Lombardia Beni Culturali

Introduzione

Premessa

L’individuazione secondo criteri oggettivi dei documenti superstiti provenienti dall’archivio del monastero femminile di San Faustino, dell’ordine benedettino, costituisce un esito inaspettato del recente lavoro editoriale che ha visto coinvolte, oltre alle carte del monastero di San Faustino, anche quelle dei cenobi di Santa Maria dell’Acquafredda di Lenno e di San Benedetto in Val Perlana [1].

La scelta di condurre uno studio congiunto degli archivi dei tre monasteri era scaturita dalla constatazione di una loro storia, almeno in parte, unitaria. Infatti, quando nel maggio 1786 avvenne la soppressione del monastero dei Santi Faustino e Giovita [2], si provvide a porre al sicuro le carte conservate nell’archivio, o almeno una parte di esse. Le scritture vennero allora unite a quelle dell’Acquafredda, nel cui archivio si trovavano già accorpate quelle dell’antico monastero di San Benedetto, da quando era stata stabilita, nel 1430–31, l’unione delle due istituzioni e dei loro beni, tabularia compresi. Dopo un primo breve deposito nella Certosa di Pavia, dove l’archivio di Acquafredda–San Benedetto era già confluito in seguito alla soppressione di questo monastero avvenuta nel 1785, tutte le scritture vennero trasferite presso il cenobio milanese di Sant’Ambrogio. Le carte dei tre monasteri, insieme, dopo essere state trascritte dal monaco Ermete Bonomi, passarono quindi alla Biblioteca Ambrosiana, dove si trovano tuttora, all’interno della collezione di oltre 12.000 pergamene.

In questa introduzione si intende valorizzare particolarmente il risvolto euristico del ritrovamento delle carte [3]: per documentare un affascinante percorso a ritroso che ha consentito di individuare con certezza oggettiva le scritture superstiti del tabularium monastico e di rileggere uno spezzone, per quanto esiguo, di un archivio comasco medievale.

Cenni di storia istituzionale

La ricognizione delle pergamene dell’Ambrosiana porta alla luce una rilevante ricchezza di scritture provenienti dall’archivio di San Faustino, con sensibile consistenza quantitativa a partire dal Duecento, ma con documenti conservati a partire dall’XI secolo. Si tratta di fonti che, attualmente, sono nella quasi totalità inesplorate. Questo monastero femminile non può contare su nessuna specifica ricerca [4] e i dati intessuti nelle tradizionali storie comasche, sono riportati in modo alquanto ripetitivo [5], attingendo per lo più ex monumenta collegiatae Sanctae Euphemiae ad Insulam [6]. Pertanto, i seguenti cenni di storia istituzionale si basano in buona parte su fonti inedite.

Non è attualmente appurabile, sulla base di dati documentari, l’epoca di fondazione del monastero di San Faustino dell’Isola Comacina. La più antica scrittura attualmente nota che ne trasmetta la memoria risale al maggio del 1101 ed è conservata nell’archivio del monastero di San Benedetto, sul monte Altirone. Si tratta di uno iudicatum con il quale Bono del fu Tedemario del luogo di Buzano, «in egritudine iacente», destina «ad monasterio Sancti Faustini constructo in castro Insule» un oliveto sito dentro al castello dell’Isola Comacina, nel luogo ove dicesi «a Fontana» [7]. Anche tra le scritture della canonica di Santa Eufemia d’Isola, all’interno di una carta ofersionis del gennaio 1120, appare la menzione al monastero di San Faustino, quale confinante. Invece, tra le carte qui edite, la più antica scrittura nella quale appaia menzione del cenobio risale al luglio del 1164. Vi compare «Aveduta, Dei gratia abbatissa ecclesie et monasterii Sancti Faustini constructi in castro Insule», nell’atto di acquistare dal monastero dell’Acquafredda alcuni beni siti a Veddo e a Delebio, in Valtellina (doc. n. 10).

Si rileva che, in queste prime due fonti, la dedicazione del cenobio di a San Faustino è precisata dalla ubicazione all’interno del castello dell’Isola Comacina, ovvero dentro a quella struttura fortificata che sorgeva sull’unica isola del lago di Como: piccolo lembo di terra carico di storia, di circa 500 metri di lunghezza e 150 di larghezza, posto di fronte a Sala Comacina. Nelle successive scritture conservate, invece, scompare l’indicazione relativa al castello dell’Isola. Il dato non desta meraviglia. Nel 1169, infatti, l’Isola fu attaccata in modo violento dai Comaschi e il suo castello fu distrutto, insieme ad edifici sia civili che religiosi. Il comune cittadino intendeva, in questo modo, porre un freno all’ascesa, sia politica sia economica, dell’Isola e imporle la propria soggezione: già dal 1170 il comune sarebbe intervenuto quale giudice nelle cause riguardanti l’Isola [8]. La posizione di Como sarebbe stata rafforzata, nel 1175, dall’approvazione del Barbarossa, che intimava «ut nemini liceat reedificare castrum Insule vel Grabadone» [9].

