I registri delle missive

di Carlo Paganini

«La trascrizione delle Missive Sforzesche è una grande impresa di interesse non soltanto italiano ma europeo», così scriveva Luciano Moroni Stampa, noto paleografo ticinese, cui fra le altre pubblicazioni si deve «Ticino Ducale», opera che riporta in più volumi la documentazione dei rapporti sforzeschi con la Svizzera. E quasi a ribadirne la validità, Alfio Rosario Natale, introducendo i «Diari di Cicco Simonetta», scriveva che i registri delle missive costituiscono «una serie del più alto interesse per la storia politica, economica e amministrativa del Ducato che non è ben conosciuta e che, ancora, non è stata delibata dagli studiosi». Consapevoli del valore di quanto si contiene in queste testimonianze dell'attività della cancelleria segreta con le magistrature centrali e periferiche dello stato e con gli ambasciatori sforzeschi presso le corti estere, si è proposto di avviarne, con il patrocinio dell'Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, la pubblicazione in rete, iniziando dagli 84 registri di Francesco Sforza, duca di Milano dal 1450 al 1466.


Francesco Sforza e il controllo del territorio

Tralasciati gli anni nei quali Francesco Sforza dà prova di eccellente condottiero, per cui Roma, Napoli, Firenze, Venezia e Milano se lo contendono a comandante delle rispettive truppe, il primo registro delle missive presenta lo Sforza nell'atto di precisare (21 settembre 1447) quale deve essere il comportamento del castellano di Pavia in periodo di guerra. Al comando del castello pavese vi è Gian Matteo Meregazzi, detto Bolognino dal luogo di nascita, persona di certo rilievo, che, per i servizi resi al signore sforzesco, porterà il cognome Attendoli e verrà insignito del titolo comitale, appoggiato sul feudo di Sant'Angelo Lodigiano.

In via del tutto eccezionale il duca di Milano accorda libertà di accesso nel castello a «capitaneo o conductero, zentilhomo o ambaxatore», scortati da accompagnatori, il cui numero spetta al Bolognino valutare come «condecente», in modo che il castello sia sempre in sua «possanza et balia» e non si corra rischio alcuno di inganno. La finalità di coloro cui è concesso libero ingresso deve essere: «visitare la magnifica madonna Agnese et madonna Biancha o Galiazo». Madonna Agnese è Agnese del Maino, cui si deve, a quanto riporta Carlo de' Rosmini, la sollecitazione al castellano di cedere Pavia allo Sforza, assicurandogli come contropartita il possesso del borgo di Sant'Angelo, elevato a contea: una cessione non da poco, che indurrà i milanesi della Repubblica ambrosiana a inviare Pietro Cotta a Venezia per perorare la pace e concordare un'unione contro lo Sforza.

È noto che la scomparsa di Filippo Maria Visconti comportò non solo un ribaltamento istituzionale dello stato milanese, ma anche lo sbriciolamento della compagine statale viscontea, alla cui scomposizione nessuno si astenne: né Lionello d'Este, né i Correggio, né Giano Campofregoso, né Ludovico di Savoia, né Giovanni di Monferrato e neppure Rinaldo Dresnay, il governatore d'Asti che, come il duca sabaudo, saccheggiava l'alessandrino. Superfluo in simile opera disgregatrice ricordare Venezia, che da tempo si era sistemata al di qua dell'Adda, più vicino a Milano, pronta all'atteso attacco finale. Nel frattempo molte città si erano trasformate in repubbliche autonome, risvegliando le antiche libertà comunali. In questa congiuntura, per radicarsi sul suolo milanese, a Francesco Sforza non restava altra possibilità che avvalersi di fortezze sicure nei territori che gradualmente veniva acquisendo, in modo da assicurarsi un saldo dominio su Milano. Ecco perciò il primo imperativo al castellano: «tenerai quello castello ad devozione et fidelità nostra», per cui, conseguentemente, se mai consegna si dovesse fare, la farai «ad chi nui proprio ti dicessimo a bocha» o, se per scritto, questo deve essere garantito dalla sottoscrizione «de nostra propria mano et sigillata delo nostro usato sigillo con la cera biancha et signo», caso piuttosto singolare, «de mano de Cicco, overo de Johanne, nostri cancelleri». La corroboratio di queste sottoscrizioni sarà data dalla corniola, definita da Natale «testimoniale apparizione del personale intervento del principe».

