comunità generale della Valsassina sec. XII - 1757

Con l’estinzione della linea maschile dei conti di Lecco nel 975, il contado di Lecco fu smembrato, e il nucleo principale venne in possesso dell’arcivescovo di Milano. Mentre alcune delle compagini plebane che lo costituivano rimasero sotto il diretto controllo arcivescovile, altre furono subinfeudate, per lo più a vassalli laici, capitani delle porte di Milano.
Nel primo secolo del secondo millennio, l’arcivescovo rinunciò, a favore dei della Torre (Torriani), a un sesto della decima che riscuoteva in Valsassina.
Nei due secoli seguenti, accanto all’istituto del feudo, si andò personalizzando il comune, sia pievano che vicano: i due elementi, signorile nel feudo con i suoi poteri, popolare nella collettività con le sue remote consuetudini, istituzioni non antitetiche tra loro, formarono le componenti di un nuovo ordinamento.
La Valsassina ebbe un’evoluzione giuridica progressiva verso il comune (le prime attestazioni di consoli nella Valsassina risalgono alla seconda metà del XII secolo); la comunità di valle e le comunità minori ampliarono la loro autonomia amministrativa sul canovaccio delle antiche consuetudini che disciplinavano dall’antichità l’uso dei beni comuni, sviluppando gradualmente gli organismi mediante i quali la collettività provvedeva ad applicare le norme che ne regolavano lo sfruttamento.
Il carattere democratico della famiglia Torriani, appartenente alla parte guelfa, fa supporre che i diritti dei domini loci sulla valle non si siano manifestati come sopraffazioni di quelli preesistenti delle collettività. Così, è da ritenersi che in Valsassina la personalizzazione della comunità pievana nella comunità di valle non abbia tolto al dominus plebis i suoi poteri, nè che si sia affermata in antitesi con lo stesso, ma che anzi si sia consolidata con il suo aiuto e con la sua protezione: ne è prova il fatto che i Torriani, una volta divenuti signori di Milano, considerarono la Valsassina più alleata che vassalla.
Dall’altra parte, la stessa esiguità territoriale e demica non avrebbe consentito ai comuni vicani, formatisi all’interno della comunità pievana, di affermarsi indipendentemente dalle istituzioni feudali e di assumere le sue funzioni. Il diritto di libera elezione degli ufficiali locali nei comuni vicani (consoli) è da ritenersi infatti una rinuncia espressa o tacita del dominus loci.
L’assemblea dei vicini, nel comune giuridicamente costituito, non formava più un organo meramente consultivo o limitato nelle funzioni di regolamentare l’accesso e l’uso dei beni comuni, ma divenne un organo deliberativo, capace di esprimere ordini ai quali consoli e sindaci, eletti dalle vicinanze, dovevano attenersi.
Nonostante l’emancipazione politica, tutte le comunità valsassinesi rimasero per secoli legate agli originari signori feudali, continuando a versare le proprie quote della decima generale (Pensa 1974-1977).
Nel 1263 e ancora nel 1331 (Statuto di Bergamo 1331), la Valsassina e le Valli Taleggio e Averara, ad essa legate, risultano iscritte nella faggia di porta Sant’Alessandro, pur essendo effettivamente appartenenti all’arcivescovo di Milano.
Dopo la sconfitta dei Torriani, la valle si diede spontaneamente ai Visconti. Alla metà del XIV secolo, tuttavia, avevano ancora signoria sulla Valsassina gli arcivescovi di Milano, come Roberto Visconti che, in una lettera del 20 febbraio 1355, costituiva un procuratore speciale “ad petendum exigendum et recipiendum a communi hominibus et singularibus personis Vallisassine Bellani Dervii et Montium Mugiasche Varene et Hesini iurisdictionis archiepiscopatus nostri mediolanensis” quanto dovuto per fitti e decime; lo stesso arcivescovo incaricò in seguito un proprio giusperito “vicario Vallissaxine” di costringere “fictabiles, decimarii, censuarii et reddituari” insolventi da anni a saldare i debiti per censi e redditi, da versare alla camera di Bernabò Visconti.
I Visconti signori di Milano accordarono agli abitanti della Valsassina di vivere secondo i loro antichi statuti, che furono “ordinata et reformata” il 25 novembre 1388 da Gian Galeazzo Visconti, quale protettore e conservatore della valle per la chiesa milanese.
A quel tempo la Valsassina aveva, come si è implicitamente accennato, un territorio e una giurisdizione più estesa di quella che ebbe poi nel XVI e nei secoli seguenti, abbracciando a occidente il Monte di Introzzo e a levante la Val Taleggio, la Valtorta, la Val d’Averara.
