Bagliori di roghi nella Magnifica Terra di Bormio

di Ilario Silvestri

Sommario

  1. Premessa storico-geografica: il contado di Bormio nel Cinquecento
  2. Cenni storici
    1. 2.1. Dall'età antica alle origini del Comune di Bormio
    2. 2.2. Le vicende del Comune dal XIII secolo al 1450
    3. 2.3. Le vicende del Comune dal 1450 al 1499
    4. 2.4. Bormio sotto il dominio francese: 1500-1512
    5. 2.5. Bormio sotto il dominio dei Grigioni: 1512-1620
    6. 2.6 Un decennio di turbolenze: 1620-1630
  3. Le istituzioni
  4. I luoghi
  5. Il processo per stregoneria

1. Premessa storico-geografica: il contado di Bormio nel Cinquecento

Communis, Communitas o, più raramente, Universitas o Respublica Burmii, sono le parole che definivano, negli incartamenti dell'ancien régime, l'ambiente naturale e umano posto a nord-est della Valtellina e che comprendeva la conca di Bormio, la vallata di Valdisotto a meridione, quella di Valfurva a levante, quella di Valdidentro a ponente e la valle di Livigno oltre lo spartiacque dell'Adda.

Tale territorio, collocato nel cuore delle Alpi Retiche ad una quota piuttosto elevata (oltre 1000 m sul livello del mare), fu sempre avvertito e segnalato nelle relazioni e memorie di diplomatici, di viaggiatori e di dignitari ecclesiastici in forma particolarmente positiva.

Il vescovo di Como Feliciano Ninguarda, in visita pastorale nel Contado di Bormio, nella Valtellina e nella Valle di Poschiavo nell'autunno del 1589, coglie con acutezza somiglianze e differenze fra le tre plaghe, rilevando anzitutto la contiguità geografica del Bormiese con la Valtellina per la strozzatura di Serravalle, ma evidenziandone poi la fiera autonomia dalla stessa e gli ampi Privilegi che Milano concesse al piccolo Stato a svantaggio soprattutto della finitima regione.

Egli scrive: (1)

Bisogna sapere per prima cosa che la Valtellina e il Bormiese sono posti sulla stessa linea e senza alcuna interruzione e stanno tra due altissime catene di monti; una di queste, a destra scendendo, separa proprio questa valle dalla giurisdizione della Lega Caddea, una delle tre Leghe Retiche. (2) L'altra catena la divide dalla giurisdizione di Brescia e di Bergamo, sottoposte al serenissimo arciduca Ferdinando. (3) L'attraversa il fiume Adda fino al lago di Como: il fiume nasce sopra Bormio sul monte Braulio, volgarmente Mombrai, dove scaturisce da un'apertura dell'altissima roccia. (4) Tra i due monti in un luogo stretto distante da Bormio sei miglia, (5) c'è un muro alto e stretto, tanto che per di lì nessuno può passare, se non attraverso una porta costruita vicino al fiume; codesta porta in tempo di guerra o di pestilenza è ben custodita e per questo è chiamata "Serra", cioè la chiusa di quei monti, e separa la comunità bormiese dalla rimanente parte della Valle che è chiamata Valtellina. (6) La comunità bormiese poi, a due miglia e mezzo da Bormio, borgo assai importante dove ha residenza il pretore della giurisdizione territoriale, ha costruito, alquanto a monte delle rinomate acque termali, (7) risalendo verso il suddetto Mombrai, un'altra chiusa simile, ma più salda. (8) Per di lì si sale al Mombrai e dall'altra parte si scende nella valle di Santa Maria nella giurisdizione del vescovo di Coira, (9) a dieci miglia dalla valle Venosta, ampia e fertile, soggetta all'Austria. (10) Tra i paesi di Molina, di Premadio e di Fraele hanno costruito un'altra chiusa simile alle altre, ma più robusta, distante da Bormio cinque miglia, attraverso la quale si apre il passaggio più facile, anche se più lungo, non solo verso la valle di Santa Maria, ma anche verso l'Engadina inferiore. (11)

La giurisdizione di Bormio fu così difesa da ogni parte grazie alla posizione e alle chiuse delle valli, da rimanere sicura e protetta dai nemici. Dai duchi di Milano ebbe molti privilegi, dei quali in certa parte gode e fruisce tuttora, ma non completamente come prima, per causa del dominio dei Reti, ai quali è sottoposta ***. (12) Per ciò la si considera per nome e per governo distinta dal resto della Valtellina, che è quattro volte e oltre più grande, larga e fertile. (13) Benché Bormio sia famoso è tuttavia isolato con alcuni paesi e contrade a lui soggetti; la sua giurisdizione si estende in linea retta per circa dieci miglia e in larghezza per circa un quarto, eccetto vicino a Bormio dove si allarga per due miglia. Comprende alcuni monti e due lunghe valli, quantunque strette; una a destra, chiamata valle Furva, di sette miglia fino a Vico Magnavacca (14) e di altre sette, attraverso il monte Gavia, fino alla giurisdizione da una parte, a sinistra, in val di Sole, soggetta al serenissimo arciduca Ferdinando e dall'altra parte in Valcamonica, soggetta a Brescia. L'altra valle, a sinistra, lunga sette miglia, è chiamata valle di Pedenosso (15) con un passaggio alpino di otto miglia fino al paese di Livigno, sui confini dell'Engadina, soggetto alla giurisdizione di Bormio; è abbondante di carni, di formaggio e di burro, manca però di vino e di castagne, che sono importati dalla Valtellina, poiché lì per il freddo eccessivo non può essere piantata né vigna né albero di castagno; di quando in quando manca di frumento, di legumi e di altre granaglie. Invece la Valtellina, dalla predetta divisione di Serravalle fino al confine del lago di Como, si estende in linea retta per cinquantacinque miglia; all'inizio del lago di Como è larga due miglia e mezzo, in qualche luogo due, in altri uno e mezzo, in un luogo uno ed infine mezzo miglio; verso il termine, al confine di Serravalle, non supera il mezzo miglio e da ultimo non raggiunge la larghezza di un quarto di miglio. Sia in pianura che sui due pendii della montagna vi sono borgate importanti e numerosi villaggi con diverse valli, molto fertili e ricche non solo di carni, formaggio e burro, ma anche di vino e di castagne e con grande abbondanza di frumento e di legumi.

V'è poi il versante a sinistra risalendo la Valtellina, disseminato di paesi e borgate, che è così ricco di vigneti, che le viti si sviluppano per quaranta miglia e salgono ovunque sul monte per almeno un miglio, in alcune parti per due, e in altre anche più, tanto che oltre alla richiesta della stessa valle una grande quantità di vino è esportata ogni anno, soprattutto in Germania.

La descrizione del Bormiese, succinta ed essenziale, era la premessa per l'esame della condizione del Cattolicesimo dopo il settantennio di dominio delle Leghe Grigie sulle tre circoscrizioni, quindi il vescovo esclude tutte le particolarità superflue ai fini della sua missione anche se il tratteggio delle caratteristiche ambientali, climatiche, istituzionali ed economiche è sufficientemente preciso (16) e riguarda proprio il periodo in cui le istituzioni bormine perseguono il reato di stregoneria conservando i primi incartamenti completi delle inchieste.

La stregoneria è però un capitolo che si aprì a Bormio più di un secolo prima e ci vien data informazione di quarantuno streghe processate e giustiziate nel più noto manuale per inquisitori: il Malleus maleficarum, tristemente celebre per aver giustificato dottrinalmente le prime grandi cacce in Europa. Nei verbali di Consiglio del Comune di Bormio troviamo la conferma di tale falcidia nei provvedimenti del braccio secolare per estirpare quella che nei carteggi di tutta Europa fu definita "empia eresia delle streghe".


2. Cenni storici

Nei pubblici documenti superstiti dei secoli anteriori non si è ritrovato alcun cenno a fatti appartenenti alla magia, e quindi, come ovunque, vi fu ampia tolleranza. I primi procedimenti contro le streghe in Lombardia da parte delle autorità ecclesiastiche furono peraltro quelli contro Sibilla de Laria e Pierina de Bugatis sul finire del Trecento. (17)

La prima grande caccia a Bormio fu comunque quella citata nel Malleus maleficarum, (propriamente si citano le condanne del 1485, mentre vi furono procedimenti contro le streghe documentati già nei due anni precedenti) giustificata quindi con gli argomenti esposti in quel trattato, ma aiutarono certo a prender radici contro l'empia eresia anche condizioni economiche e istituzionali che il Ninguarda lasciò intendere nel passo in cui si accenna ai tempi di maggior prosperità del Contado. La seconda metà del XV secolo fu caratterizzata da molteplici innovazioni sia nelle istituzioni civili che in quelle religiose e tali mutazioni concorsero certamente a creare nella società maggiore ansia e inquietudine, condizioni dell'animo che favorivano il diffondersi di sciagurate interpretazioni di credenze su cui fino allora si indulgeva, tanto che negli Statuti di Bormio, elaborati nei secoli precedenti, non compare alcunché contro coloro che praticavano arti magiche. (18)


2.1 Dall'età antica alle origini del Comune di Bormio

La storia di Bormio nelle epoche più remote, ossia quelle ricostruibili attraverso l'analisi dei reperti archeologici, non può che essere a stento accennata per le scarse indagini e conseguenti rari ritrovamenti che permettono di formulare soltanto qualche congettura. Di grande importanza è comunque la stele, assegnata al V secolo a.C., (19) ritrovata nel 1944 nei pressi della chiesa di San Vitale. In essa gli archeologi, pur con diverse sfumature, sembrano concordi nel vedervi effigiato un avvenimento riferibile alla religiosità. Essa è quindi la prima testimonianza di un'organizzazione, certamente anche complessa, della vita delle popolazioni insediate su questo territorio.

Altra testimonianza rilevabile dai documenti medievali, che certo ricalcano usi molto antichi, è l'organizzazione vicinale, ossia la gestione da parte di una comunità d'una porzione di territorio, con consuetudini giunte fino a metà del secolo appena trascorso. Gli storici concordano nell'assegnare a tale istituto un'origine preromana. (20)

I Romani, che assoggettarono tra il 25 ed il 14 a.C. tutte le popolazioni alpine, lasciarono poche tracce del loro dominio, ma il territorio di Bormio fu certamente gravato da gabelle destinate al fisco. Nei documenti notarili fino al XV secolo ricorre infatti frequentemente la formula secundum ussum terrae fiscalis che testimonierebbe l'antica assegnazione dei tributi alla camera imperiale.

Politicamente il Bormiese, come Poschiavo, apparteneva probabilmente alla Raetia prima, con capoluogo Coira, che fu ceduta dai Goti ai Franchi nel 537, come compenso della neutralità di questi ultimi nella guerra greco-gotica. Nella Rezia, poi detta Curiense, le istituzioni e la civiltà latina, il diritto, la cultura e la lingua, ebbero un'eccezionale persistenza durante tutto l'Alto Medioevo e, nei secoli che seguirono, sopravvissero nell'Engadina e nel Bormiese resistendo alle influenze che provenivano dai paesi nordici. (21)

I Longobardi, secondo il Besta, giunsero in Valtellina e Contadi intorno al 720 e, pur non essendo tale tesi del tutto condivisa nei più recenti studi storici, sembra comunque che non abbiano mai conquistato la conca bormina che fu, con ogni probabilità, tenacemente difesa dai Franchi.

