giudice delle monete 1541 - 1774

In età moderna la cura delle monete, sia per impedire la “spendita” di monete calanti – soprattutto d’oro e d’argento – sia per reprimere la produzione di monete false era demandata all’officio del giudice delle monete, strettamente dipendente e vincolato alla volontà del Magistrato ordinario.
Per adempiere ai suoi compiti le Novae Constitutiones ribadirono che al giudice delle monete fosse delegata la facoltà di promulgare gride, valide per tutto lo stato di Milano, in materia monetaria: il giudice mediante consulta doveva informare il governatore circa la necessità di emanare alcuni provvedimenti; e quest’ultimo “inherendo” alla consulta del magistrato ordinario emanava la grida ed investiva il giudice delle monete del potere esecutivo.
Mentre nel corso del Cinquecento per essere investiti dell’officio di giudice delle monete non erano richiesti particolari requisiti – non era neppure necessario essere laureati – a partire dai primi decenni del XVII secolo le autorità governative riconobbero la necessità che l’officio fosse affidato a persone competenti, togate, e quindi essere tassativamente scelte tra i membri del collegio dei giurisperiti di Milano. A questo proposito il governatore si adoperò per emanare un serie di disposizioni che disciplinassero l’officio e lo elevassero al rango degli altri “magistrati” dello stato.
Oltre a stabilire che la carica avesse durata biennale e che al termine dell’incarico il giudice dovesse, come le altre magistrature, essere sindacato da un dottore collegiato “separatamente e non con alcuni altri giudici”, si stabilì che anche il giudice delle monete, come quello del gallo e del cavallo, potesse portare la bacchetta; che in occasione di qualsiasi manifestazione, pubblica o privata, dovesse comparire immediatamente dopo il giudice del gallo e del cavallo; e ancora che dovesse sedere “nell’istessa sedia e tavola dove siedono i questori del magistrato ordinario quando riferisce al loro tribunale” (Visconti 1913, p. 381).
La natura dell’officio portava il giudice ed i funzionari alle sue dipendenze, ad intraprendere frequenti visite ai negozi al fine di scoprire se venivano utilizzate monete false o calanti. E le assai frequenti violenze di cui inevitabilmente furono vittime portarono le autorità centrali a considerare la possibilità di concedere loro di circolare armati per la città. Intorno alla metà del XVI secolo, un decreto governativo, su consulta del Magistrato ordinario, stabiliva infatti che il giudice ed i suoi funzionari potessero portare “giacca di maglia con maniche e armi di offesa e difesa” ed ordinava a tutti gli officiali dello stato, in particolare al podestà e capitano di giustizia di non molestarli (Visconti 1913, p. 385).
Detto officio estendeva la propria giurisdizione su tutto lo stato attraverso una fitta rete di luogotenenti: al giudice spettava la città di Milano ai luogotenenti le città, borghi e Terre dello stato.
Nominati con patente del governatore, sulla base di terne di nomi formate dal giudice medesimo – terne che dal governatore venivano trasmesse al magistrato ordinario per “consulto” – i luogotenenti, spesso neanche laureati, potevano esercitare la loro professione solo dopo aver prestato giuramento “solenne” nelle mani del presidente del Senato.
Tuttavia nonostante la stretta sorveglianza da parte del podestà, intimatagli dalle autorità centrali – il podestà doveva infatti dettagliatamente relazionare al magistrato ordinario poi, in seguito all’unificazione delle due magistrature, camerale, sull’andamento dell’officio – nel corso dei secoli XVI-XVIII l’attività da loro svolta fu a tal punto pessima e soprattutto diede luogo ad una serie di abusi, da indurre le autorità a tentare numerosi e ripetuti interventi disciplinari, senza peraltro ottenere risultati positivi.
La qualità della materia che metteva i giudici e i loro funzionari nella tentazione di commettere scorrettezze a danno dei privati, ma soprattutto il fatto che in tutte le cause proprie dell’officio ogni giudice dello stato potesse intromettersi cumulativamente con il giudice delle monete decretarono la sua fine: nel 1774 Maria Teresa “con l’intento di semplificare sempre più e perfezionare il presente sistema” (Visconti 1913, p. 384-387) ne dispose infatti l’abolizione, lasciando la funzione di vigilanza sulle monete al Supremo consiglio di economia e la giurisdizione al giudice dei dazi in Milano e al regio podestà nelle altre città (Bendiscioli 1957 a; Bendiscioli 1957 b; Pugliese 1924; Visconti 1913).

ultima modifica: 19/01/2005

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