A partire da quella data, la storia del monastero risulta legata prevalentemente ad altre terre, site per lo più fuori dall’Isola strictu sensu [10]. Le vicende del San Faustino iniziano ad intrecciarsi con la storia di altre istituzioni, come sarà talvolta testimoniato dalle stesse dedicazioni che compaiono nei documenti posteriori a quella data.

La città di Como divenne, per prima, luogo e contesto privilegiato della successiva attività del monastero; lì il cenobio agì in stretto collegamento con il comune e con l’episcopio lariano. Pare che al monastero di San Faustino sia toccata una sorte analoga a quella del capitolo del collegio canonicale di Santa Eufemia di Isola, il quale durante il 1169 si trasferì a Como (un documento del 14 marzo 1205 testimonia poi l’avvenuto rientro dei canonici a Balbianello [11] ). È di pochi mesi posteriore alla distruzione dell’Isola una investitura a favore di Aveduda [12], badessa di San Faustino. Il giorno della vigilia di Natale del 1170 il vescovo di Como, Anselmo, la investì «de ecclesia Sancti Euxebii cum omnibus illis rebus que modo [ad] ipsam ecclesiam pertinent vel de hinc in antea Deo annuente advenerint», fatte salve le ragioni che la chiesa matrice di Santa Maria aveva su quella chiesa e quelle che il vescovo possedeva sul suo cappellano (doc. n. 12). In virtù della investitura episcopale, «abatissa cum suis sororibus debet habere integraliter omnes res que pertinent vel pertinuerint ad ecclesiam Sancti Euxebii et monasterio Sancti Faustini». Questa investitura, che probabilmente rientrava entro una visione globale di riorganizzazione della mensa episcopale del vescovo Anselmo [13], avvenne «in presentia domini Alberici archidiaconi et Henrici Piperis canonici Cumane matris ecclesie et Guidonis de Brienno et Ospini Canis et Martini Pellegrini, qui sunt parochiales Sancti Euxebii, item Iohannes Caza et Arialdus Grecus et Lambertus de Turri consules Cumani (…) et alii homines». Il monastero di San Faustino entrava, così, dentro alle mura di Como, collocandosi direttamente all’interno del tessuto cittadino, con un legame diretto e sensibile con il presule lariano. Dalla data di quell’investitura la storia del monastero di San Faustino appare strettamente intrecciata con quella di questa chiesa cittadina [14] e dei vicini che ad essa facevano riferimento. Presso la chiesa di Sant’Eusebio doveva infatti risiedere «capellanum qui cottidie debet servire vicinis ipsius ecclesie, quem vicini debent clamare et predicta abatissa eligere debet et episcopus confirmare» [15]. Il legame con la chiesa di Sant’Eusebio si consolidò ulteriormente negli anni successivi, tanto che in una investitura del 22 novembre del 1190 compare domina Anastasia, qualificata come «abbatissa ecclesie et monasterii Sanctorum Faustini et Euxebii de Insula, quod modo constructum est in civitate Cumis» (doc. n. 8). Il documento risulta essere redatto a Como, «infra predictum monasterium» [16].

In seguito, dal principio del secolo XIII – o forse già dalla fine del XII [17] – , la storia del cenobio benedettino tornò a legarsi alle terre dell’Isola, nel senso estensivo del termine. Esso indicava infatti anche quei luoghi sulla terraferma che sorgevano sulle coste di fronte all’Isola propriamente detta, per poi risalire su verso il monte Altirone, comprendendo tutte le terre della pieve d’Isola. Talora per indicare la differenza tra l’Isola–scoglio e l’Isola di costa venivano indicati gli aggettivi vetera (in ossequio alla remota presenza del castrum) e nova (di popolamento sensibile in seguito alla sconfitta e al ridimensionamento, anche edilizio, dell’Isola–scoglio) [18]. Tale legame con l’Isola di costa è testimoniato in modo chiaro dalla dedicazione assunta dal monastero (o almeno da una casa del monastero). Infatti, analogamente a quanto era avvenuto a Como dove all’intitolazione a Faustino era stata presto associata, come appare dalle pur scarne testimonianze, quella a Sant’Eusebio (titolare della chiesa presso la quale il monastero era sito), così per la casa dell’Isola nuova venne associata la dedicazione a San Giovanni. Il dato risulta nella sentenza del 1211 luglio 24, Como, dove il cenobio appare come «monasterii Beati Faustini sive Beati Iohannis de Campo de Insula» [19]. Inoltre c’è il dato del trasferimento nelle terre di Varenna, che pare già testimoniato il 2 novembre 1185, allorché Giovanni detto “Musanigra” «olim de Insula et modo habitare videor in loco Varene» e sua moglie Qualia vendono ad Anastasia, badessa del monastero di San Faustino d’Isola, alla presenza delle monache del monastero Regala e Giustina, numerosi beni siti in plebe di Isola, a Colonno e a Lezzeno, (doc. n. 13).