All'epoca carolingia risale comunque la comparsa di Bormio nei documenti e sono le istituzioni ecclesiastiche ad essere citate per prime in documenti emanati dalla cancelleria dell'imperatore Lotario I. La chiesa battesimale di Bormio viene citata espressamente in un diploma del 3 gennaio 824 (22) per "cose" rivendicate dal vescovo di Como Pietro contro l'abate del monastero di S. Dionigi di Parigi a cui Carlo Magno, nel 775, donò quanto gli apparteneva in Valtellina. Le "cose" di cui non avrebbe potuto disporre l'abate erano verosimilmente le rendite nella parte meridionale del Bormiese, di pertinenza della chiesa di S. Martino di Serravalle edificata con ogni probabilità in quel tempo, e della valle di Livigno. I successori del vescovo Pietro disporranno liberamente dei due territori, per il primo donando le rendite spettanti alla chiesa al monastero di S. Abbondio di Como nel 1010 (23) e per il secondo infeudandolo a Eganone di Matsch nel 1187. (24)

Continua a rimanere ignoto fino a quando il monastero parigino di S. Dionigi esercitò i diritti appena sopra citati, concessi da Carlo Magno sulla pieve di Bormio. L'ipotesi ritenuta più credibile è quella che essi durarono fino al X secolo e oltre, per essere quindi ceduti al vescovo di Coira per vendita o per permuta. (25) I signori di Matsch esercitarono i diritti di curia e di gastaldia a nome del vescovo d'Oltralpe almeno a partire dalla fine dell'XI secolo; le decime e la giurisdizione spirituale rimasero, e senza alcuna contestazione, al vescovo di Como, cui perteneva anche la signoria su Livigno e su S. Martino di Serravalle, come appena detto, oltre ad altri diritti, come quello della coraria. (26)

Il vescovo di Como ottenne nel 1006 dall'imperatore Enrico II ampi poteri feudali nelle pievi valtellinesi di Mazzo e Villa, che si aggiungevano alla giurisdizione spirituale, e quest'ultima giungeva a comprendere anche il Bormiese e Poschiavo con i conseguenti diritti patrimoniali sulle decime.

Al potere vescovile si affiancherà nel corso del XII secolo il potere politico del Comune di Como e, nello scorcio di quel secolo, Bormio, che aveva raggiunto un'organizzazione militare che gli permetteva di opporsi all'espansione della potenza lariana, proverà ad emanciparsi totalmente da ogni dominio. Fu però costretto a piegare il capo e a subire il gravoso trattato del 16 aprile 1201. In esso il Comune di Como afferma la sua egemonia con l'imposizione di censi, con obblighi giurisdizionali, politici e militari, ma, fatti salvi i diritti del vescovo lariano, di quello curiense e del signore feudale, concede l'esenzione da gabelle sul commercio nel territorio che controlla. Con tale clausola si concede di continuare quello che già era, ma sempre più diverrà nei secoli seguenti un capitolo fondamentale dell'economia bormina: il commercio con i paesi transalpini del vino valtellinese. Nel trattato rimangono integre anche le istituzioni comunali che andavano sempre più consolidandosi.

L'autonomia e l'indipendenza dalle autorità feudali iniziò comunque nei decenni precedenti la guerra con Como e lo testimonia il breve regesto contenuto nel Quaternus eventariorum, datato 12 agosto 1185, dove il Comune concordò con Egano II di Matsch che ogni controversia sarebbe stata risolta ut dicant ius et usum. (27) Nei decenni seguenti, ossia a partire dal 1222, come recita lo stesso inventario, (28) i diritti sovrani spettanti al vescovo curiense saranno direttamente esercitati dal Comune di Bormio attraverso il pagamento di censi sul diritto di gastaldia e su quello di curia, cioè i diritti di natura economica e quelli relativi all'alta giurisdizione.

Inizierà così la lunga parabola del Comune bormino, le cui istituzioni democratiche raggiungeranno la soglia del XIX secolo, abbattute soltanto dagli sconvolgimenti del dominio napoleonico.


2.2 Le vicende del Comune dal XIII secolo al 1450

Gli uomini di Bormio, nel corso del XIII secolo, azzarderanno sempre di più, giungendo per esempio a violare impudentemente le immunità spettanti all'abate di S. Abbondio con cui aprirono un contenzioso che fu sanato dall'arbitrato del 2 novembre 1214. Il giudizio di Egano III di Matsch, arbitro prescelto dalle parti, sui doveri degli uomini appartenenti al monastero non poté che affermare l'estraneità dalla giurisdizione di Bormio su coloro qui tenent et stabunt super terras ecclesie Sancti Martini et in monte de Profa. (29)

Nel 1288 si ridefinirono gli obblighi verso il vescovo di Coira e i suoi avvocati e, qualche anno dopo, la mensa vescovile e il monastero di S. Abbondio di Como, o coloro che ne erano investiti a loro nome, furono pacificamente estromessi dal diretto esercizio della riscossione delle decime, a partire dal 1295 per la prima e dal 1316 per il secondo. (30)

Gli obblighi feudali, come il rispetto dei diritti signorili degli avvocati del vescovo di Coira, permetteranno a Bormio nel 1300 di giustificare il distacco dal dominio di Como. Il Comune sfuggirà al dominio citramontano e si sottometterà alla più blanda signoria del vescovo di Coira e, dal 1301, i podestà, prima inviati da Como, saranno nominati dal vescovo della diocesi d'Oltralpe.

Nei primi decenni del XIV secolo, propriamente a partire dal 1325, l'esuberante audacia del Comune bormino giunse a includere nella propria giurisdizione il territorio di Livigno, feudo dell'ormai sempre più decadente ramo citramontano dei von Matsch. Il fatto comportava anche il disconoscimento della signoria eminente che spettava al vescovo di Como, ma non vi furono contrasti di tale entità che mutassero l'avvenuta usurpazione. (31)

La politica di Bormio non azzarderà più imprese tanto prepotenti ma dovrà sempre più preoccuparsi della difesa della propria autonomia, tanto più difficile quando sulla scena politica lombarda comparirà la superpotenza di Milano che si mostrerà minacciosa anche ai suoi confini quando Azzone Visconti nel 1335 assoggettò Como e la Valtellina. La strategia difensiva dai Visconti fu quella di consolidare i vincoli con il vescovo curiense e con Ludovico di Brandeburgo, duca di Baviera, di Carinzia e conte del Tirolo.

Tutto fu però vanificato nel 1350 quando il Comune di Bormio permise all'esercito milanese di entrare nel suo territorio per contrastare l'iniziativa militare dell'avvocato Ulrico di Matsch contro i Visconti. Con l'insediamento dell'esercito visconteo nel Contado ebbe inizio la signoria di Milano e a poco servì la breve pausa in cui ritornò alla pristina autonomia dopo la sollevazione dei guelfi valtellinesi contro i Milanesi nel 1370, (32) anzi la ribellione sarà la causa del primo grave saccheggio e devastazione del borgo di Bormio nel 1376.

Dopo che Galeazzo Visconti ristabilì il controllo sulla Valtellina e si attenuarono le tensioni con le potenze d'Oltralpe, riferisce l'autore dei Memoranda, (33) in festo sancti Andree apostoli, exercitus domini Galeaz Vicecomitis intravit in Burmio ex vi et depredata fuit tota terra, tam in montibus quam in plano, et quidam dominus Johannes Canus, qui erat capitaneus ipsius exercitus, fecit dictam terram de Burmio comburere et mortui et capti fuerunt multi homines de Burmio et in illa vice suprascriptus dominus Joannes Canus fecit proycere in terra castrum (34) de Burmio et proiecit in terra seram de Seravalle (35) et fugierunt Burmini per seram supra castrum (36) et postea fregerunt baionam, que erat supra castrum. (37)

La punizione dopo la disfatta fu certo oltraggiosa per gli alteri bormini che si videro accorpati alla Valtellina, ma Galeazzo II, dopo pochi mesi, restituì a Bormio i suoi antichi privilegi, anzi tale politica benevola e tesa ad assecondare le richieste del Comune si rafforzò con Gian Galeazzo Visconti e poi con i suoi successori che concessero privilegi ed esenzioni fiscali che nei secoli seguenti apportarono ricchezza e fortuna politica. Gian Galeazzo, per esempio, favorì Bormio per avere in cambio un'efficiente manutenzione e difesa dei valichi, come attesta l'esenzione dal censo ottenuta nel 1393 per provvedere di presidi fortificati i passi dell'Umbrail e di Fraele: (38) si costruirono infatti nei tre anni precedenti le fortificazioni sull'una e sull'altra strada (39) a protezione dalle bande di razziatori che calavano da settentrione saccheggiando e devastando non solo Bormio ma anche la Valtellina.

Qualche anno più tardi vi furono i primi privilegi fiscali. Caterina e Giovanni Maria Visconti, con diploma del 12 luglio 1404, concessero la franchigia per il vino consumato nel Contado. I loro successori la concederanno fino a raggiungere l'esenzione per 1500 plaustri. (40) La benevolenza dei duchi milanesi appare in modo particolarmente significativo nel diploma del 28 marzo 1450, emesso dalla cancelleria di Francesco Sforza, in cui furono concessi privilegi sia nel commercio che nella giurisdizione: i Bormini potevano imporre liberamente dazi, pedaggi, decretare e modificare statuti a proprio beneficio; si confermava la facoltà di esercitare l'alta giurisdizione con il potere di decretare la pena di morte; al podestà era ridotto l'onorario e il numero di famigli a carico del fisco; si rimettevano tutti i debiti contratti con la camera ducale; tutti gli uomini adatti alle armi dovevano servire a difesa del territorio del Contado; si approvavano le convenzioni e patti tra il Comune di Bormio e il vescovo di Coira e il duca d'Austria; si confermò l'esenzione già concessa da Filippo Maria nel 1417 del dazio per 300 plaustri di vino estratti dalla Valtellina; ma soprattutto fu concesso il monopolio nel commercio di vino attraverso i valichi di Fraele e dell'Umbrail. (41)

I privilegi concessi dai duchi di Milano nel commercio del vino e del sale minerale proveniente dalle saline di Hall, poco lontano da Innsbruck (42) durarono poco. Essi furono infatti seriamente compromessi nel 1487, quando con il trattato di Caiolo, Milano non potè opporsi alla richiesta dei Grigioni di avere altrettanta libertà di commercio.


2.3 Le vicende del Comune dal 1450 al 1499

Nella seconda metà del Quattrocento, come già accennato, non furono poche le novità istituzionali ed economiche introdotte nel Contado. Innanzi tutto è da ricordare la definitiva uscita di campo dei signori feudali nella politica corrente. L'ultimo atto fu quello di Ulrico di Matsch che, il 13 luglio 1448, infeudava ad un Marioli di Bormio ogni diritto a percepire le decime spettanti alla sua famiglia nel Bormiese. (43) In campo istituzionale è da registrare l'aspro contenzioso tra Comune e Capitolo di Bormio, riapertosi nel 1462 (già vi furono risentite proteste da parte del Capitolo nel 1401), per l'aperta violazione delle immunità ecclesiastiche a causa dell'amministrazione laica delle rendite spettanti alla chiesa plebana. La controversia si chiuse nel 1528 con diploma del vescovo Cesare Trivulzio che lasciava inalterato l'uso di nomina comunale del canevaro delle rendite ecclesiastiche. (44)

Si assisterà alla frammentazione della Pieve con la nascita delle Parrocchie: la Valfurva si era di fatto separata già nel 1379; nel 1453 si separarono le Vicinanze di Semogo, Isolaccia, Trepalle e Pedenosso, costituendo la Parrocchia di S. Martino; nel 1467 le Vicinanze di Molina, Turripiano e Premadio costituirono la Parrocchia di S. Gallo e, dieci anni dopo, le contrade della valle di Livigno formarono la Parrocchia di S. Maria; rimasero soggette alla chiesa plebana soltanto le vicinanze di Valdisotto.