Per garantire la difesa del territorio, la guardinga vigilanza degli uomini del castello deve essere continua e a chi lo comanda non sono concesse assenze senza l'esplicita licenza epistolare dello Sforza, convalidata, essa pure, con la «nostra corniola minore con la cera verde». Il ricorso a questi contrassegni è ripetuto ossessivamente in ogni evenienza, anche quando in caso di guerra o di altro bisogno «per conservatione delo castello o dela città» si mandasse gente «in piccolo o grande numero». Il lasciapassare è sempre una lettera sigillata e sottoscritta dal duca, nel caso pavese segnata con la «nostra corniola maiore con cera rossa».

Scorrendo le varie disposizioni delle missive (che, giova annotarlo, non si succedono in ordine cronologico, a conferma dell'ipotesi che si tratta di registrazioni postume rispetto alla data riportata in capite), si nota la disponibilità sforzesca a concedere una libera entrata ad alcune persone, non più di quattro, forse per alleviare il senso di onorata reclusione cui lo Sforza vuole vincolato il castellano. Assai esplicita al proposito è l'imposizione ad Angelo Alemanno, castellano della rocca di Tortona (6 aprile 1449), di non «ussire fuora dela dicta rocha, cioè fuora delo ponte de quella, socto pena dela testa», dovuta al dilagare nel territorio di truppe nemiche.

Oculatezza e presenza sono ordini ripetuti in modo incessante, a testimonianza di quanta incertezza di fedeltà di uomini e sicurezza di confini dominino anche nel campo sforzesco negli anni precedenti la pace di Lodi. L'unificazione in una sola persona dei compiti di capitano della cittadella e di castellano del castello di Piacenza significa tanto della necessità di cautela che allora (5 gennaio 1451) il duca ha nell'affidare a una sola persona di provata fiducia la tutela di una città come Piacenza, vitale per il suo stato. Francesco Sforza ha preso possesso di Milano dal 26 marzo del 1450, ma Venezia, Federico III e Carlo VII non riconoscono alla «congregatio civium et populi» del 26 febbraio dello stesso anno alcuna valida legittimazione alla «translatio dominii et ducatus». Venezia su tutti gli è particolarmente nemica: lo Sforza ne è consapevole e conosce anche la ragione di tanta ostilità, espressa di lì a poco da Antonio da Trezzo: «Veneziani cercano con tanta instantia la desfactione dela signoria vostra se non perché, desfacta quella, possano poi desfare gli altri et farse signori de Italia». In questa situazione il duca designa all'accennato duplice incarico Sceva de Curte, che ha rapporti con il principe dal 1442 e nel 1447 è tra i sostenitori dello Sforza nell'occupazione di Pavia, divenendo poi consigliere segreto. Nonostante sia persona di sicura fiducia, gli raccomanda di non accogliere di sua volontà più di 4 o 5 persone nella cittadella e non più di 2 o 3 nel castello. Al di là di questi numeri non potrà neanche lui andare senza le ormai note garanzie di sottoscrizioni con la corniola piccola in cera verde per la cittadella, mentre la sottoscrizione ducale sarà caratterizzata da «una croce denanzi et una drieto» e quella dei cancellieri avrà dentro «scolpita la nostra corniola grande cum la cera rosa». In questa missiva appare, non comune, l'intervento di sei oppure otto «maystri da ligname overo da murare» per interventi di restauro delle fortezze. I fanti ai suoi comandi «siano dele terre nostre et siano persone apte et fidate», valide, quindi, per una duplice funzione: la sicurezza della fortezza e la sicurezza dei sonni del castellano («ad ciò che possiati dormire più securamente»). Queste le raccomandazioni a Sceva, che tuttavia, curiosamente, vengono subito dirottate al fratello Benedetto. Nella stessa missiva, infatti, lo Sforza comunica: «vui, misser Sceva, ve havimo mandato dal'imperatore per nostri facti» (non è azzardato ritenere che il viaggio si insinui nelle trattative, sempre eluse dall'imperatore, per il riconoscimento dell'autorità ducale, avendo Francesco Sforza apertamente dichiarato essere «cosa honesta et non meno debita reconoscere el dicto nostro ducale stato dal Sacro Impero»). A Benedetto non resta che recludersi nelle fortezze: «vadi ad stare nele dicte fortezze et observarai ad unguem tucti questi nostri ordini, li quali non volimo che sapia nisuno, se non misser Sceva e ti». Sorprendentemente lo scriba annota che detti «ordeni sono cassi, perché s'è mutato et cassato domino Sceva et in suo loco messo Marco deli Attendoli»: annotazione errata, che convalida l'ipotesi che la registrazione delle missive sia avvenuta in tempi diversi rispetto alla successione cronologica degli avvenimenti. Lo scriba, inoltre, attestando una straordinaria disattenzione, non avverte che gli ordini dati a Sceva sono trasmessi al fratello, che avrà il comando del castello e della cittadella fino al maggio 1455, assumendo negli anni seguenti la carica di podestà di Piacenza, Alessandria e Cremona, per poi concludere la sua carriera a capo della cittadella di Parma. Marco Attendoli subentrerà nel duplice incarico piacentino a Benedetto il 24 maggio 1455. A parte la sottoscrizione del duca con la croce e la corniola del bissone in cera rossa, le disposizioni per Marco Attendoli si distinguono da quelle imposte a Benedetto per la concessione di uscire liberamente di giorno «per visitare et solicitare li conestabili dele porte», lasciando in sua vece nelle fortezze un parente o persona fidata e capace. Non manca un'ammonizione: «non volimo che te impazi in quella città de cosa alcuna che specti alo offitio del nostro podestà», carica che dalla fine del 1456 sarà esercitata dal suo predecessore Benedetto de Curte. Francesco Sforza ha motivi per governare con maggiore serenità: la pace di Lodi è alle spalle da oltre un anno (9 aprile 1454) e da tre mesi (25 febbraio 1455) papa Niccolò V ha ratificato la lega italica, che ridava al pontificato romano il prestigio di arbitro tra gli stati italiani, avendo, in caso di loro discordia, «eius iudicandae ius potestatemque» («riconoscimento che ideatore del progetto fu», come scrive Fubini, un pontefice, Martino V, anche se «nella forma e nei modi in cui fu conclusa non fu quella ispirata dal papa»). Lo Sforza, dal canto suo, aveva validamente cooperato a garantire all'Italia un lungo periodo di equilibrio, acquisendo non solo il riconoscimento della legalità del suo dominio, ma anche rispetto e dignità di vigorosa personalità politica.