Gli statuti della Valsassina stabilivano che il “vicarius sive rector” della Valsassina avesse il potere di nominare suoi vicari “in Talegium et Averariam”, valli comprese nel bacino del Brembo che si erano date statuti propri nel 1358, ma erano di fatto associate alla Valsassina, insieme alla Valtorta, nel civile e nell’ecclesiastico (statuti di Valsassina 1388 § 5).
Dopo la pace di Ferrara del 1428, mentre il confine dell’Adda nel tratto da Calolzio a Trezzo era diventato praticamente definitivo tra ducato di Milano e repubblica di Venezia, incertezze erano insorte per quella zona montana della giurisdizione valsassinese, oltre che per alcune località del territorio di Lecco. Le divergenze nascevano da criteri di valutazione opposti: i duchi di Milano insistevano che la divisione avesse a base le circoscrizioni giurisdizionali (esistenti “ab immemorabili”), mentre i veneti premevano per spostare il confine allo spartiacque montano. La prima tesi si fondava sul fatto che la montagna era sempre stata fino ad allora considerata un’unità economico-giuridica senza discriminazione di versanti. Venezia, in ogni caso, dichiarò nel 1449 gli abitanti di Acquate, di Ballabio (territorio di Lecco) e di alcuni altri luoghi indipendenti dalla giurisdizione milanese, concedendo agli stessi esenzioni e sottoponendoli all’autorità del podestà di Bergamo quale giudice di seconda istanza. Soltanto nell’agosto del 1456 fu raggiunto un accordo definitivo, con il quale fu stabilito che Pizzino, la Valle Averara e la Valtorta rimanessero a Venezia, cui restava anche quella parte della Val Taleggio sulla quale la repubblica aveva esercitato dominio fin dalla pace del 1428. Al duca di Milano restava l’alta Val Taleggio, precisamente il territorio delle parentele degli Arrigoni, Rognoni, Amigoni, Quarteroni, con le terre di Cantolto, Manterga, Lavina, Vedeseta, Avolasio, Prato Giugno; restavano ancora a Milano Morterone e Brumano, luoghi che sempre avevano fatto parte del territorio di Lecco (Franceschini 1937; Brivio 1981).
Le prime righe degli statuti valsassinesi del 1388 dichiaravano che gli statuti stessi erano stati fatti, oltre che a onor di Dio, della Vergine, dei santi Pietro, Paolo e Ambrogio e dell’arcivescovo di Milano, “ad bonum et pacificum statum communitatis, hominum et singularum personarum dicte Vallis et Montium predictorum”. Oltre alle norme penali, civili e amministrative, gli statuti illustravano le forme del governo locale, improntate a modi di rigorosa democrazia e coesione comunitaria, come è attestato, ad esempio, dal § 282 “de sustinendo et adiuvando se ad invicem”: “item statuerunt et ordinaverunt quod communitas totius plebis Vallissaxine et Montium predictorum et omnes alii homines qui sunt in vicinantia cum hominibus ipsius plebatus et Montium teneantur et debeant bona fide omnibus modis se adiuvare et substinere ad invicem soldum pro soldo, libram pro libra, pro communibus, secundum modum societatis, contra omnes personas et communitates qui essent vel venirent ad dandum vel faciendum damnum vel detrimentum alicui ipsius Vallis et Montium, et ita teneantur attendere et observare et etiam iurare ad invicem bona fide, sine fraude”.
L’ultima edizione degli statuti della Valsassina risale al febbraio 1674: il testo ricalcava quello antico, con l’inserzione delle “additiones” posteriori, costituite da riforme e ordini senatori, liti e sentenze, cioè da tutti quegli atti ritenuti significativi per corroborare lo status privilegiato della valle (Dattero 1997).
Già al tempo della riforma degli statuti della Valsassina, nel 1388, esisteva un consiglio di valle (nel quale anzi si pubblicava la riforma stessa), composto da alcuni consiglieri per ciascuna delle quattro squadre che componevano complessivamente la Valsassina (squadra del Consiglio, squadra di Mezzo, squadra di Chignolo o Cugnolo, squadra dei Monti). Il numero delle comunità (terre o luoghi) componenti le singole squadre variò nel corso del tempo, tra il XIV e il XVIII secolo. Alcune delle terre comprese nella Valsassina, come Prato San Pietro, Monte Varrone, Imbergo, Baliate, Bagnala, pur apparendo tra quelle che mandarono dei procuratori a Milano per dare giuramento di fedeltà al duca Filippo Maria Visconti nel 1415 (Orlandi 1911), non risultano in seguito avere mai formato comunità autonome; altre, come Cassine di Maggio e Mezzacca, compaiono solo nelle notificazioni del personale del ducato di Milano (Compartimento Ducato di Milano, 1751). Allo stesso modo, i diversi luoghi che uniti costituivano la Valcasargo e il Monte di Varenna, pur avendo proprie adunanze e talvolta propri ufficiali, non formarono mai (per quanto si è potuto appurare) comunità del tutto separate; sia pure per un tempo limitato, invece, le comunità componenti la squadra di Muggiasca si ressero autonomamente, tornando definitivamente unite, sotto il comune di Vendrogno, con la riforma del nuovo estimo alla metà del XVIII secolo.