Le istituzioni comunali subiranno più di qualche ritocco. Infatti le Vicinanze delle vallate che circondano Bormio avevano soltanto una rappresentanza nel Consiglio Ordinario poco più che simbolica di tre consiglieri su sedici: tra il 1465, dove ancora non era mutato il rapporto tra Terra Mastra e Valli come testimonia il frontespizio del verbale di Consiglio della sorte invernale, (45) e il 1481 (46) raddoppierà il numero di consiglieri e si sdoppierà il Consiglio con la delega a tredici deputati di Bormio nelle cause civili. Del cambiamento se ne parlerà più avanti, per ora si vuole solo rendere evidente come i rapporti all'interno del Contado fossero in quegli anni molto tesi e aspri, tanto da obbligare i maggiorenti del borgo a concedere anche qualche modifica istituzionale. Una delle cause dei dissidi fu probabilmente la novità che si voleva allora introdurre (e sarà introdotta a partire dal 1485) di affittare gli alpeggi ai pastori forestieri sottraendoli alla gestione vicinale. Si cominciò con il Gavia, inviando tre deputati, con piena autorità demandata dal Consiglio della Comunità, di designare la porzione di pascolo da destinare ai forestieri. (47) Questi ordini furono preceduti da un altro ben più minaccioso, che rivela manifestamente quale fosse l'ostilità verso queste innovazioni. In esso si decretò che nessuna persona di Bormio o abitatrice osasse fare qualsiasi genere d'offesa o molestia nelle persone e nelle cose degli uomini di Val Camonica a cui era stata affittata una parte dell'alpe Gavia sotto pena di 50 lire, oltre le punizioni previste dallo Statuto per le risse. (48) Dai verbali degli anni seguenti sappiamo che i vicini esclusi da quell'alpeggio furono compensati con 20 soldi nel febbraio 1490 ed il 4 maggio si stilò un contratto con tale Pietro di Viano, seguito, il 26 giugno, da un nuovo decreto con minaccia di pene severe per chiunque avesse portato a pascolare castrati o pecore in Saleytina e nell'alpe Forno. (49) Tutti gli alpeggi eccedenti le necessità di pascolo estivo delle singole Vicinanze entrarono con proteste più o meno violente nella gestione diretta del Consiglio Ordinario.

Alla Vicinanza di Livigno fu concesso, con Privilegio del 26 gennaio 1480, di eleggere propri magistrati per l'amministrazione della giustizia civile fino a tre lire imperiali.

E non vi era cattivo sangue soltanto tra la Terra Mastra e le Valli, ma anche all'interno del borgo gli attriti erano assai spinosi. Scrive il Besta che la popolazione di Bormio era disgraziatamente divisa da rivalità ed odii: si opponevano uomini ad uomini, famiglie a famiglie. Nel 1477 il podestà Francesco Crippa si lagnava di dover fare perennemente il frate predicatore, per mettere paxe. (50)

Le relazioni commerciali con i paesi oltralpe si fecero difficoltose dopo che i Bormini subirono un sequestro di cavalli da parte di Florio Maltessi: la sentenza che riconosceva a quest'ultimo un indennizzo di cinquecento ducati non rasserenò le relazioni, ma i dissapori riemergevano appena vi fosse il più piccolo pretesto con le conseguenti proibizioni di commerciare attraverso i passi.

I Grigioni manifestavano sempre più frequentemente la loro aggressività nei confronti di Bormio rivendicandone l'appartenenza al vescovo di Coira e, rileva il Celli, a rendere difficili i rapporti fra Bormio ed i Grigioni contribuì, oltre alla diversità etnica e linguistica, il dislivello delle rispettive culture aggravato dalla fioritura nel Contado dell'umanesimo che rappresenta l'antitesi della rude semplicità dei Reti. (51) Bormio comunque fu invasa dalle soldatesche delle Leghe Grigie il 27 febbraio 1487, subendo il secondo grave saccheggio della sua storia, ma soprattutto subendo il trattato di Caiolo di cui già si è fatto cenno, quod fuit maximum detrimentum hominum et dictae terre Burmii (Deus eis pareat), come annota l'autore dei Memoranda.

Per completare il quadro che vedrà anche l'espletarsi della spietata caccia alle streghe del 1483-85 non va dimenticata la sequenza di pestilenze che si susseguirono a partire dal 1467, anno in cui morirono in Bormio e circondario milleseicento persone. (52) Settantaquattro persone morirono nel 1476. La pestilenza si propagò per la negligenza e disattenzione di alcune giovinette che indossarono panni infetti. L'autore dei Memoranda racconta che incepit in domo magistri Laurentii Mazoli de Bergamascha propter quosdam pannos qui non fuerunt purgati in domo domini Joannis filii quondam ser Modesti de Albertis et Antoniola, que erat nurus suprascripti domini Johannis, voluit retro suam dotem propter mortem sui coniugis Erasmi, qui erat filius suprascripti domini Joannis et infetavit suam ancillam, una cum Justina filia suprascripti Laurentii Mazoli, solaziando, prout faciunt puelle nubende, portando et cambiando suprascriptos pannos et dicta Justina obiit infra tres dies. (53) Un'altra grave epidemia dilagò nel 1495 con quattrocento morti e di nuovo imperversò nel 1512 falcidiando altre quattrocentocinquanta persone.

Bormio nell'ultimo decennio del Quattrocento fu ancora tormentata e angustiata da continue minacce da parte dei finitimi Grigioni, con Ludovico il Moro sull'altro versante che, fortemente impressionato dall'invasione della Valtellina nel 1487, pretendeva che fossero fortificati i passi. In una contingenza tanto precaria i maggiorenti bormini cercavano di strappare qualche concessione, soprattutto l'antico monopolio del commercio di transito, rilevando come il libero passo dei Grigioni costituisse una perenne minaccia per l'intero ducato milanese, avendo essi la possibilità di entrarvi con i loro eserciti senza incontrare ostacoli.

Le insegne svizzere e grigione sventoleranno comunque nel borgo di Bormio il 23 ottobre 1499, unitamente a quelle del re di Francia, che si apprestava a concludere la guerra contro Ludovico il Moro, usurpatore dei suoi diritti ereditari sul ducato di Milano.

Nell'autunno del 1493 transitò per il Bormiese il fastoso corteo che accompagnava la leggiadra Bianca Maria Sforza, nipote del Moro, che, passando per l'Umbrail, andava ad incontrare a Innsbruck il suo sposo, l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo. Leonardo fu forse al seguito anche se, più verosimilmente, fu tra i cortigiani del duca di Milano nel 1496 quando s'incontrò a Mals con l'imperatore.


2.4 Bormio sotto il dominio francese: 1500-1512

Il nuovo signore di Bormio, il christianissimus rex Francorum, come viene nominato nei Memoranda, confermò tutti i Privilegi già concessi e compì i millecinquecento plaustri di vino da estrarre dalla Valtellina in franchigia concedendo l'esenzione per cinquecento e la riduzione a metà del censo per il decennio seguente.

Ma per i Grigioni l'obiettivo di mettere le mani sul Contado di Bormio non era certo caduto con l'avvento del nuovo potentissimo signore. I malintesi divennero frequenti da una parte e dall'altra. Non si disdegnavano neppure le razzie, e tre Engadinesi conobbero la forca dopo una scorreria a Livigno. Un contenzioso era ancora aperto nel 1506 per certi furti compiuti anche nelle chiese engadinesi dai Bormini nel corso della guerra tra Massimiliano d'Asburgo e le Tre Leghe. (54) Le questioni con i Valvenostani per i dazi non si volevano definire e, come scrive il Besta, non si sapeva ormai più come salvarsi dalla tempesta. (55)

La politica internazionale intanto diventava decisamente favorevole ai Grigioni per la conquista della Valtellina e Contadi. La Lega Santa auspicò addirittura l'occupazione. Intanto tra Bormio e l'Engadina e la Val Monastero si stabilirono rapporti destinati a facilitare la convivenza e i trattati futuri con la concessione del libero transito ai Comuni retici confinanti: si trattava di concessioni che l'evolversi degli eventi internazionali consigliava per evitare maggiori danni.

Il 23 giugno 1512 intraverunt Grisanti in dominium Communitatis et Terrarum Burmii ed un mese dopo, il 22 di luglio caepit sevire pestis in territorium Burmii. (56)

Così si concludono i Memoranda e con parole quasi malinconiche chiude anche il Besta il suo Bormio antica e medioevale, scrivendo che parecchi degli uomini che già avevano guidato la diplomazia comunale erano scomparsi; con loro spariva una tradizione che era sempre stata dignitosa. Altri si erano tirati in disparte. Tra gli uomini nuovi prevalevano criteri materialistici. Si tirava a campare: senza fede.


2.5 Bormio sotto il dominio dei Grigioni: 1512-1620

Il passaggio al dominio grigione apriva un capitolo della storia di Bormio che durerà fino al 1797. Nella lettera che il comandante delle truppe della Lega Grigia, Enrico di Capaul, inviò ai Bormini pochi giorni prima dell'invasione si ricordava che un tempo Bormio fu terra del vescovo di Coira e quindi si voleva che ritornasse all'ovile. (57) Bisognò ubbidire, accettando immediatamente l'autorità dell'episcopio curiense. Ciò indusse i Reti al riconoscimento degli Statuti, dei Privilegi e antichi usi così come furono concessi dai duchi di Milano e dal re di Francia.

L'autonomia prevista dagli Statuti era certamente eccessiva per i Grigioni che cercarono di eroderla lentamente. Soprattutto si cercò di svuotare il capitolo 28 che imponeva il divieto di appellarsi a qualsiasi tribunale che non fosse quello di Bormio. Già in un Consiglio di Popolo del marzo 1514 si inviò un ambasciatore al vescovo di Coira per conservarne l'integrità, (58) ma l'autodeterminazione comincerà ad essere incrinata nel 1536 con la concessione ai forestieri della facoltà di appellarsi al tribunale delle Tre Leghe. Due anni dopo, Livigno richiese l'arbitrato grigione su di una serie di richieste. Le furono riconosciute alcune lagnanze di poco conto, ma fu anche riconosciuto il diritto alla Comunità di gestire tutti gli alpeggi della vallata livignasca e ad andare a nozze furono proprio i Grigioni che videro concretizzato l'appello al loro tribunale, non per i soli forestieri, ma anche per i nativi. (59) L'innovazione sarà sancita nel 1563 nella nuova redazione degli Statuti. (60)

Nel 1518 l'equilibrio nella vita interna del Contado si alterò di nuovo e si scatenò una nuova caccia alle streghe con conseguenze drammatiche per molte persone. Non se ne conosce il numero esatto, ma molti indizi lasciano immaginare che un numero piuttosto elevato di persone salì il patibolo per essere arso vivo. I provvedimenti amministrativi per estirpare l'empia eresia durarono un anno e mezzo, quando fu necessario arginare il diffondersi di una nuova pestilenza che infettò il Contado fino al 1523. Il tribunale di Bormio fu presieduto per l'ultima volta da un giudice ecclesiastico.

Negli anni che seguirono dilagò nella Svizzera e nelle Leghe Grigie la riforma religiosa di Zwingli, (61) la quale determinò nel Principe grande benevolenza e favore alla diffusione di quelle idee anche nei domini citramontani. Le ragioni furono anche politiche: si cercò cioè di rendere più forte il vincolo tra i signori d'Oltralpe ed i loro sudditi accomunandoli nella religione.

