comune di Milano 1117 - 1329

Le origini del comune di Milano sono da ricercarsi nel lento e progressivo sviluppo delle forme di governo degli arcivescovi i quali, pur non avendo mai ottenuto i diritti comitali, sin dalla metà del X secolo, godevano di una autorità pari a quella dei più potenti principi della penisola.
Fu proprio la Chiesa metropolitana a riaffermare quel ruolo di centro di potere politico e amministrativo di cui la città ambrosiana era stata in passato espressione – ruolo che aveva gradatamente abbandonato tra il V e VI secolo – e a porre le premesse della sua futura grandezza comunale (Chittolini 1993).
Nell’anno 979, con l’episcopato di Landolfo Carcano, forte della franchigia della sua chiesa, dell’influenza e dei favori imperiali di cui la sua famiglia godeva, l’arcivescovo divenne di fatto la prima autorità di Milano; un’autorità che non si limitava ai confini della diocesi ambrosiana ma che si estendeva sui territori di numerosi comitati, i cui conti, perdendo gradatamente ogni attiva ingerenza nell’amministrazione della cosa pubblica, consentirono all’arcivescovo di Milano di affermarsi come unico signore del territorio dell’archidiocesi.
Se agli inizi il potere dell’arcivescovo fu solo parzialmente “temperato” dalle adunanze del popolo, convocate per discutere e risolvere i maggiori problemi che la comunità si trovava a dover affrontare, a partire dalla metà dell’XI secolo esso incominciò invece ad essere “contrastato” dalla decisa influenza esercitata dai rappresentanti degli ordini cittadini, chiamati a coadiuvare l’arcivescovo nell’amministrazione della cosa pubblica. E tale influenza andò sempre più affermandosi quando i grandi vassalli, per decreto dell’imperatore, ottennero la ereditarietà dei feudi loro concessi. Incominciò così ad acquistare importanza il ceto dei capitanei, i possessori di un feudum in capite. Tali erano le famiglie dei Visconti e in generale tutte quelle famiglie che derivarono i loro nomi dai possessi feudali allora ottenuti: ad esse, già molto potenti per gli uffici che ricoprivano, venne trasmessa oltre alla ereditarietà dei feudi, anche parte dei poteri civili.
Il governo della città di Milano, a metà del X secolo era quindi così suddiviso: le questioni di grande importanza erano direttamente regolate dall’arcivescovo, unico e vero signore della città; gli affari di ordinaria amministrazione venivano demandate dall’arcivescovo ai capitanei, secondo una ripartizione territoriale e qualitativa della giurisdizione arcivescovile.
All’affievolirsi dell’autorità comitale era quindi corrisposto l’affermarsi dell’autorità arcivescovile, la quale aveva a sua volta consentito all’alta aristocrazia feudale, composta dalle famiglie di capitani, di “compartecipare” alla gestione del governo.
Ma dalla metà del XI secolo, la politica di “frazionamento del potere” applicata dalle famiglie di capitani portò al graduale allargamento della base del governo, consentendone l’accesso a quei ceti che sino a quel momento ne erano rimasti esclusi: valvassori e cives. Ottenuta l’investitura e l’ereditarietà dei propri feudi i capitanei incominciarono infatti ad eleggere dei valvassori – a loro strettamente subordinati – i quali rivendicando il diritto di ereditarietà delle porzioni di feudo loro concesse entrarono ben presto in contrasto con l’autorità dell’arcivescovo e con quella dei loro immediati superiori. Il conflitto si concluse nel 1037, in seguito all’intervento dell’imperatore Corrado il quale, sceso in Italia per combattere lo strapotere dell’arcivescovo e per ristabilire a Milano l’autorità imperiale, emanò la costituzione dei feudi che attribuiva piena soddisfazione alle rivendicazioni dei valvassori. Stabilita l’ereditarietà dei loro feudi ed equiparati nei diritti ai capitanei, i valvassori incominciarono a partecipare attivamente alla governo della città, attraverso la nomina di loro rappresentanti nel consiglio dell’arcivescovo.
Ma la ribellione dei valvassori provocò indirettamente a catena anche l’ascesa dell’ordine dei cives, costituito da ricche famiglie di origine non feudale.