L’edizione delle carte di San Faustino e la prima ricognizione delle scritture del secolo successivo ha poi rivelato la Valtellina quale direttrice privilegiata di affermazione territoriale del monastero. In particolare a Campovico, oggi frazione di Morbegno nella bassa Valtellina, pare si trovasse una dipendenza del monastero di San Faustino. In quella località il cenobio possedeva numerose terre, selve, dimore, particolarmente a Campovico, ma anche diffusamente un po’ lungo tutto la costiera retica, specie ad una quota altimetrica media di 300–400 metri. Il «monasterium Sancti Faustini de Campovico» è la parte offesa nella causa risolta dalla sentenza in data 6 maggio 1203, Como (chiesa di San Giacomo) [20]. In essa il console di giustizia di Como Alberto de Voe, in una controversia fra il monastero di San Faustino in Campovico ed alcune persone di Ardenno, aventi pretese sulle terre del monastero, «condempnavit dictos omnes de Ardenno barbanos et nepotos, ut a modo in antea non molestent nec inquietent, nec molestare nec inquietare debeant iamdictam dominam abbatissam et ipsum monasterium nec eius subcetrices et servientes ipsius monasterii, nec earum nuntios, nec earum masarios seu supersedentes terrarum suprascripti monasterii Sancti Faustini de Campovico». Non vi sono menzioni dirette di questa dipendenza nelle fonti del XII secolo, ma numerosi dei documenti qui editi fanno riferimento proprio alle terre della costiera retica, che dovevano essere il cuore dei possedimenti delle monache nella bassa Valtellina.

Un ultimo dato su cui riflettere riguarda l’intitolazione dell’istituzione. Il problema del titolo del monastero si è posto sin dal principio di questo lavoro, sollecitato dal fatto che nessun documento medievale reca l’intitolazione, abituale nella storiografia comasca anche in relazione al medioevo, a favore della dicitura: Santi Faustino e Giovita. Anzi, nei documenti anteriori al XII secolo il nome di Faustino o compare da solo o si trova inaspettatamente associato al nome di altri santi (sant’Eusebio in primis). L’approfondimento del ‘nome del monastero’ è risultato per molti aspetti illuminante e utile all’obiettivo di chiarire – almeno un poco – la natura del cenobio entro la cerchia delle mura del castello dell’Isola e per comprendere meglio le relazioni da esso instaurate durante i secoli centrali del Medioevo (di questa specifica ricerca verrà dato conto nell’edizione cartacea di queste scritture). È risalente solo al 1303 settembre 20, Insulle in loco de Campo, l’attestazione documentaria – che per ora risulta essere la più antica – della doppia dedicazione Faustino e Giovita. Si tratta di una venditio nella quale Brachino de Campo vende una vigna, sita a Isola, con piante di ulivo, a Faustina «abbatisse monasterii Sanctorum Faustini et Iovite de Campo de Insulla» (Bami, Pergamene, 2288). La dedicazione associata ai Santi Faustino e Giovita sarebbe poi divenuta usuale. La si trova all’interno dell’interrogazione di Gerardo Landriani, avvenuta il 24 luglio 1444 presso il nostro monastero di Campo. I primi quesiti furono posti a «domina Agnes de Lucino, abbatissa monasterii Sanctorum Iohannis ac Faustini et Iovite de Campo de Insula» [21].

Storia delle scritture

Quando, come accennato in apertura, nel maggio 1786, si ebbe la soppressione del monastero dei Santi Faustino e Giovita [22], l’interessamento dell’ultimo abate dell’Aquafredda, Pompeo Casati, dovette essere risolutorio al fine di evitare la dispersione delle scritture di San Faustino (così come era analogamente accaduto per le carte di Acquafredda–San Benedetto). Lo ricorda il monaco Ermete Bonomi, archivista cistercense, che fu poi incaricato di riordinare e di copiare le carte dei tre cenobi. Questo è l’incipit del monaco archivista scritto sul frontespizio dei suoi volumi di trascrizioni, oggi conservati presso la Biblioteca Braidense di Milano [23]:

«Diplomatum aliorumque ex membranis monumentorum ad cænobia Sancti Benedicti et Sanctæ Mariæ Aquæ Frigidæ nec non Sancti Faustini parthenonem prope Larium existentia olim pertinentium transumpta exempla, multiplici indice ac notis illustrata a don Hermete Bonomi cistercensi monacho et sacerdote».