A Bormio i riformati non attecchirono in nessun modo. Solo tre persone (una quarta, un fabbro di Val Monastero, era soltanto domiciliata) abbracciarono la nuova fede, manifestando però in forma anche clamorosa le proprie opinioni. Per esempio uno di essi, Nicola Grand Fogliani, ardente riformato, il 13 aprile 1557, sulla pubblica piazza in presenza dei due reggenti, del podestà e di molte altre persone, fece scalpore dicendo: que lo predicator qual ha fatto venire la Communità non ha predicato, o sia non predica la verità et ha predicato fabule. (62) In quell'anno le Leghe, con un decreto del 26 gennaio, avevano concesso libertà di predicazione ai pastori evangelici e avevano ordinato che gli spazi di culto fossero equamente divisi fra la confessione cattolica e quella riformata: nei villaggi dove vi fossero state almeno due chiese, una doveva essere concessa ai Riformati e in presenza di un solo tempio, si ordinava l'alternanza nell'uso. Soprattutto però, al terzo punto del decreto, si proibiva a qualsiasi ecclesiastico forestiero di esercitare la sua missione in Valtellina e Contadi, se non con il consenso delle Leghe. (63)

La condanna di 20 lire applicata al Fogliani dal tribunale lascia intendere la contrarietà dei maggiorenti bormini alle novità in campo religioso e già qualche anno prima, nel 1544, si proibì a chiunque di discutere in pubblico sulle questioni di fede. (64) I predicatori della quaresima (65) che venivano reclutati nei conventi francescani o domenicani della Lombardia non si astenevano certo dal dipingere a tinte fosche i riformati: uno di loro, nel 1564, predicò che li luterani fan como serpenti, quali se nutrirano nel ventre dela madre et per nascer havante hora consumano la panza dela madre per nascer havante hora, cosi fano li luterani per far in contra la giesa. (66)

Uno dei momenti più critici tra Bormio e le Leghe fu comunque quello che seguì la visita del vescovo di Vercelli Francesco Bonomi nel 1578, quando, per non aver ottemperato al terzo punto del decreto del 1557, il Comune fu condannato al pagamento della pesante ammenda di 75 scudi. Si provò a non pagare, ma si prospettavano gravi conseguenze e bisognò chinare il capo, ma non senza qualche significativa punta d'orgoglio.

Negli anni in cui lo scontro tra l'imperatore Carlo V e il re di Francia, Francesco I, per il controllo del ducato di Milano divenne di capitale importanza, la repubblica reta si vide insidiata dalla guerriglia che le mosse contro Gian Giacomo Medici (detto il Medeghino): (67) Bormio fu leale e, dopo aver fronteggiato con voti e disinfezioni una nuova pestilenza, (68) inviò soldati e armi contro l'audace avventuriero provvedendo anche al sostentamento delle soldatesche in transito. (69)

Le Tre Leghe, nel corso della guerra contro il Medeghino, conclusero, il 7 marzo 1531, l'importante trattato con il duca di Milano Francesco II Sforza, in cui fu riconosciuta (propriamente fu "confermata") la signoria reta sulla Valtellina, Contado di Chiavenna e Contado di Bormio. (70) La questione dei confini del ducato milanese rimase ancora aperta nei decenni seguenti: Carlo V temeva infatti di vedersi tagliare il collegamento offerto dal corridoio valtellinese e dai passi bormini tra i suoi domini italiani e quelli tedeschi.

Il Contado di Bormio, unitamente alla Valtellina, divenne sempre più oggetto delle mire asburgiche per le ragioni appena sopra esposte, con la Serenissima e la Francia sempre più spaventate dallo spropositato potere della Casa d'Austria, e quindi contrarie ad ogni concessione. A completare il quadro, nella seconda metà del Cinquecento dopo la conclusione del Concilio di Trento nel 1563, vi sarà l'intreccio tra politica e religione che vedrà soprattutto la promozione e il consolidamento di istituti come le confraternite religiose per un capillare controllo della società: esse saranno uno degli strumenti più efficaci per arginare la diffusione della Riforma, che comunque, negli anni '80 del XVI secolo, aveva esaurito la sua forza di penetrazione e le posizioni si assestarono anche geograficamente, per rimanere tali fino ai nostri giorni. Il Contado di Bormio rimase saldamente cattolico e gli organi del Comune avevano tenacemente difeso la fede avita forse anche nel timore che un mutamento di fronte religioso avrebbe comportato qualche cambiamento statutario sfavorevole alle libertà del Contado. Anche le Tre Leghe, sul finire del secolo, si ammorbidirono sul fronte religioso, dando per esempio il consenso ad assumere i Gesuiti come predicatori, confessori e maestri di scuola (rimangiandoselo quando, con la donazione di Caterina Alberti nel 1611, si prospettò l'effettiva possibilità dell'istituzione di una scuola da loro diretta). (71)

Nel 1589 e 1593 il vescovo Feliciano Ninguarda, nativo di Morbegno e quindi esente da quanto prescritto nel decreto del 1557, potè visitare la Valtellina e Bormio lasciando cadere qualche seme originato dal Concilio tridentino: per esempio guidò certamente il ciclo di affreschi della costruenda chiesetta di Turripiano in Valdidentro non concedendo nulla alla religiosità popolare che avrebbe dispiegato una sequenza di santi ausiliatori invece di immagini il cui contenuto era un sermone contro le tesi di Zwingli sulla natura di Cristo.

Il XVI secolo vedrà significative proteste e pretese delle Vicinanze delle Valli per aumentare ancora la loro rappresentanza negli organi istituzionali. L'atto di maggior significato si concretizzò nel 1555 quando i rappresentanti della Valdisotto, della Valdidentro e della Valfurva si appellarono alle Leghe chiedendo che il Consiglio di Popolo fosse composto da un uomo per fuoco della Terra Mastra e delle Valli; che nel Consiglio Ordinario, nella sua veste di Tribunale nei giudizi penali, fossero presenti anche i consiglieri delle Valli; che vi fosse maggiore trasparenza nella gestione della cosa pubblica con la possibilità di controllo da parte di tutti; che fosse impedita l'elezione di consanguinei nei pubblici uffici; che i pascoli estivi fossero assegnati proporzionalmente al bestiame invernato; che le contrade non fossero esageratamente aggravate nella manutenzione delle strade e dei ponti; inoltre, fra altre petizioni, che il podestà fosse sempre presente affinché la giustizia potesse avere il suo corso. Gli arbitri deliberarono secondo quanto prescrivevano gli Statuti e le antiche consuetudini, quindi senza sostanziali modifiche degli ordinamenti. (72) Il malessere però si era apertamente manifestato e le rimostranze al Principe contro la Terra Mastra si ripeterono in maniera energica nel 1603 per l'ellezione degl'officii a cagione delle decime e per il godimento delle montagne, quanto per la amministrazione e registro de' conti dell'intiera Communità. (73) Il Tribunale grigione decretò definitivamente il 16 agosto 1605 bocciando molte pretese delle Valli; si avviò comunque una definitiva spartizione dei pascoli e dei boschi che occuperà i commissari reti e bormini fino alla vigilia della guerra del 1620. (74)

La costruzione del forte di Fuentes (75) all'imbocco della Valtellina nel 1603 era un chiaro presagio di nuove sciagure. I Valtellinesi nel 1605 si appellarono ai Grigioni perché fosse imposto ai Bormini il dodicesimo delle spese sostenute per la difesa dalla minaccia spagnola di cui il forte era l'emblema, oltreché il libero commercio del vino e delle granaglie attraverso i passi dell'Umbrail e di Fraele. Si sentenziò che, poiché si ha trovato che dalle Tre Leghe, più volte ed in diversi tempi, la Communità di Bormio in questa cosa è stata previlegiata, come li suoi Statuti e Previlegi dispongono ch'essi non siino tenuti di star a taglia con gli uomini di Valtellina, non vogliamo metter mano nelli suoi Privileggii, Statuti ed antiche consuetudini e lasciamo quelli in vigore tanto sopra le taglie e spese dimandate per gli uomini di Valtellina, quanto sopra il passaggio delli cavallanti per la sua Communità. (76)

Le inchieste per stregoneria intanto mietevano qualche vittima: la Gonella nel 1608 fu giustiziata per tale reato.

La corruzione dei magistrati grigioni che consideravano gli uffici di Valtellina una fonte di sostanziosi guadagni (per un podestà di Bormio era invece più difficile arricchirsi perché le sue funzioni erano molto più modeste), unitamente alle questioni religiose che giustificavano nei Comuni della Rezia il sospetto che Roma e la Spagna alimentassero dei maneggi contro di loro, stavano preparando la tempesta. Si cercò di intimorire il partito cattolico valtellinese che cominciò a temere non solo per la fede, ma anche per la propria integrità fisica e materiale. L'arciprete di Sondrio Nicolò Rusca morì nel settembre del 1618 per le spietate e prolungate torture nel corso di un processo dove, anche i giudici cattolici, lo ritennero un pericoloso cospiratore, prima che un eminente ecclesiastico cattolico. (77)

Tornò di attualità per gli Spagnoli, per i Veneziani e per i Francesi il controllo del corridoio montano offerto dalla Valtellina e Bormio, strategicamente vitale per i primi.

Con lo scoppio della guerra dei Trenta Anni nel 1618 gli Spagnoli aizzarono il partito cattolico valtellinese contro i Grigioni e la rivolta si manifestò in tutta la sua violenza nel luglio 1620, quando fu fatta strage di tutti i Riformati presenti in Valle. Si aprì allora una guerra che durerà fino al 1626 e si concluderà con il trattato di Monzon in cui la Valtellina e i Contadi saranno di fatto autonomi e sotto il protettorato spagnolo, pur conservando ai Grigioni un'ombra di sovranità nominale.


2.6 Un decennio di turbolenze: 1620-1630

Bormio, non senza contrasti (il capitano della milizia bormina Rodomonte Alberti, contrario all'unione con la Valtellina, fu assassinato) si unì agli insorti valtellinesi e non mancarono i facinorosi, appartenenti alle migliori schiatte del borgo, che uccisero il riformato Giampietro Fogaroli. Fu il solo omicidio: Nicola Grand Fogliani ed il genero Andrea Olesio espatriarono; il podestà grigione fu scortato ai confini del Contado.

Il 15 agosto il Consiglio di Popolo ratificò i patti con la Valtellina, che alla moltitudine sogliono piacer più i consigli speziosi e vani, che i maturi e spesso si hanno per generosi coloro che non misurano le cose prudentemente, scriveva Gioachimo Alberti. (78) Nei giorni seguenti essi furono suggellati dal duca di Feria, governatore di Milano.

Le Tre Leghe fecero offerte generose ai Bormini affinché tornassero all'ovile, fra l'altro trentamila zecchini per avere il libero transito dai passi e portarsi in Valtellina dove vendicare le truci violenze commesse contro i Protestanti. Non si volle cedere all'utilità e invece mantenere pertinacemente la fede data e perseverare nelle molestie; (79) piuttosto si oltraggiarono gravemente le Leghe uccidendo vigliaccamente il loro ambasciatore. Le conseguenze furono drammatiche. Il 1 settembre le truppe retiche e svizzere assoldate dai Veneziani entrarono nella valle di Livigno e il giorno dopo, attraverso il passo del Foscagno, giunsero in Valdidentro dove sbaragliarono la linea difensiva organizzata nei pressi del villaggio di Turripiano e raggiunsero Bormio, trattenendosi per dodici giorni e commettendo ogni scelleratezze e profanamenti particolarmente nelle cose sacre, depredando le chiese, tagliando le imagini e spezzando li altari in minuzie, con depredar Bormio molto fornito di mobili, non avendo avuti disturbi di guerre dal 1376, al tempo di Galeazzo in poi, per più di tre secoli. Questi disordini furono commessi dalli Bernesi e Zurigani, non ostanti li giuramenti fatti di non metter mano alle chiese, donne e figliuoli ed anco agli uomini, fuorché ne' fatti d'arme; ed avendo intesi Giovanni Güller, (80) comandante della nazion griggiona, tanti disordini, particolarmente contra le cose sacre e chiese, ne ricevè gran sdegno e gettò il capello in terra, prottestando, benché fosse Prottestante, che gli erano imminenti sinistri incontri dalla mano di Dio. (81) L'esercito si avviò poi verso la riconquista della Valtellina, ma fu fermato e sconfitto a Tirano dai soldati spagnoli e valtellinesi. Tale fatto, per chi visse in quel tempo, sembrò confermare i nefasti presagi del comandante grigione, tanto che l'Alberti scrisse nelle sue memorie che in questo fatto d'arme fu la vittoria attribuita più ad un divino castigo che al valor de' soldati. (82) Le affermazioni dell'Alberti e del Güller sono coerenti con l'insegnamento veterotestamentario che la sventura è testimonianza dell'intervento divino a punizione dei peccati degli uomini. È certo che tale mentalità non potè che partorire gravi condanne e pene per gli eretici adoratori del Demonio che col suo aiuto danneggiavano la comunità.