Chiamati dall’arcivescovo per contrastare i valvassori – quindi elevati socialmente ed equiparati ai capitanei – i cives mossero presto “guerra” contro lo stesso arcivescovo e contro i capitanei per essere ammessi al governo della città.
Come per i capitanei prima ed i valvassori poi, la partecipazione dei cives al governo della città avvenne attraverso la nomina di esponenti del loro ceto nel Consiglio dell’arcivescovo.
Il governo della città si era dunque trasformato: a capo del sistema vi era sempre l’arcivescovo – investito del potere di dichiarare guerra, firmare trattati, e del diritto di battere moneta, indire mercati, imporre pedaggi – coadiuvato però dai rappresentanti di capitanei, valvassori e cives, organizzati nel Consiglio, che direttamente amministravano la città.
Si era instaurata una sorta di comune arcivescovile, in cui il popolo era sottoposto alla suprema guida dell’arcivescovo.
Queste le necessarie premesse che portarono, agli inizi del XII secolo – la prima attestazione circa l’attività di consoli risale infatti al 1117 – all’affermazione del governo comunale. Con l’emancipazione dalla tutela e dall’autorità dell’arcivescovo, indebolito e gradualmente estromesso dalla gestione della cosa pubblica, l’organizzazione comunale vide, nel 1153, consolidarsi al vertice, come magistratura principale, l’officio del Consolato, composto dai consoli del comune, con funzioni politiche e amministrative, e dai consoli di giustizia a cui era riservata l’attività giudiziaria.
Consolidato il potere consolare Milano si fece promotrice di una vivace politica di espansione territoriale oltre che economica e militare. Nel corso del XII secolo l’autorità del comune milanese, grazie anche al forte radicamento del sistema plebano, si dilatò infatti non solo sugli abitanti del contado e dei borghi sottoposti alla diocesi ambrosiana ma anche su altre città come Lodi, Como, Pavia, Brescia, Cremona. Acquisti significativi sia a livello territoriale che economico poiché consentivano di allargare il raggio di espansione, in particolare mercantile, del comune.
Tuttavia la politica espansionistica oltre a procurare a Milano il primato tra le città lombarde portò inevitabilmente allo scontro diretto con l’imperatore Federico Barbarossa “il quale, con rinnovati intenti di instaurazione dell’autorità imperiale si riaffacciava in Lombardia e rimproverava questo espansionismo alla città ambrosiana, in quanto segno di grave disubbidienza, di volontà di turbamento di un ordinato assetto di città che egli si preparava a disciplinare nel quadro della costituzione dell’impero” (Chittolini 1993, p. 18).
Lo scontro tra i comuni italiani e l’imperatore vide infatti Milano impegnata in prima linea nell’organizzazione della resistenza: facendosi promotrice della Lega Lombarda la città rinsaldò ulteriormente la propria posizione egemonica. L’esito militare del conflitto – in particolare la battaglia di Legnano del 1176, felicemente conclusasi a favore della Lega, grazie soprattutto ai contingenti milanesi – e la conclusione diplomatica della guerra, con la pace di Costanza, ne testimoniarono la preminenza. Lo stesso Barbarossa, nel 1185, in un clima di riavvicinamento tra l’Impero e Milano, riconosceva alla città particolari privilegi e regalie (Chittolini 1993).
I decenni successivi alla pace di Costanza segnarono una nuova fase di espansione economica e politica per Milano che portò al consolidamento delle posizioni già acquistate nel corso della seconda metà del XII secolo. E questa vitalità economico-politica si rifletteva chiaramente anche nella vivace articolazione sociale milanese. Oltre ai ceti protagonisti della costituzione del regime comunale era andata via via crescendo di importanza il ceto dei mercanti, organizzato nella Universitas mercatorum, e investito dal Consolato dell’importante funzione di intrattenere rapporti “diplomatici” con gli altri comuni in materia di strade, traffici, trasporti, transito di merci, pedaggi. Particolarmente importante per affermarne l’incisiva presenza fu la costituzione della “Motta”, una società composta in prevalenza da mercanti, ma anche dalla piccola nobiltà e dai proprietari fondiari, che si contrapponeva alla grande nobiltà.
