ferma generale 1750 - 1770

Riuscita a superare la dura prova della guerra di successione austriaca che aveva messo a repentaglio la vita della stessa monarchia, la sovrana Maria Teresa, assumendo la pesante eredità dell’imperatore Carlo VI, si rese immediatamente conto che la difesa dello stato, felicemente terminata all’esterno, doveva continuare al suo interno: affinché la dinastia potesse mantenere le posizioni conquistate e difese a caro prezzo con la guerra di successione, occorreva condurre un’aspra lotta ai particolarismi interni, organizzati nei radicati sistemi di privilegio e di autonomia che più si palesavano nella macchina amministrativa dello stato, priva di omogenea organizzazione, disordinata, enormemente costosa. Da queste considerazioni nacque quindi quella spinta alle riforme che agì tanto al centro dello stato quanto nella periferia lombarda.
Agenti di questa spinta riformatrice furono non gli esponenti delle forze e dell’amministrazione locale bensì i rappresentanti della Corona, funzionari estranei all’ambiente milanese, la cui autorità derivava dall’investitura che avevano ricevuto direttamente dal governo centrale.
Protagonista di questa prima opera di riforme fu infatti Luca Pallavicini, patrizio genovese, che inviato a Milano come governatore nel 1750, pose immediatamente la sua attenzione su un importantissimo settore, viziato di particolarismo e monopolizzato dalle grandi famiglie patrizie milanesi: il sistema degli appalti per la riscossione delle imposte indirette.
Tale sistema, così come era attuato, si prestava infatti ad ogni sorta di abuso: tra il contribuente e l’erario si interponevano gli appaltatori, i cosiddetti “fermieri”, che grazie a contratti “più o meno addomesticati, per incuria o per corruzione, riducevano la quota spettante allo stato ad una misura che non era affatto proporzionata al gettito reale” (Valsecchi 1959, p. 279).
Per combattere il problema il Pallavicini, già nel 1749, presentò alla Corona un piano mirante a semplificare tale meccanismo: egli proponeva infatti di concentrare gli appalti, al momento distribuiti tra diversi privati, in un’unica impresa; erigere cioè una “Ferma generale” che raccogliesse le principali privative o gabelle appaltate, quali ad esempio la gabella del sale, della polvere, del tabacco, i dazi sulle mercanzie.
E finalmente nonostante le rimostranze e gli ostacoli opposti dalle grandi famiglie patrizie lombarde – soprattutto milanesi – il 5 maggio 1750 venne stesa la prima scrittura sociale e il 24 luglio dello stesso anno venne rogato l’atto notarile che fissava le quote di partecipazione alla Ferma. Tutto il capitale venne suddiviso in dodici quote: quattro riservate alla Camera e le rimanenti otto distribuite tra cinque azionisti privati, reclutati nel Bresciano, Cremonese o ancora a Genova (Capra, Sella 1984). Ai membri della Ferma inoltre, a partire dal 1753 furono attribuiti poteri di ispezione sul traffico di particolari beni quali, ad esempio, il sale ed il tabacco; poteri che suscitarono non poche rimostranze da parte del forte ceto mercantile milanese.
Se da un lato l’unificazione degli appalti in una sola compagnia e soprattutto la loro gestione da parte di “attenti ed esperti fermieri” portarono ad una razionalizzazione di tutto il settore delle imposte indirette dall’altro non risolse totalmente il problema.
L’ondata di riforme incominciata negli anni ’50 del Settecento, dopo una breve pausa causata da una nuova grande conflagrazione europea – la guerra dei Sette anni – che vide coinvolta in primis la monarchia austriaca, riprese vigore immediatamente dopo la conclusione del conflitto.
Oggetto di “revisione” fu quello stesso settore che circa dieci anni prima aveva animato l’opera riformatrice: il sistema degli appalti delle imposte indirette, la Ferma generale. La nuova ondata riformatrice, che vide nel Verri il maggiore sostenitore, riconosceva i meriti dei provvedimenti applicati dal governatore Pallavicini ma riteneva fosse arrivato il momento di affrontare una riforma integrale del settore. Il sistema degli appalti era oramai da considerarsi contrario ad ogni principio di sana amministrazione, in quanto interponendo tra il contribuente e l’erario l’attività speculativa dell’appaltatore, sovrapponeva inevitabilmente l’interesse privato a quello pubblico.
L’unica forma oculata di amministrazione delle regalie e dei dazi non poteva essere quindi che quella diretta, lo stato doveva provvedere in prima persona all’esazione delle imposte.
Alle immediate ed inevitabili rimostranze che fecero seguito alla proposta del Verri pose rimedio il diretto intervento di Giuseppe II, figlio dell’imperatrice Maria Teresa. Venuto direttamente a contatto con la realtà lombarda, grazie ad un viaggio intrapreso nei territori italiani nel 1769, Giuseppe II vinse le riluttanze della madre Maria Teresa e con decreto 28 dicembre 1770 abolì definitivamente la Ferma generale (dispaccio 28 dicembre 1770); le sue funzioni da quel momento furono direttamente esercitate dalla Camera regia (Capra, Sella 1984; Valsecchi 1959).

ultima modifica: 29/05/2006

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