Ma le sventure incalzavano ancora e al saccheggio degli Svizzeri e dei Grigioni seguì quello degli Spagnoli che li inseguivano nella ritirata verso i loro paesi. Narra nel suo memoriale Giasone Fogliani che invece di portare soccorso et aiuto incominciarono anche essi a rubbare, aggravare et a farsi contribuire dal povero paese [...] et duemilla guastadori incominciando un forte reale dentro in mezzo della campagna, (83) qual occupava seimilla pertiche di terreno dei migliori, senza pagar cosa niuna, così per niente, e essi occuporno la maggior parte delli nostri campi nel forte et in strade. (84)

Grande scoramento suscitò poi il tradimento dei Livignaschi: recita un partito di Consiglio del 1622 che stando il male affetto dimostrato da Livignaschi verso la nostra Communità di Bormio al tempo che Grigioni vennero la prima volta a Bormio hostilmente, et il modo con che sparlorno contra la riputatione d'essa nostra Communità, qual credendo totalmente distrutta dall'armata griggiona, aggiutorno a spogliare la Terra di Bormio de soi beni et bottinarla a guisa de nemici, non considerando che come membri di essa dovevano correre l'istessa fortuna et più presto morire che mai dimostrarsi in modo alcuno da noi disuniti. Considerato il tutto et havuto risguardo alla sommissione fatta da detti Livignaschi et il pentimento dimostrato, si è receduto da più grave pena nella quale raggionevolmente erano incorsi. (85) Nessuno dei colpevoli riconosciuti e incriminati pagò mai la pena comminata, ma è da rilevare che fra i venticinque predatori vi fu un personaggio, Andrea di Cristoforo di Biagio Maiolani, che occuperà magistrature eminenti nei decenni seguenti, nonostante fosse figlio di una strega (86) e non fosse "vicino" della Terra Mastra, verosimilmente perché mise a frutto il bottino razziato con prestiti usurari che gli permisero di estorcere vantaggi altrimenti non conseguibili: per esempio egli sarà canevaro maggiore nella sorte estiva del 1630, quando si procederà contro la setta stregonica e trentaquattro persone saliranno il patibolo; poco dopo diventerà reggente.

Nell'ottobre del 1621 i Grigioni calarono di nuovo su Bormio, entrando il 13 di quel mese nella Terra Mastra. Il giorno seguente gli Spagnoli asseragliati nel nuovo forte cominciarono a cannoneggiare la cittadina, continuando anche quando i Reti se ne erano fuggiti, e dando inoltre l'ordine di appiccare il fuoco casa per casa.

Continuarono negli anni seguenti i maneggi della diplomazia di tutte le corti europee per un definitivo assetto della Valtellina, Contadi e Tre Leghe. A metà del secondo decennio del Seicento, gli Svizzeri del Vallese presidiavano Bormio per accordi intercorsi con i Francesi: i patti furono stipulati da Simone Murchi, allora canonico e poi arciprete di Bormio, fanatico propugnatore della necessità di annientare la setta delle streghe onde evitare disgrazie e rovine. Il forte era intanto governato dall'arrogante generale francese Du Lande che dispensava generosamente soprusi e iniquità.

I travagli sembrarono finire quando il re di Spagna e quello di Francia, dopo negoziazioni segrete, siglarono il 5 marzo 1626 a Monzon, in Aragona, un trattato che avrebbe dovuto chiudere definitivamente ogni controversia. Ma il trattato scontentava i Veneziani e soprattutto i Grigioni. Fu però sottoscritto dal Consiglio di Popolo di Bormio il 5 dicembre dello stesso anno. (87)

Nel corso delle trattative tra le potenze per concludere la questione valtellinese, il Comune di Bormio ottenne dai Veneziani il singolare privilegio di poter inviare ogni anno, a spese della Serenissima, sei giovani all'università di Padova e dal re di Francia l'accesso gratuito agli studi di due giovani alla Sorbona di Parigi. (88)

Dopo il trattato di Monzon, fino al 1639, quando con il Capitolato di Milano si chiuderà definitivamente la questione valtellinese, i podestà furono bormini. Il primo a ricoprire tale magistratura fu Giulio Fogliani. Si complottava intanto per introdurre il Tribunale della Santa Inquisizione per avere la certezza che la Riforma non attecchisse. I Bormini diffidarono di tali novità e, racconta Gioachimo Alberti, entrarono più presto in sospetto e gelosia di qualche mina sotto, e peraltro restarono maravigliati e più ingelositi i principali, che sotto tal prettesto si preparassero lacci in loro detrimento e danno, come che cattolicamente vissero i loro antenati con ogni purità di religione, ed essi aver con ogni buon zelo non solo provisto e procurato all'indennità loro contro le novità de' Protestanti, ma anche con altrettanto fervore verso la religione cattolica incaminati i loro figliuoli e per zelo della propria religione d'aversi inoltrati e posti in infinite miserie di guerre e patimenti, ne meno poter essi di far di meno di non commerciare, trafficare e pratticare liberamente con i Prottestanti per la vicinanza che tengono con essi loro da più parti. (89) Certamente, se la cosa fosse avvenuta, le condanne capitali per stregoneria sarebbero state meno numerose, essendo nota la maggiore prudenza degli inquisitori ecclesiastici del Seicento nel perseguire tale reato.

L'assetto politico continuava comunque ad essere molto precario e, a peggiorare le cose, cominciò ad alitare nei paesi che circondano Bormio una nuova, terrificante ondata di peste.

Nella sorte estiva del 1630, il 19 settembre, il podestà Giasone Fogliani, i reggenti Gianfrancesco Alberti e Giangiacomo Settomini, il canevaro maggiore Andrea Maiolani daranno avvio ad una delle più spietate persecuzioni a streghe e stregoni che la storia del Contado di Bormio ricordi.


3. Le istituzioni

Le istituzioni democratiche bormine, riconosciute dagli organismi feudali già nel XII secolo, non ebbero nel corso dell'ancien régime mutamenti di rilievo. Da quanto attestano i documenti superstiti, al Comune di Bormio era già riconosciuta personalità giuridica nel 1185, nel trattato con l'avvocato del vescovo di Coira (90) e, nei tre secoli che seguirono, acquisì tutti i diritti pertinenti in origine alle autorità feudali.

Alcuni organismi comunali risalgono però a epoche più remote. La comunità degli abitanti amministratrice della proprietà collettiva del villaggio, anche se giuridicamente inesistente, è da far risalire infatti a tempi anteriori all'epoca romana. (91) La parola "Vicinanza", a cui non fu più riconosciuto alcun titolo dai giuristi napoleonici, identificava l'assemblea degli uomini che decideva dell'uso del territorio appartenente al vicus. "Vicino" era di diritto il discendente di chi già partecipava alla Vicinanza; i forestieri, e tali erano considerati anche coloro che appartenevano al villaggio contiguo, potevano essere ammessi nell'assemblea vicinale soltanto con il consenso di tutti i vicini, garantendo di assumerne tutti gli obblighi.

Nel Contado, le Vicinanze compaiono frequentemente negli incartamenti perché avevano precise responsabilità verso la Vicinanza egemone di Bormio, la quale si autodefiniva con il titolo di "Comunità" o altro, come si è detto nella prima parte di questo lavoro.

La traccia più esplicita e più antica delle funzioni dell'assemblea vicinale nelle contrade è quella conservata a Cepina, risalente al 1546. Si tratta di norme che regolano l'uso dei pascoli, la cura delle recinzioni, il taglio dei boschi e l'obbligo per i vicini capifuoco di partecipare alle processioni e alle funzioni religiose. (92) Le deliberazioni, che in tempi più antichi avevano bisogno dell'approvazione del signore feudale, furono sottoposte alla ratifica del Comune di Bormio, detentore dei diritti che i vassalli del vescovo curiense avevano ceduto in cambio di un censo annuo.

Le Vicinanze sparse nel territorio del Contado, in un ruolo sottoposto, partecipavano comunque alle decisioni amministrative della Communitas Burmii inviando proprii rappresentanti nel Consiglio di Popolo e, fino almeno al 1465, eleggendo tre rappresentanti nel Consiglio Ordinario o Seduto (cosidetto per la facoltà concessa ai consiglieri di parteciparvi seduti). Nel 1481 i rappresentanti della Valdidentro, Valfurva e Valdisotto furono raddoppiati e i tredici consiglieri di Bormio furono ridotti a dieci; Livigno fu sempre escluso perché suddito, anche se, dal 1480, come già detto, gli fu concesso dal duca di Milano il privilegio di un proprio tribunale per amministrare la giustizia civile fino a tre lire imperiali.

I sei rappresentanti delle tre vallate nel Consiglio Ordinario avevano soltanto funzioni amministrative ma non giudiziarie, come si precisa in una delibera del Consiglio di Popolo del 26 maggio 1481: furono infatti eletti tredecim providi viri in Terra Mastra Burmii, qui debeant consulere et sententiare in Burmio per annum unum proxime futurum seu usque revocabuntur per unum alium Consillium Populi et consilliarii sex in Montibus, videlicet ad consulendum tantum. (93) La Vicinanza aveva anche l'obbligo di eleggere ogni anno due persone, dette "anziani d'uomini" con il compito di riferire al podestà e reggenti le risse, i furti o misfatti che avvenivano nella contrada. (94)

Nel Contado di Bormio la sovranità apparteneva al popolo che la esercitava nel Consiglio detto appunto di Popolo o Generale e frequentemente anche Magno. (95) Nel 1555, tra le petizioni delle Valli rivolte al Tribunale grigione, vi fu quella di convocare nel Consiglio un uomo per fuoco. La richiesta fu respinta, ma si decretò che fossero rappresentate da un numero di persone uguale a quello della Terra Mastra, sessanta uomini delle Valli ed altrettanti della Terra Mastra. (96) Tale numero è confermato anche dall'Alberti che ne espone succintamente anche le funzioni. Egli scrive che d'ordine delli reggenti e Consiglio [Ordinario] si citano per li publici servitori cento e venti persone, per metà della Terra di Bormio e l'altra metà delle Valli, a venti per Valle, delle più vecchie e prudenti si trovino ed ancora in maggior numero conforme all'urgenza delli bisogni e rilevanti affari, radunate in luogo a ciò destinato. Due sono li reggenti, anticamente chiamavansi offiziali. Questi propongono al Popolo ed alli Consigli tutto ciò che occorre, rendono primieramente li conti dell'amministrazione degli antecedenti reggenti, passati però prima nel Consiglio Ordinario con ogni accuratezza. Il Popolo ne discorre sopra d'essi conti, se niente circa l'amministrazione vi ritrova, s'admettono con ringraziamenti alli reggenti, passano tuttavia alli esaminatori, li quali accuratamente li rivedono se vi siano errori e queste scritture si conservano nel publico archivio raccopiato in libro bergamino. (97)

Una delle funzioni a cui il Consiglio di Popolo non poteva sottrarsi, se non in casi assolutamente straordinari, era quella di eleggere ogni anno i membri del Consiglio Ordinario e quelli del Tribunale civile. Designava inoltre il capitano della milizia con i suoi diretti sottoposti, eleggeva l'arciprete e, fino al 1557, reclutava anche l'inquisitore. Esercitava il potere legislativo con l'emanazione di leggi, decreti e norme statutarie valide fino alla revoca da parte di un altro Consiglio di Popolo; (98) l'approvazione avveniva con la maggioranza di due terzi degli elettori.