Francesco Sforza e Niccolò V

«Me trovo mediante la gratia del'altissimo Dio, cui immortales gratias habeo, havere acquistato questo stato de Lombardia, et non con puoca fatiga, como la santità vostra ha inteso. Mo che l'ho acquistato me bisogna ponere lo pensiero et intellecto ad mantenerlo, governarlo et ponerlo in reposo et tranquillitate». Sospinto da questi propositi di buon governo, a pochi mesi dall'investitura popolare al ducato si sofferma sui benefici, ritenuti «molto grandemente importanti al facto mio». La loro sistemazione è considerata come elemento di ordinato e pacifico reggimento della cosa pubblica: «se la causa de questi beneficii non passasse cum questo ordine, sequeriano ogni dì scandeli et inconvenienti in questo mio stato». Poiché «li importuni sonno assai», il duca è indotto a scrivere (18 giugno 1450) a Niccolò V, esortandolo ad accordare attenzione solo alle sue raccomandazioni presentate con «littere con li intersegni» uguali a quelli contenuti nella missiva inviatagli. Ritiene tanto pressante quanto invoca da ribadire: «solo el fazo per ponere questo mio stato in quiete». E perché quiete e riposo veramente ne conseguano, supplica che la missiva sia conservata «cum segnali talmente secreta quod ad aures lombardorum non veniat».

Il tono pacato e riverente della lettera sforzesca meraviglia non poco se si considera l'epistola risentita e dai toni recisi con cui Niccolò V nello stesso anno richiama lo Sforza a non comportarsi solo come signore («nec solus princeps esse velis»), ma anche «tamquam bonus et catolicus princeps». Lo scontro tra l'«auctoritas sacrata pontificis» e la «principis potestas» è per la materia beneficiale: sull'assegnazione del priorato di Campomorto lo Sforza oppone una resistenza che al pontefice appare inaudita e misconoscente della paziente dilazione della decisione papale («cupientes voto tuo satisfacere, ipsius provisionem distulimus, expectantes ut civitate Mediolani potieris», ma ciò avvenne «tardius expectatione omnium»). Non potendo rinviare più in là una risoluzione, il priorato venne assegnato a Filippo Calandrini, cardinale di Bologna, nella speranza di non aver concesso il beneficio a persona «statui tuo suspecte». Si rivela così inutile l'insistenza sforzesca, ribadita «pluribus litteris ac nunciis», perché si attribuisca il beneficio a un Landriani: il papa non può «nullo pacto compiacere absque diminutione magna nostri honoris». Reciso, dopo averlo richiamato a non essere ingrato con Dio e il suo vicario, l'ammonisce che farà in modo che il provvedimento «omnibus remediis» (compresa la scomunica o, peggio, l'interdetto) «effectum sortiatur». La resistenza dello Sforza fu di breve durata. Da una missiva datata 8 settembre 1450 risulta che Antonio Landriani, condottiere ducale, aveva già consegnato al messo del prelato bolognese «la possessione del beneficio» di Campomorto. Nello stesso giorno lo Sforza scrive al cardinale Calandrini perché consideri come «boni vicini» i fratelli Landriani.

