane, ordine della chiesa e del cimitero, modo di eseguire le collette, diffusione degli avvisi, decorazione della chiesa, disposizione materiale degli altari e della chiesa per le celebrazioni, uso e scarto degli arredi sacri, scritturazione, disposizione e custodia dei libri parrocchiali e degli altri documenti d’archivio (CIC 1917, can. 1184). Il Codice di diritto canonico, poi, precisava che la fabbriceria non aveva ingerenza sul personale di servizio e sugli inservienti della chiesa (sacrestano, cantori, organista, chierichetti, campanaro, affossatori), che dipendevano esclusivamente dal rettore della chiesa, nel rispetto però delle legittime consuetudini, dei contratti e delle prescrizioni dell’ordinario (CIC 1917, can. 1185) (Stocchiero 1933).

CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE

Con il Codice di diritto canonico del 1983, i laici godono nell’ordinamento giuridico della Chiesa di una vera uguaglianza sostanziale che comporta la titolarità dei doveri e dei diritti sanciti indistintamente per tutti i fedeli (CIC 1983, can. 224), ferma restando la diversità funzionale che caratterizza la condizione dei singoli appartenenti al popolo di Dio. In ragione della partecipazione all’unica missione della Chiesa, i laici possono partecipare ai concili particolari e provinciali (CIC 1983, can. 443 § 4-5), possono prendere parte al sinodo diocesano (CIC 1983, can. 460, 462 § 2), possono far parte del consiglio per gli affari economici della diocesi e della parrocchia (can. 492, 537), entrano a comporre il consiglio pastorale diocesano e parrocchiale (CIC 1983, can. 512, 536). Il consiglio pastorale parrocchiale è un’assemblea, presieduta dal parroco, nella quale un gruppo di fedeli, scelti per elezione o deputazione, prestano il loro aiuto, mediante consigli o pareri, a coloro che, a ragione del loro ufficio, attendono alla cura pastorale della parrocchia (CIC 1983, can. 536). Il consiglio parrocchiale deve essere costituito in ogni parrocchia, se ritenuto opportuno a giudizio del vescovo diocesano, previo parere del consiglio presbiterale. Gode soltanto di voto consultivo ed è retto da norme stabilite dal vescovo diocesano (Abate 1983).

CONSIGLIO PARROCCHIALE PER GLI AFFARI ECONOMICI

Un giusto coinvolgimento dei laici nell’amministrazione dei beni ecclesiastici è stato suggerito nel nuovo Codice di diritto canonico del 1983. Anche il Codice del 1917 consentiva la presenza di laici nei consigli di amministrazione (CIC 1917, can. 1521 § 2), con l’esclusione delle donne (coincidendo i laici con i “viri”: CIC 1917, can. 1520). Nel Codice del 1983, chierici e laici sono equiparati, adempiendo parimenti i propri compiti “nomine Ecclesiae” (CIC 1983, can. 1282). Con una norma di carattere generale che non ha precedenti legislativi, il Codice del 1983 ha stabilito che “ogni persona giuridica abbia il proprio consiglio per gli affari economici o almeno due consiglieri che coadiuvino l’amministratore nell’esercizio del suo compito” (CIC 1983, can. 1280). Il parroco è confermato legale rappresentante della parrocchia in tutti i negozi e responsabile della buona amministrazione del patrimonio parrocchiale (CIC 1983, can. 532).

CHIESA PARROCCHIALE

Le chiese parrocchiali possono essere onorate da diversi titoli. Il titolo di basilica minore è dato o per concessione apostolica o per consuetudine immemorabile, come confermato dal Codice di diritto canonico del 1917; tali chiese avevano il diritto a tre privilegi, cioè l’uso del conopeo, del campanello e della cappa magna. Cattedrale è la chiesa nella quale c’è la sede vescovile; può essere metropolitana, primaziale, patriarcale a seconda della dignità del vescovo. La cattedrale è la chiesa madre della diocesi, ne consegue che il parroco della cattedrale ha la precedenza sugli altri parroci della diocesi. Abbaziali sono le chiese sede di un abate, sia secolare che regolare. Collegiali o collegiate sono le chiese che hanno il collegio dei canonici; possono essere perinsigni, insigni o semplicemente collegiali. Arcipretali e prepositurali sono dette le chiese originariamente sede di un collegio canonicale, il cui prefetto era detto appunto arciprete o prevosto, o i cui parroci hanno ottenuto a titolo onorifico nel corso del tempo le insegne di arciprete o di prevosto.