L'anno amministrativo era diviso in tre "sorti" di quattro mesi ciascuna: quella primaverile iniziava il 16 febbraio, quella estiva il 16 giugno e quella invernale il 16 ottobre. La sorte invernale dava anche avvio agli uffici di durata annuale detti di "san Gallo" (perché in quel giorno, secondo il calendario liturgico, si onorava quel Santo). Si eleggevano in quell'occasione gli esaminatori che avevano il compito di rivedere la correttezza nell'amministrazione; gli estimatori con la funzione di periziare i beni in garanzia; gli esattori del Consorzio di S. Maria di Marzo, ossia di rendite destinate alla confezione e distribuzione di un'elemosina di pane il giorno dell'Annunciazione, in marzo appunto; gli esttori del panno dell'elemosina che si distribuiva ai poveri a Natale; i canevari della Fabbrica, ovvero gli amministratori tanto contestati dal Capitolo nel XV secolo delle rendite ecclesiastiche; i procuratori dei boschi; gli agrimensori. Inoltre quattro causidici che dovevano intervenire, se richiesti, a difesa delle parti nei processi. Ancora il canevaro alle biade, che provvedeva a riscuotere le decime, quello che riscuoteva l'erbatico sui pascoli collettivi e il canevaro di taverna, quando il Comune gestiva direttamente la taverna maggiore.

Gli ultimi tre funzionari erano sottoposti al canevaro maggiore, vero e proprio ministro dell'economia, che, come i due reggenti e i cancellieri, ricopriva l'ufficio per un quadrimestre. (99) Nell'arbitrato del 1214 di cui si è fatto cenno precedentemente, il canevaro maggiore era detto gastaldus e, invece di due reggenti, in quel tempo, vi era un solo decanus. Quest'ultimo si sdoppierà in due procuratores, come documentano i registri amministrativi del 1335, per poi assumere altre denominazioni nel corso dei secoli: tra le più usate, quella di reggente o di ufficiale.

Le ultime tre magistrature erano le più autorevoli. Chi le ricopriva interpretava ed eseguiva le delibere consiliari; convocava e guidava il Consiglio Ordinario; riceveva e amministrava le rendite del Comune; provvedeva al mantenimento dell'ordine interno con facoltà di nominare "zalapoteri", ovvero spie; curava la manutenzione di strade e ponti; riceveva il giuramento degli altri magistrati e le loro garanzie; assumeva il medico, (100) il farmacista e il maestro di scuola, (101) retribuendoli per la condotta; insomma, scrive il Besta, esercitavano controllo su tutti. Appunto per ciò furono gli ufficiali maggiori. Avevano sopra di sé il podestà; ma potevano in certo qualmodo controllare anche lui eccitandone l'azione o temperandola. (102)

Alla testa del Comune vi era il podestà, ma le sue funzioni erano assai limitate, più simboliche che concrete: egli rappresentava il Principe, l'autorità superiore e non ebbe compiti e uffici giudiziari o legislativi, se non quelli eminentemente costrittivi e direttivi. Gli organi comunali non potevano cioè agire senza di lui. (103) Il Comune aveva l'obbligo di stipendiare anche un fante da lui scelto, che, unitamente ai due reclutati dai reggenti, svolgeva funzioni di polizia giudiziaria e tributaria. Il podestà durava in carica due anni.

Il Capitolo della chiesa plebana dei SS. Gervasio e Protasio fu un'istituzione d'origine molto antica, risalente forse al IX secolo, anche se in forma non compiuta comunque esistente in quell'epoca, come tante altre istituzioni ecclesiastiche a cui i sovrani carolingi si affidarono nella strutturazione dell'Impero. (104)

Esso era costituito dall'arciprete e da quattro canonici detti "prebendarii", ossia remunerati con una prebenda di ventotto moggia (105) di grano il primo e di quattordici moggia gli altri; (106) tale compenso comportava l'obbligo di residenza. È da ricordare che l'amministrazione del patrimonio ecclesiastico fu sempre prerogativa del Comune che, nonostante le appassionate proteste avvenute nel XV secolo, (107) applicava inesorabilmente le sanzioni previste per chi non ottemperava agli obblighi.

Appena eletto l'arciprete si impegnava solennemente dinnanzi ai reggenti, al canevaro e ai consiglieri, oltre che a risiedere nella canonica, a inviare e pagare per la sua parte il sacro crisma e le olive benedette che ogni anno si ricevevano nella cattedrale di Como; a provvedere a sue spese la legna necessaria per la benedizione del fuoco che avveniva nel cimitero attiguo alla chiesa; a invitare i canonici, e più tardi anche i parroci delle contrade, a tre banchetti nelle maggiori solennità; a provvedere l'incenso; a permettere ai canonici di praticare liberamente le funzioni di curato; alla conferma dei curati che le Vicinanze delle Valli eleggevano liberamente; a non rassegnare le dimissioni dall'arcipresbiterato se non con la licenza del Comune; a non alienare o locare i beni della chiesa se non con l'intervento dei canevari nominati dal Comune; allo stesso modo non poteva incassare i fitti di tali beni; non doveva intromettersi nella gestione del patrimonio della confraternita della Beata Vergine; (108) aveva l'obbligo di accompagnare la Santa Croce quando veniva portata processionalmente in Bormio e nelle contrade; (109) aveva l'obbligo di rispettare le cifre applicate consuetudinariamente per l'uso dei panni da porre sui feretri; la Comunità si riservava inoltre il diritto di ritenere e usare le rendite del patrimonio ecclesiastico fino a 70 lire imperiali per il pagamento del predicatore quaresimalista o per altri uffici liturgici; nel caso che il predicatore non fosse stato disponibile, l'arciprete doveva sostituirlo insegnando il vangelo ogni domenica. (110)

I curati delle Vicinanze venivano anch'essi eletti dall'assemblea di tutti gli uomini e con essa stipulavano un contratto con onori e oneri.

Nella Plebe di Bormio, come in tutta la Diocesi di Como sin dal VII secolo, le sacre liturgie furono celebrate secondo il rito patriarchino. Un notaio, Romerio Grosini, commentava con dispiacere il sovvertimento di tale uso che, scrive, era praticato da 300 e più anni e profetizzava che il rito romano in base al quale si cominciò a celebrare in Bormio a partire dal 2 dicembre 1598, non sarebbe durato a lungo. (111)


4. I luoghi

Il fulcro di tutte le attività amministrative, giudiziarie ed economiche del Contado di Bormio fu la platea mastra. (112) In essa il Comune controllava tramite i suoi funzionari le pesature delle merci, stabiliva i prezzi delle stesse e ne verificava la qualità. Ogni scambio, almeno fino alla fine del Quattrocento, doveva avvenire dentro i confini della piazza maggiore (113) e non si concedevano deroghe neppure ai merciai ambulanti, ché altrimenti sarebbero sfuggiti al pagamento del plateatico. Si concedevano eccezioni soltanto durante le fiere.

Sulla piazza si affacciava la chiesa plebana dei SS. Gervasio e Protasio, circondata dal cimitero, il cui portale era dipinto dal pittore bormino Menico Anexi che vi aveva effigiato la Madonna ed i santi patroni, Gervasio e Protasio: si registra infatti un pagamento per tale lavoro nel 1496 ed è curioso notare come nelle 28 lire, oltre alla mercede per il lavoro di pittura, si comprenda anche la spesa per le assi et pro auro colore: (114) si trattava cioè di un dipinto su tavola con fondo in oro.

Nell'incendio del 1621 l'antica plebana fu completamente distrutta e fu rifatta nella forma attuale su disegno dell'architetto intelvese Gaspare Aprile. I muri perimetrali a meridione della chiesa, erano collegati alle canoniche, dove obbligatoriamente doveva risiedere il Capitolo: sull'involto tra l'una e le altre è ancora visibile un affresco trecentesco.

Dirimpetto alle canoniche vi erano i due edifici più importanti: il palazzo del podestà, a meridione della via maestra (115) che confluiva a sud della piazza, e il cortivo, a settentrione della stessa strada, che si allungava a occidente fino al plazinum bestiarum, dove obbligatoriamente bisognava lasciare gli animali affinché la piazza principale non fosse lordata con i loro escrementi. Nel palazzo pretorio si riunivano i reggenti per qualsiasi negozio del Comune e qui si trovavano le celle dove le streghe venivano custodite nel corso degli estenuanti interrogatori. Nel palazzo vi erano locali destinati alla residenza del podestà. Ai malfattori iniquissimi, come sono definiti nell'inventario redatto nel 1553, (116) era riservata la marza, ossia il carcere senza porte e finestre con una sola apertura sulla volta. Sopra di essa vi erano altre celle per chi aveva commesso reati meno gravi. Nello stesso stabile vi era una grande sala dove si riuniva il Consiglio e il Tribunale e un'altra stanza pro ludo litterario pro pueris instruendis ad gramaticham.

Nel cortivo, detto anticamente curia communis convenivano gli uomini del Consiglio di Popolo quando erano convocati dai reggenti pro negotiis magne importantie. I nomi cambiarono nel corso dei secoli; recita infatti un partito di Consiglio del 1779, decretato in occasione dell'elezione dell'arciprete Carlo Trabucchi: radunatosi il Grande Consiglio di questa Università di Bormio nella corte della pubblica taverna, per maggior commodo del Popolo e solito luogo di simili radunanze. Curioso anche l'esito dell'adunanza dove chi concorreva alla confermazione [dell'eletto] tenesse il capello in testa e chi altrimenti lo levasse. (117) Nell'edificio vi era, come appena detto, la taverna maggiore con due cantine, dove in 15 botti invecchiava il vino gestito dall'ente pubblico; stanze foderate di assi di legno; la cucina; un magazzino per conservare il grano delle decime e l'archivio, con l'armeria e la sala per gli esaminatori.

Nell'angolo a sud-ovest vi era il così detto "coperto di sotto", anticamente usato come farmacia, trasformata poi in due uffici locati a notai, davanti ai quali c'era una scala da cui si saliva in un loggiato dove i fanti del Comune proclamavano i decreti e le sentenze. Accanto vi era un locale che già servì da archivio e armeria.

Oltre il palazzo pretorio, verso la Valfurva vi era il macello del Comune con cinque locali.

Il centro della piazza è ancora occupato dal coperto, sotto il quale si rendeva giustizia nei mesi estivi e, poco distante, a ponente, vi era la berlina.

Allo sbocco della strada maggiore, nella parte superiore della piazza, vi era la farmacia, contigua alla torre detta "del Verona".

Apparteneva al Comune anche la torre delle ore, a levante della casa dove risiedeva il ramo principale della famiglia Alberti, su cui erano allocate due campane, una detta la baiona (118) e l'altra detta la campana de Consilio. (119)

La piazza era poi chiusa a ponente dagli edifici che appartennero ad un'altra famiglia prestigiosa, quella degli Imeldi. (120)

Tutti gli edifici furono gravemente danneggiati dall'incendio del 1621.