Il nucleo territoriale originario della Valsassina, costituito intorno al bacino oroidrografico del torrente Pioverna, era formato dalle squadre del Consiglio, Mezzo e Chignolo. La squadra dei Monti fu unita probabilmente alla Valsassina dopo che il rafforzamento politico della comunità di Varenna (alla fine del XII secolo) aveva portato a uno smembramento dell’antica pieve di Varenna, comprendente il Monte omonimo (con Perledo, Regoledo, Bologna, Gisazio, Gittana, Regolo, Tondello, Vezio) ed Esino, che entrarono appunto a far parte della comunità di valle valsassinese. Il Monte di Introzzo, cioè la parte superiore della Val Varrone, unita “in spiritualibus” alla pieve di Dervio, appare giurisdizionalmente legata “in civilibus” alla Valsassina al tempo degli statuti del 1388. Negli estimi del ducato di Milano del 1558, la Montagna d’Introzzo è ancora elencata tra le terre della Valsassina (Estimo di Carlo V, Ducato di Milano), anche se fin dalla metà del XV secolo risultava formare una giurisdizione a sè con Corenno e Dorio (Guastella 1936); in un prospetto comprendente tutte “le terre del ducato di Milano et altre con esse tassate per le stara di sale”, risalente al 1572 (Terre Ducato di Milano, 1572), Monte Introzzo era comunque inserito tra le comunità della riviera di Lecco e non della Valsassina.
Alla metà del XVIII secolo, la Valsassina comprendeva circa cinquanta terre (o luoghi), che formavano ventotto comuni (o comunità), compresi quelli della pieve di Perledo. Fra di loro i comuni (o comunità) erano divisi sia rispetto all’estimo sia al territorio, avendo ciascuno una propria giurisdizione, propri consoli e sindaci.
La squadra del Consiglio era composto da cinque comunità, cioè Barzio, Cremeno, Cassina, Moggio, Concenedo.
La squadra di Mezzo era composta da nove comunità, e cioè Pasturo, Bajedo, Introbio, Vimogno, Barcone, Gerro, Pessina, Primaluna, Cortabbio.
La squadra di Chignolo era composta da nove comunità, e cioè Cortenova con Prato San Pietro, Bindo, Taceno, Margno, Vegno, Crandola, Valcasargo, Pagnona, Premana.
La squadra dei Monti era composta da sei comunità, e cioè Muggiasca, Perledo, Narro, Indovero, Esino superiore ed Esino inferiore, Perlasco.
Nel periodo ducale visconteo-sforzesco e anche dopo l’avvento della dominazione spagnola, la Valsassina godette di una condizione di privilegio giurisdizionale, essendo immediatamente soggetta all’autorità sovrana con il tramite della figura del podestà, che era un maggior magistrato, capace di far valere un criterio di appartenenza personale al suo tribunale (a favore di coloro che risiedevano nella valle e vi pagavano le imposte) nei confronti dei magistrati minori, cioè dei giudici feudali. Nella difesa di questa condizione si concentrarono quindi gli sforzi del consiglio di valle, volti al riconoscimento di un diritto irrevocabile all’immediata dipendenza dall’autorità sovrana, con un privilegio di non infeudabilità.
Ai privilegi giurisdizionali si univano quelli fiscali nel conferire alla Valsassina una condizione particolare rispetto alle altre pievi del ducato milanese. La valle infatti “si considerava come un territorio separato dalla provincia del ducato”. Questa situazione portava sicuri vantaggi: la valle si sottraeva al pagamento solidale delle imposte gravanti sulla provincia milanese, perché il suo contingente veniva stabilito a parte. L’estimo di Carlo V non era stato troppo gravoso per le comunità valsassinesi, come era avvenuto invece per quelle di altre pievi montane, poiché la Valsassina era stata mantenuta esente per i beni comunali, che costituivano circa i 2/3 dei suoi terreni. I valsassinesi ottennero ulteriori alleviamenti delle imposte dirette, considerata “la sterilità del loro paese”. L’agricoltura in Valsassina fu, in effetti, tradizionalmente povera, e mai in grado di sostenere economicamente la popolazione, costringendo una parte consistente degli uomini in età lavorativa all’emigrazione. La risorsa dell’industria ferriera, che rendeva economicamente e strategicamente importante la Valsassina per il ducato milanese, godeva parimenti di esenzioni fiscali.