Nel 1453 sarà invece un eminente prelato curiale, il cardinale Rotomagense, Guillaume d'Estouteville, a chiedere allo Sforza di perorare presso il pontefice la concessione di «uno mediocre vescoato o altro benefitio et dignitate che ascenda perfin ala somma de ducati CCC» ad Anselmo de Magio, «citadino et archidiacono de Novara, principale scriptore apostolico qui in corte, nostro intrinsico e cordiale servitore». Anch'egli, come scriveva il duca al papa, è sommerso da postulanti e, al pari di Francesco, chiede al duca di tener conto solo delle lettere con un suo particolare «segno».

Nella vertenza beneficiaria con il pontefice lo Sforza intende affermare la possibilità del potere laico di scalfire la potestà decisionale pontificia in materie in cui lo stato non intende abdicare ai suoi interessi o alle garanzie di fedeltà (come potrebbero essere i casi in cui è opportuno premiare una famiglia benemerita della corte o motivare una più sicura e duratura dedizione alla causa sforzesca). Viene così giustificata la netta e ostinata, anche se di breve durata, opposizione alla decisione papale. È una reazione suscettibile di altre e più consistenti rivendicazioni. Questa concezione del potere ducale non pare sfuggire al colto Niccolò V, «le pape de la Renaissance» (così lo definisce Fernand Hayward), e nella sua aspra reazione alle insistenze sforzesche non è forse assente una tormentata resipiscenza per l'indulto «beneficiario» accordato al signore milanese.


La lungimiranza di Francesco Sforza

Non solo nella politica estera, ma anche nell'alternante vicenda di acquisizioni di terre e rocche, che l'instabilità delle alleanze rendeva oggetto di continui attacchi, emerge l'intelligenza del signore, che, per garantire le conquiste, non esita a unificare nella stessa persona l'autorità del castellano e del podestà. Questa associazione delle funzioni militare e amministrativa non solo rassicura i soldati, ma anche conforta la gente, che al di là delle mura fortificate si trova in gravi difficoltà a causa del protrarsi della guerra, combattuta aspramente soprattutto dalle truppe veneziane. Come riferito nel secondo registro delle missive, i veneziani (14 agosto 1450) non esitano infatti a portarsi presso Pavia, cercando «cum omne cativanza et trista industria fare brusare quella nostra darsana», causando «tanto nostro preiudicio». A questo pericolo si aggiungeva il malcontento della guardia (29 agosto 1450), in arretrato di stipendio e indignata per la «detractione facta del salario», provvedimento che, «considerati li tempi che regnano al presente et considerato che ogni homo fuge da Pavia», non poteva essere più inopportuno. Il 30 agosto Francesco interverrà presso Antonio de Minuti, regolatore delle entrate, e i Maestri delle entrate perché gli addetti alla darsena «restano contenti», sottolineando che «nele presente condizione de tempi per respecto dela peste è necessario havere diligentissima guardia», la quale deve essere estesa a tutta la Lomellina. È l'anno santo: «da verso Vercelli per quelle parte de Lomellina passano molti romeri», scrive il 30 agosto 1450 «et porriano essere casone de infectare tuto quello payse». Si faccia in modo che passino «più dala longa de Lomellina che possibile sia». Com'è noto, nel Quattrocento peste e carestie ebbero, seppur localizzate e in forme non endemiche, un ritorno ciclico: anche in questo caso il duca di Milano, comprendendo la necessità di raccogliere con la massima attenzione i minimi sentori del morbo, in modo da evitarne la diffusione e garantire la salute di Pavia, agisce con la sua consueta lungimiranza.