Lungo la strada dell'Umbrail, dove sgorgano le sorgenti di acqua termale, il Comune possedeva altri due edifici dove furono ospitati molti personaggi illustri che vi accedevano per varie indisposizioni, ricevendone mirabili effetti e giovamenti per la salute loro: (121) il balneum de subtus, presso la chiesetta di S. Martino, e i balnea de supra, poco sopra.


5. Il processo per stregoneria

Una cosa che rende subito singolare la giurisdizione bormina a proposito dell'incriminazione per stregoneria è il fatto che tale reato non era contemplato dagli Statuti. Se si fossero celebrati i processi quando il giudizio era consentito al solo Tribunale dell'Inquisizione, la spiegazione avrebbe potuto essere che, essendo la strega o lo stregone innanzi tutto un eretico, non era necessario legiferare sovrapponendosi al diritto canonico elaborato proprio in quegli anni su tale materia. Dal 1557 però si proibì agli ecclesiastici forestieri di entrare in Bormio e, da quel momento, avrebbero dovuto comparire strumenti giuridici utili a guidare il giudizio del giudice. Tanto più che in quegli anni era in corso la revisione degli Statuti da parte dei Grigioni; ma forse, proprio per non concedere spiragli che avrebbero potuto incrinare e mettere in discussione tutto il corpo statutario di Bormio, non si volle aggiungere alcunché. Gli incartamenti di quei decenni sono comunque avari di procedimenti per stregoneria: tutt'al più si avviò qualche causa per ingiurie.

La documentazione delle due persecuzioni alle streghe avvenute nel 1483-85 e nel 1518-19 è piuttosto scarsa. È da ricordare che in quel tempo il processo era interamente condotto dal Tribunale ecclesiastico e quindi tutti gli incartamenti finivano probabilmente nell'archivio della curia episcopale. (122) Questa è la ragione per cui non si conserva alcuna istruttoria di quel tempo. I cancellieri preposti alla registrazione delle deposizioni erano nominati dal Comune, come appare chiaramente dai partiti di Consiglio deliberati nel 1485, ma, eseguite le condanne, è verosimile che tutti i carteggi fossero archiviati dalla cancelleria vescovile. L'archivio di Bormio conserva soltanto i documenti dove sono registrati i provvedimenti utili a promuovere la persecuzione alle streghe e le deliberazioni ad esecuzione delle sentenze dei giudici.

Da essi appare chiaramente che la credenza nella necessità di estirpare l'empia eresia pervadeva ogni ceto sociale del Contado, da quelli infimi a quelli più aristocratici. Non mancò comunque qualche resistenza, se bisognò decretare la minaccia di pene severe contro coloro che avrebbero potuto ostacolare il lavoro degli organismi inquirenti.

L'inquisitore assolveva il suo lavoro affiancato da un prete rappresentante del vescovo, perciò designato solitamente dal vescovo di Como fra i preti curiali. Poteva però essere anche bormino, come nel caso del canonico Simone Sermondi che affiancò il frate domenicano Agostino da Pavia nel 1519.(123)

A partire dal decreto del 26 gennaio 1557 l'organo inquirente nei processi per stregoneria era composto dal podestà e dai due reggenti; l'organo giudicante era invece il Consiglio Ordinario, a cui venivano letti gli atti processuali, dopo di che procedeva ad archiviare o condannare. I giudici potevano però essere convocati anche nella fase istruttoria ogni volta che qualche imprevisto determinasse decisioni straordinarie. Il Consiglio poteva allargarsi ulteriormente fino a raggiungere il numero di sessanta uomini e più, assumendo la denominazione di "Provisione". Quest'ultima era in sostanza un Consiglio di Popolo ristretto per decisioni che richiedevano grande tempestività.

Nei casi in cui bisognava procedere a seguito di una accusa, il Tribunale accoglieva la denuncia, si assicurava di avere ogni garanzia, e, se le accuse giustificavano l'avvio di una procedura penale, si convocavano e si esaminavano i testimoni, a cui veniva assegnato anche un piccolo compenso. Si procedeva quindi alla convocazione e agli interrogatori dell'accusato, verificando e sottoponendo a confronto ogni testimonianza, quindi si emetteva la sentenza. Così fu, per esempio, nel processo in cui, Caterina Petrogna nel 1610, comparve spontaneamente dinnanzi ai tre magistrati querelando coloro che la imputavano di essere strega, ottenendo la revoca di ogni insinuazione (Caterina, moglie di Nicola Trameri di Pedenosso contro Giovanni e Caterina Gaglia, per ingiuria, 1610 - 1613).

Nel caso della livignasca Cristina Barnina, nel 1617, il Tribunale la sottopose a indagini dopo la morte di Anna Cristinella, avvenuta con il "fondato" sospetto di maleficio (Inchiesta su Cristina Motta, per omicidio, 1617 - 1618). Si tratta di un procedimento inquisitorio che comunque esaminò ogni testimonianza favorevole all'imputata, condannata poi in contumacia.

Fino al primo trentennio del Seicento, le procedure dei magistrati contro coloro che furono sospettati di appartenere alla setta delle streghe, furono complessivamente equilibrate, tant'è che succedeva frequentemente che coloro che insinuavano e accusavano qualcuno di stregoneria finivano spesso per essere ritenuti colpevoli di ingiuria. Anche l'uso della tortura con gli indiziati non fu straziante e ossessivo come nei procedimenti che seguiranno: la Mottisella, probabilmente giovane e robusta, nel 1608, sopportò i tormenti senza confessare alcunchè, salvando così la vita (SB048). La confessione comunque non comportava obbligatoriamente la pena capitale: Giuditta Zenoni, novant'anni prima della Mottisella, confessò di essere strega senza essere sottoposta alla tortura (SB014); salvò la vita e, come consigliavano gli autori del Malleus maleficarum, fu condannata a proclamare nella chiesa plebana, dinnanzi al popolo, in ogni festività, il proprio peccato. Forse alla sua salvezza contribuì anche la sua appartenenza al fior fiore del patriziato bormino. (124)


(1) Ninguarda, pp. 3, 4, 5.

(2) La Lega della Casa di Dio, o Caddea, aveva come capitale Coira; si costituì nel 1367. Con la Lega Grigia costituitasi nel 1395-1424 con capitale Illanz e la Lega delle Dieci Giurisdizioni costituitasi nel 1436 con capitale Davos, costituiva il Libero Stato delle Tre Leghe. Le Tre Leghe avevano il dominio sulla Valtellina e Contadi di Chiavenna e Bormio. Nel 1803 confluiranno nella Confederazione Elvetica costituendo il Canton Grigioni. Sugli ordinamenti e istituzioni cf. Wendland, pp. 21 e ss.

(3) Brescia e Bergamo appartenevano alla Repubblica di Venezia.

(4) L'Adda nasce propriamente in Valpisella, percorre la val Fraele e dopo aver attraversato una lunga forra, incontra la copiosa sorgente di cui riferisce il Ninguarda. Il fiume, oltre la forra, era chiamato Morena fino all'incrocio con il torrente Viola a Premadio; da lì prendeva il nome di Adda. Il monte Braulio era più frequentemente chiamato Umbraglio, ma anche Bralio, Mombraglio, Nombraglio, Numbraglio, Ombraglio, Umbrai.

(5) Il miglio equivaleva a circa un chilometro e mezzo.

(6) Le fortificazioni ai confini meridionali del Bormiese sono già citate nella pace tra il comune di Como e quello di Bormio del 16 aprile 1201.

(7) I bagni termali di Bormio furono apprezzati in ogni tempo e ne descrisse le qualità terapeutiche già Cassiodoro nel VI secolo; nel 1336, durante un suo soggiorno ai Bagni, il medico Pietro da Tussignano raccontò nel "Liber de Balneis Burmii" le virtù delle acque e il modo per ottenerne efficacemente i benefici.

(8) Si tratta della "Serra Frontis" costruita a partire dal 1391 con le "Forteze Schalle" di cui rimangono le due torri al passo di Fraele. Le fortificazioni furono costruite per difendersi dalle frequenti incursioni di razziatori definiti nei documenti trecenteschi "Ongari". Archivio Comunale di Bormio (di seguito ACB), Quaternus bolletarum et receptorum, 1391, busta 9. Cf. anche Alberti 16. Lo storico bormino Ignazio Bardea lo conferma in un appunto di cui in ACB si conserva la sola fotocopia; egli annota: 1393. Bormienses a domino Mediolani et comite virtutum imperiale vicario generale habuerunt facultatem loco salarii, seu census fortificandi tres passus deversus partes Alemanie, ne pro libito venire possent ad depredandum Burmii, sed etiam totam Vallistelline. NB: allora dovettero essere a mio giudizio fabbricate le torri di Fraelle. Vedi anche nota 39.

(9) La valle di Santa Maria è ora denominata val Müstair ed è costituita dai piccoli paesi di Müstair, Santa Maria, Valchava, Tschierv, Fuldera e Lü.

(10) Si tratta della strada regale, ossia di diritto pubblico per eccellenza, che, per il giogo dell'Umbrail, portava in Valvenosta. Era la strada più battuta dai somieri che trasportavano il vino valtellinese oltralpe, ritornando con sale minerale acquistato nelle saline di Hall nei pressi di Innsbruck.

(11) L'Engadina si poteva raggiungere percorrendo la val del Gallo (anticamente Cazzabella) scendendo poi a Zernez.

(12) Sui privilegi commerciali concessi da Milano si dirà più avanti. Il riferimento del Ninguarda cade sicuramente sulla limitazione del monopolio fino al 1487 detenuto da Bormio. In quell'anno, nel trattato di Caiolo, fu concesso ai Grigioni il libero transito con merci per i passi del Bormiese.

(13) Il Comune di Bormio sancì nel capitolo 319 dei propri Statuti l'autonomia dalla Valtellina: esso è intitolato "De non habendo communionem cum Valle Tellina".

(14) Oggi S. Caterina Valfurva.

(15) Oggi Valdidentro.

(16) Per una più esaustiva descrizione delle condizioni del Bormiese durante l'ancien régime cf. Celli, capitolo I.

(17) Le due donne furono processate nel 1384 e nel 1390 e l'accusa dell'inquisitore fu dapprima di superstizione e poi di stregoneria e di partecipazione a riti diabolici. Furono arse sul rogo.

(18) Il capitolo 44 degli Statuti penali di Bormio intitolato "De maleficiis" (cf. Martinelli-Rovaris) è riferito inequivocabilmente all'obbligatorio perseguimento di reati come l'omicidio e il furto. Negli Statuti di Valtellina il reato di maleficio, associato al veneficio, contemplato al capitolo 54 si riferiva invece alla stregoneria. Il capitolo 41 degli Statuti di Valchiavenna era intitolato "Delle streghe ad essere abbruciate" e sostituiva la formulazione precedente simile a quella valtellinese. Cf. Zoia, Li magnifici, e Zoia, Statuti. Sulla stregoneria, in quest'ultima raccolta di leggi e decreti, si vedano anche alle pp. 355 e ss. i decreti delle Tre Leghe del 1716.

(19) Per una sintesi degli studi sulla stele cf. Sardo, Storia, p. 11. Recentemente si è ipotizzata una datazione risalente all'epoca longobarda.

(20) Cf. Bognetti, pp. 21 e ss.

(21) Celli 52 e ss.

(22) Il Besta asserisce che il diploma fu interpolato in alcune parti. Bormio viene comunque citata in un diploma dello stesso imperatore del 21 ottobre 843. Cf. Besta, Bormio 24.

(23) Perelli-Cippo, p. 117.

(24) Archivio di Stato di Sondrio, Fondo Visconti Venosta, 1359 gennaio 21. Il documento è trascritto in Visconti Venosta, p. 99.