Ma accanto al forte ceto mercantile vi era un altrettanto forte ceto di artigiani che, al fine di essere rappresentati economicamente e politicamente, diede vita ad un’altra associazione, la “Credenza di Sant’Ambrogio”. Raggruppando esponenti dei diversi settori produttivi – macellai, fornai, fabbri, lavoratori della lana, conciatori di pelli, ciabattini … – la “Credenza” si distingueva politicamente non solo dalla nobiltà maggiore ma anche dalla neo costituita società della “Motta”. Ne derivò una vivace dialettica politica e sociale che portò ad una graduale e progressiva trasformazione del governo consolare: la necessità di dirimere i sempre più frequenti contrasti insorti tra le parti, portò infatti all’affermazione del governo del podestà – forestiero perché super partes e quasi sempre esperto di leggi per guidare una società oramai complessa, ma di fatto chiamato alternativamente dalle diverse fazioni politiche – affinché venisse garantito un regime più autorevole e stabile.
A partire dal 1186, per vari decenni, si assiste a Milano all’alternanza delle oramai radicate magistrature consolari con le nuove podestarili o ancora alla coesistenza o contrapposizione delle due.
Il governo podestarile tuttavia non abolì le strutture amministrative del comune, bensì si pose a capo di esse per gestire gli affari e gli interessi del comune.
A questo clima di accesa lotta politica si aggiunse la ripresa della lotta contro la nuova minaccia imperiale di Federico II. Chiamata a ricoprire nuovamente il ruolo di guida che già aveva precedentemente assunto contro il Barbarossa, Milano per la salvaguardia dei suoi interessi politici ed economici, e per la difesa dei valori che stavano alla base della sua organizzazione si rivelò in grado di superare le discrepanze interne.
Questi caratteri della “potenza” milanese non vennero alterati neppure dalla crisi delle istituzioni comunali e dalla conseguente affermazione della signoria che a Milano si verificò a partire dalla metà del Duecento.
Durante la prima fase di affermazione dell’istituto signorile i primi reggitori del comune furono personalità al di fuori e al di sopra delle fazioni cittadine: “col titolo di “rettori” del comune di Milano operarono infatti per qualche tempo, a partire dal 1240, Gregorio di Montelongo, legato papale in Lombardia (1238-1251), il ministro generale dei Francescani, Leone da Perego (poi arcivescovo di Milano, 1241-1257); personalità quindi super partes e referenti, non solo di forze urbane, ma protagonisti di un gioco politico assai più vasto” (Chittolini 1993, p. 20).
Dalla seconda metà del Duecento incominciarono ad alternarsi fasi di preminenza Torriana e di preminenza Viscontea. I primi sostenuti da una fazione guelfa e popolare, con un forte appoggio da parte del ceto degli artigiani che, appunto nel 1259, si schierò dalla parte di Martino della Torre, nominandolo capo della Credenza di Sant’Ambrogio e signore della città; i secondi di fazione ghibellina nobiliare, sostenuti da una coalizione di diversi ceti, dai diversi interessi – quali mercanti, nobili – che portarono la famiglia Visconti a primeggiare più volte sui della Torre e ad ottenere la prima affermazione nel 1277, con l’arcivescovo Ottone e la definitiva affermazione solo un cinquantennio più tardi, nel 1330, con Azzone Visconti.
Tuttavia, nonostante l’alternanza e la contrapposizione delle due fazioni, l’orientamento signorile del processo istituzionale non venne mai posto in discussione. La signoria si era rilevata essere l’unico valido strumento attraverso cui proseguire quella politica di espansione territoriale e di egemonia politico-economica che aveva distinto la città ambrosiana sin dall’età comunale.
Con il passaggio dal sistema comunale a quello signorile l’organizzazione del governo comunale subì alcune variazioni: alcuni uffici vennero ridimensionati, altri vennero istituiti ex novo: il podestà da capo del comune divenne strumento di governo alle dipendenze del signore, da lui direttamente nominato; un nuovo organismo, il Tribunale di provvisione, venne creato per volontà dell’arcivescovo Ottone Visconti, allo scopo di unificare l’organizzazione amministrativa del comune. Tali rimasero le competenze attribuite ai consoli di giustizia; un lungo iter di progressiva “espropriazione” di competenze incominciò invece ad interessare il Consiglio generale (Chittolini 1993; Cognasso 1955; Franceschini 1954; Manaresi 1919; Santoro 1956; Vismara 1993).

ultima modifica: 19/01/2005

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