Per quanto riguarda le imposte indirette, la valle anticamente ne era esente, fuorché da quella del sale. Acquistata anche quest’ultima nel 1538, la comunità generale dovette nuovamente sottomettervisi dagli anni ’40 del XVII secolo, insieme ai dazi del bollino e pane venale.
La crisi finanziaria che colpì la monarchia spagnola dopo la guerra dei trent’anni spinse lo stato a procedere all’infeudazione anche delle terre che in passato ne erano state esentate. Malgrado le obiezioni, apportate con tenacia dai rappresentanti della comunità generale, i titoli di privilegio della Valsassina non furono ritenuti sufficientemente probanti e il magistrato straordinario decise di passare all’incanto per l’infeudazione della valle, e il 7 maggio 1647 Giulio Monti prestò giuramento come feudatario della Valsassina. Le pertinenze del feudo riguardavano solamente gli introiti dell’esercizio della giustizia feudale, non essendo annessi al feudo nè dazi nè altre prestazioni. Tuttavia, la figura del feudatario si dimostrò tutt’altro che neutrale, acquistando peso e influenza all’interno della comunità generale, non da ultimo con l’acquisto di terreni in vari luoghi della valle.
Con evidenza a partire dalla seconda metà del XVII secolo, l’amministrazione della giustizia e le risorse comunali restarono monopolio di un’oligarchia locale, formata prevalentemente da imprenditori minerari; l’interdipendenza creatasi tra lo sfruttamento, sovente eccessivo, delle risorse forestali (in gran parte comunitarie) e l’industria ferriera, tra la povertà del suolo e l’emigrazione, portò a un rafforzamento delle famiglie notabili locali a livello economico, che esercitarono un crescente controllo sull’attività politico-amministrativa dell’intera valle (Dattero 1997).
Secondo quanto riportato nelle risposte ai 45 quesiti della real giunta del censimento, nel 1751 la comunità generale della Valsassina, compresa nel ducato di Milano, era infeudata al cavaliere milanese Paolo Airoldi, al quale non corrispondeva nulla; la nomina del giudice (podestà) spettava dal 1647 al feudatario. Nel 1751 era podestà della Valsassina Giacomo Maria Vaccani, che riceveva dalla comunità generale scudi 48 di salario (cioè lire 24 al mese) e lire 72 per la visita delle strade ogni anno, in più riceveva per l’assistenza al consiglio generale (una volta all’anno) lire 42, e per la ricognizione delle servitù lire 10. Spese fisse della comunità generale per l’amministrazione della giustizia erano inoltre il fitto del sito e la manutenzione della banca civile di Cortenova, la manutenzione dei mobili grossi del giudice, la manutenzione del palazzo pretorio di Introbio, delle carceri e della casa del baricello (al quale si pagavano lire 63 al mese di salario) e suoi fanti.
Gli organi della comunità generale della Valsassina erano, come si è detto, il consiglio generale di valle, e inoltre i sindaci generali (già presenti negli statuti del 1388), il ragionatto, gli esattori generali, il cancelliere.
Ogni terra sottoposta alla comunità generale aveva propri organi per l’amministrazione e per la conservazione dei beni vicinali: consoli (che prestavano giuramento alla banca del podestà ad Introbio), sindaci (ai quali, eletti dalle rispettive vicinanze, era demandata la cura dell’ordinaria amministrazione), cancellieri (responsabili della formazione dei riparti), esattori (che ricevevano l’incarico mediante appalto effettuato dal singolo comune). In ogni terra della Valsassina si formavano quindi le taglie, che venivano poi ripartire su ogni “particolare interessato a regola del maggior o minor estimo”, ed erano fatte “per la maggior parte sopra li focolari, parte sopra il bestiame del luogo, non tenendosi da tutte (le terre) lo stesso metodo e regola”; in Valsassina non c’era “l’uso di collettare teste vive nè morte, meno le bocche, non pagando le femmine carico in detta Valsassina, bastando il carico delle gravi fatiche e lavorerij che sono obligate a fare per la mancanza delli Uomini costretti ad acquistarsi il vitto in paesi esteri, com’è notorio”.
Nel 1751 la comunità generale della Valsassina contava circa 10.706 abitanti “compresi gli assenti”, cioè gli emigrati, - al momento dell’infeudazione, nel 1647, gli abitanti erano 9.488 - (Risposte ai 45 quesiti, 1751, Valsassina).

ultima modifica: 12/06/2006

[ Saverio Almini ]