(25) Cf. Celli, pp. 60, 61, dove l'ipotesi di una durata dell'appartenenza al monastero di S. Dionigi almeno fino all'inizio dell'XI secolo viene formulata per comparazione con la contigua Valcamonica i cui diritti appartenenti al fisco furono donati da Carlo Magno al monastero di S. Martino di Tours il 14 luglio 774 e che fu ceduta al vescovo di Bergamo nel 1026 in cambio di beni in regioni meno lontane.

(26) Si trattava di un balzello imposto ai cavallanti forestieri per il transito nel territorio di Bormio. Cf. ACB, Inventario 1553, f. 19 retto.

(27) QEv, p. 258.

(28) QEv, p. 250.

(29) Archivio di Stato di Milano, Pergamene per fondi di religione, Como-S. Abbondio, cartella 105. Trascrizione in St. Livigno, p. 62, nota 124.

(30) QEv, pp. 279, 281 e 311.

(31) Sull'inclusione nel Comune di Bormio della vicinanza di Livigno cf. St. Livigno, pp. 32 e ss.

(32) Besta, Valli, p. 199.

(33) Nell'Archivio di Bormio si conserva soltanto la fotocopia del documento originale di cui il Besta trascrisse in forma piuttosto approssimata da una copia intitolata "Adversaria Burmiensia"; cf. Besta, Bormio, appendice VII. L'autore del manoscritto originale sembra essere il notaio bormino Giambattista Romani per l'identità grafica con altri documenti; di lui si conservano nell'archivio di Stato di Sondrio i protocolli dal 1565 al 1613.

(34) Si tratta del castello a nord di Bormio, detto di S. Pietro per la piccola chiesa originariamente inglobata dentro le mura, di cui sono rimasti pochi ruderi.

(35) È la fortificazione ai confini meridionali del Contado dove i Bormini opposero un'efficace resistenza all'esercito milanese che fu obbligato ad aggirarli passando dalla val Grosina e da val Verva.

(36) Si tratta forse della strada dell'Umbrail o, più probabilmente, di qualche passo poco conosciuto sulla Reit.

(37) È la grande campana del Comune di cui il QEv documenta una rifusione già nel 1306.

(38) Il Privilegio è accennato in Alberti 16, 121, 122.

(39) ACB, Quaternus bolletarum et rerum, 1391, nel documento c'è la nota delle spese sostenute dai soprastanti Thibaldus Mariollii e Johannes Foliani per le Fortezas Schalle, ossia le torri di Fraele ancora esistenti, e a Dominichus Blanchinus e Yson de Albertis per la Seram ad Frontem, cioè la fortificazione poco oltre i Bagni probabilmente demolita interamente nel corso della costruzione della strada dello Stelvio nel 1820. Vedi anche nota 8.

(40) Il plaustro era un grosso carro con una botte contenente circa 760 l. Nel XVII secolo cadrà in disuso, sostituito dalla più maneggevole carera che aveva una botte con una capacità equivalente alla metà di quella del plaustro.

(41) ACB, Privilegi, 1450 marzo 28.

(42) L'itinerario di Hall, che spesso appare nei documenti del Comune, partiva da Bormio, seguiva il valico dell'Umbrail o di Fraele, passava per S. Maria, Taufers, valico di Resia, Nauders, Landeck, Innsbruck, Hall.

(43) Besta, Bormio 100.

(44) Silvestri, Lettere.

(45) ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1465-66.

(46) Non si conservano i verbali dal 1465 al 1481.

(47) ACB, Quaterni consiliorum, sorte estiva 1485, luglio 1.

(48) Ibidem, sorte primaverile 1485, maggio 16.

(49) Ibidem, sorte invernale. 1489-90, febbraio 5.

(50) Besta, Bormio 107.

(51) Celli 112, nota 26.

(52) ACB, Memoranda.

(53) Ibidem.

(54) ACB, Quaterni consiliorum, sorte estiva 1506, settembre 12. Si tratta dell'incursione in Engadina di Giacomo della Longa di Livigno che avrà come conseguenza anche le rimostranze degli Engadinesi guidati dal prete Antonio Galisso che cercò di maleficiare certe abitazioni; cf. la trascrizione del processo nella sorte estiva 1501 (SB011). Il fatto era legato anche alla impiccagione dei tre Engadinesi sopraccitati; cf. St. Livigno, pp. 115 e ss.

(55) Besta, Bormio 150.

(56) ACB, Memoranda.

(57) Celli 118.

(58) ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1514, marzo 17.

(59) St. Livigno, pp. 108 e ss.

(60) Martinelli-Rovaris, capitolo 28.

(61) I Riformati zwingliani si uniranno nel 1539 alla Chiesa calvinista.

(62) ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1557, aprile 13.

(63) ACB, I. Bardea, Memorie per servire alla storia ecclesiastica del Contado di Bormio (manoscritto), II, pp. 479 ss. È riportata la trascrizione degli Abscheide del 26 gennaio 1557 e del 30 ottobre 1558.

(64) ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1544, giugno 13.

(65) La presenza dei predicatori quaresimalisti non fu mai contestata dai Grigioni evidentemente perché si trattava di una consuetudine secolare ampiamente dimostrabile dagli onorari corrisposti.

(66) ACB, Quaterni inquisitionum, sorte estiva 1564, marzo 5. Il quaresimalista fu denunciato da un engadinese e accusato di lesa maestà in quanto l'ingiuria sembrava rivolta al Principe.

(67) Era fratello di Giovanni Angelo, futuro papa Pio IV e di Margherita, madre di san Carlo Borromeo.

(68) ACB, Quaterni consiliorum, i provvedimenti per arginare la diffusione della peste iniziano nella sorte estiva 1520. Si registrano dei saldi ancora nella sorte primaverile del 1524 anche se l'epidemia finì nel villaggio di Oga nell'estate del 1523.

(69) ACB, Quaternus datorum, sorte invernale 1524-25, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1525, febbraio 22 e marzo 20, sorte estiva 1525, giugno 23 e 30, sorte invernale 1525-26, passim.

(70) Besta, Valli II, p. 56.

(71) ACB, Quaterni consiliorum, sorte estiva 1580, agosto 13.

(72) ACB, Privilegi, 1555 aprile 2 e anche 1557 marzo 24.

(73) Ibidem, 1603 luglio 6.

(74) Cf. St. Livigno, pp. 230 e ss.

(75) Dal nome del governatore spagnolo di Milano don Pedro Enriquez de Acevedo conde de Fuentes.

(76) ACB, Privilegi, 1605 giugno 29.

(77) Wendland, p. 74.

(78) Alberti 58.

(79) Ibidem, 59.

(80) Giovanni Guler von Weineck ricoprì molte importanti cariche pubbliche. Tra l'altro fu governatore della Valtellina nel biennio 1587-88 e ne diede ampia descrizione nella sua opera Raetia (tradotta per la parte che riguarda la Valtellina e Valchiavenna da G. R. Orsini).

(81) Alberti 61.

(82) Ibidem, p. 64.

(83) Si tratta del forte costruito nella piana a occidente del borgo.

(84) Archivio di Stato di Sondrio, Fondo Romegialli, copia del memoriale di Giasone Fogliani.

(85) ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1622-23, dicembre 12.

(86) La madre fu processata e assolta dal Tribunale diocesano.

(87) Alberti 118.

(88) Cf. St. Livigno, p. 752. La richiesta era già stata posta al governatore di Milano con una petizione del settembre 1620 che non ebbe esito, cf. ACB, Privilegi.

(89) Alberti 140.

(90) Cf. nota 27.

(91) Bognetti, pp. 5 e ss.

(92) Archivio parrocchiale di Cepina, Pergamene, 1546 aprile 5.

(93) ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1481, maggio 26.

(94) Sulle norme regolatrici delle funzioni di anziano d'uomini cf. Martinelli-Rovaris, capitoli 96 e 161.

(95) Il Besta e poi il Celli non considerarono identiche le funzioni del Consiglio di Popolo e del Consiglio Magno, ma dall'esame dei verbali di consiglio non pare che vi siano differenze. Cf. Celli 128 e Besta, Bormio 159. Nella petizione e relativo decreto delle Tre Leghe del 2 aprile 1555 si usano indistintamente le locuzioni Concilium Generale, Concilium Magnum e Concilium Populi. Cf. anche ACB, Quaterni consiliorum, da 15 giugno 1588 a 16 giugno 1589: Anno Domini 1589. Die martis decimaseptima mensis junii. In Cortivo Communis Burmii congregato magnifico Concilio Burmii Magno nuncupato de Populo, numero hominum saltim centum quadraginta. In altro verbale della sorte invernale 1524, novembre 28: Consillium de Populo sive Universalle. Nel verbale di consiglio denominato "anno 1591 et 1592", 1592, maggio 22: In curtivo Comunis convocato et congregato conscilio magno Populi Burmii. Nel verbale della sorte primaverile 1700, giugno 3: Congregatum fuit illustre Consilium de Populo, dictum Consilium Magnum, in atrio magno Tabernae.

(96) ACB, Privilegi, 1555 aprile 2.

(97) Alberti 5.

(98) Le norme regolatrici delle funzioni del Consiglio di Popolo erano contenute nei capitoli 92, 93 e 94 degli Statuti.

(99) L'ufficio di reggente, canevaro e cancelliere aveva regole non immediatamente chiare statuite al capitolo 11.

(100) Sulla medicina cf. St. Livigno, pp. 833 e ss.

(101) Sulla scuola cf. St. Livigno, pp. 747 e ss.

(102) Besta, Bormio 160 e ss.

(103) Cf. in Martinelli-Rovaris i primi capitoli statutari.

(104) Cf. nota 22.

(105) Il moggio bormino, equivalente a 8 staia, corrispondeva a circa 96 l.

(106) ACB, Busta non inventariata, 1514, febbraio 24. Convenzione tra il padre di Finamonte Venosta che rinunciò all'arcipretura per il cenobio e i canonici prebendari.

(107) Cf. nota 44.

(108) Sulla Regula Beatae Virginis cf. St. Livigno, p. 142.

(109) Si trattava di un simulacro particolarmente venerato. Cf. St. Livigno, p. 82.

(110) ACB, Carteggio Nicolina, n. 144. Convenzioni tra il Comune e l'arciprete Battista Fogliani, 1562 dicembre 2.

(111) Cf. St. Livigno, p. 172.

(112) Così fu definita in ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1490-91, novembre 15.

(113) ACB, Quaterni consiliorum, sorte invernale 1489-90, novembre 28.

(114) ACB, Quaterni datorum, sorte primaverile 1496.

(115) Era anche detta via regale e, a partire dalla metà del XVIII secolo via imperiale.

(116) ACB, Inventario 1553. Tutta la descrizione che segue è tratta da questo documento.

(117) ACB, Quaterni consiliorum, sorte primaverile 1779, maggio 19.

(118) Cf. nota 37.

(119) La torre delle ore fu costruita da Antonio da Lenno a partire dal 1498. Archivio di Stato di Sondrio, Notarili, n. 589, Giacomo Bonetti Fogliani.

(120) È documentata l'appartenenza a tale famiglia nel Seicento, ma verosimilmente lo era anche nel secolo precedente, cf. ACB, Busta non inventariata, 1681 agosto 21. Atto rogato a Bormio in platea prope domum meam habitationis, dal notaio Giambattista Imeldi.

(121) Alberti 4.

(122) Nel Malleus maleficarum si dice a proposito di certi processi avvenuti a Bressanone che essi sono stati registrati e depositati presso lo stesso vescovo di Bressanone, cf. Malleus, p. 181.

(123) Cf. la sentenza di pignoramento a Giuditta Zenoni datata 1519 marzo 22.

(124) Sulla vicenda di Giuditta Zenoni cf. I. Silvestri, Malefici e stregherie nel XVI secolo. In BSAV, 8 (2005).