Nessuna chiesa parrocchiale può essere edificata senza il consenso scritto dell’ordinario, che deve accertarsi che la nuova costruzione non rechi danno alle chiese vicine. Il consenso alla costruzione non può essere dato senza la garanzia delle necessarie risorse alla costruzione e conservazione, nonché per il sostentamento dei ministri e per le altre spese di culto (CIC 1917, can 1162 § 2). Prima della costruzione di una chiesa vi è l’obbligo della benedizione solenne e posa della prima pietra che spetta all’ordinario del luogo o a un suo delegato. La costituzione della chiesa si completa con la dedicazione, che comprende la consacrazione in senso stretto e la benedizione solenne; tali atti la rendono luogo sacro e in perpetuo deputato al culto.

Per titolo della chiesa si intende il mistero o la persona cui la chiesa è dedicata e da cui trae il nome, e viene imposto dall’ordinario nella benedizione della prima pietra (Masseo 1967).

Una lunga controversia fu dibattuta circa la personalità giuridica delle chiese. Il Concordato del 1929 riconobbe la personalità giuridica alle chiese pubbliche aperte al culto che già non l’avessero, comprese quelle appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi (Concordato 1929, art. 29 lett. a) Ne conseguiva che le chiese con personalità giuridica erano giuridicamente rappresentate dall’ordinario diocesano, dal parroco, dal rettore o dal sacerdote che sotto qualsiasi denominazione o titolo fosse a esse preposto (legge 27 maggio 1929, n. 848, art. 15); i medesimi soggetti ne tenevano anche l’amministrazione, ove non esistevano le fabbricerie, ai sensi del dettato canonico (CIC 1917, can. 1182). Nella pratica, le chiese pubbliche aperte al culto anteriormente al Concordato del 1929 avevano già, nel loro insieme, direttamente o indirettamente riconosciuta la personalità giuridica. Si trattava delle chiese cattedrali e delle parrocchiali con le rispettive succursali, le chiese vicarie autonome, e in generale le chiese con proprie fabbricerie, le chiese fornite di patrimonio, anche se questo era in dominio della fabbriceria o al suo nome (Stocchiero 1933). Il riconoscimento della personalità giuridica delle chiese aperte al pubblico che già non l’avevano o di nuova costruzione era demandato dall’ordinario diocesano mediante istanza diretta al Ministro dell’Interno, con documenti atti a provare la dedicazione della chiesa al culto divino, la dotazione di mezzi sufficienti per la manutenzione e l’ufficiatura (decreto 2 dicembre 1929, art. 10). In forza della legge 11 agosto 1870 le chiese (propriamente, per esse, le fabbricerie) non potevano possedere o acquistare beni immobili, oltre agli edifici di culto con le pertinenze necessarie. Tali beni erano soggetti alla conversione, ossia lo stato ne prendeva possesso, li vendeva e iscriveva la corrispondente somma in rendita nominativa del debito pubblico a favore dell’ente. Una volta riconosciuta la personalità giuridica alle chiese, veniva riconosciuto a esse anche la capacità di acquistare e possedere, quando ciò poteva tornare utile all’ente o rispondesse alle esigenze religiose della popolazione. I beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico erano gestiti dalla competente autorità della Chiesa, senza obbligo di assoggettarne a conversione i beni immobili (Concordato 1929, art. 30). Lo stato riconosceva agli istituti ecclesiastici la capacità di acquistare beni, salvo le disposizioni delle leggi civili concernenti gli acquisti dei corpi morali; era richiesta cioè, sotto pena della nullità, l’autorizzazione con regio decreto (legge 27 maggio 1929, n. 848, art. 9-10).

Gli enti chiesa parrocchiale sono stati soppressi in seguito all’applicazione degli adempimenti in materia di revisione concordataria seguiti alla legge 20 maggio 1985, n.222, e all’entrata in vigore del relativo regolamento di esecuzione, decreto 13 febbraio 1987, n. 33, in particolare in seguito all’approvazione dei decreti con i quali è stata stabilita la sede e la denominazione dei nuovi enti parrocchia.

ultima modifica: 18/01/2005

[ Saverio Almini ]