Poi, dopo avere sottolineato che l’incarico dell’opera di trascrizione gli era venuto dal padre Angelo Fumagalli, il Bonomi attesta l’interessamento fattivo del Casati e documenta i trasferimenti delle carte. Nel testo introduttivo scrive tali informazioni formulandole in questi termini:

«(…) Alie preterea hisce adiecte fuere que reverendissimus P. D. Pompeus Casati, postremus Aquefrigide abbas, et tunc abolito Sancti Faustini de Insula seu Sancti Iohannis de Campo parthenone ordini sancti Benedicti, acquisierat. Prompto igitur alacrique animo, traditam mihi novam hanc provinciam adorsus concreditas mihi cartas, omnes in ordine redigi easque ad seculum usque quartum decimum transcripsi, additis chartarum synopii, notis ac multiplici indice eandem prorsus rationem secutus ac methodum qua Clarevallenses digesseram.
Exempla tabularum utriusque monasterii, quibus etiam ora intexta sunt, que ad cenobium Sancti Benedicti montis Altironi olim pertinuerant, tribus voluminibus conclusi reliqua (…) suppeditabit» [24].

La modalità operativa evidenziata dal Bonomi, in ossequio alla sensibilità archivistica dell’epoca, avrebbe trovato il suo illustre teorizzatore proprio in Angelo Fumagalli, nelle Istituzioni diplomatiche del 1802: le prassi formalizzate dalla scuola santambrosiana, diffuse nei monasteri cisterciensi lombardi, congiuntamente alla sensibilità archivistica lombarda dell’epoca, prevedeva la possibilità di infrangere la distinzione degli archivi già appartenuti a istituzioni diverse. Il Bonomi procedette dunque alla fusione del diplomatico dei monasteri [25].

La situazione archivistica già di per sé complessa per la fusione di tre tabularia diversi, si complicò ulteriormente con il successivo passaggio delle scritture: esse vennero infatti acquistate in blocco dalla Biblioteca Ambrosiana (su questa acquisizione si rimanda all’ampia introduzione relativa alle scritture del monastero dell’Acquafredda, che deve essere considerata parte integrante di questo contributo).

All’inizio del presente lavoro di ricerca, di fronte al Diplomatico dell’Ambrosiana costituito da oltre 12.000 pergamene provenienti da disparate istituzioni soprattutto lombarde, la vicenda storica di frammistione surriferita – in un primo momento – aveva scoraggiato la possibilità di operare delle distinzioni oggettive entro il corpus delle scritture intertextae. Tuttavia, in seguito ad una osservazione più scrupolosa e ad uno studio più approfondito, si sono potute ritrovare delle tracce oggettive che hanno permesso di intraprendere quell’itinerario a ritroso al quale si accennava in apertura.

In primo luogo, all’interno del Diplomatico dell’Ambrosiana, è stato individuato il fondo dei tre monasteri: guida sicura è stato il corpus delle trascrizioni di Ermete Bonomi. Tuttavia nella trascrizione del Bonomi non vi sono indicazioni specifiche concernenti l’archivio di provenienza delle carte (Acquafredda o San Faustino). Sono pertanto sorti nuovi interrogativi: esistevano altri dati oggettivi che permettessero una differenziazione? Era possibile ritrovare l’antico archivio delle monache, senza incorrere in scelte arbitrarie? Dopotutto – si pensava – la storia delle carte di san Faustino era rimasta autonoma per un lungo circolo di anni: solo alla fine del Settecento le carte di questo monastero erano state annesse a quelle degli altri due. Si trattava di una importante differenza, nei confronti della storia delle scritture dei monasteri di Acquafredda e di San Benedetto, intrecciata sin dal basso Medioevo (tanto che proprio per tale motivo, in relazione ai due cenobi maschili, si era immediatamente abbandonata l’ipotesi di una ricostruzione dei fondi di origine, nel rispetto alla facies unitaria storicamente consolidatasi). Ma le membrane di San Faustino recavano delle tracce di una storia archivistica distinta? Vi era in qualche modo la testimonianza di un percorso archivistico diverso?

I dorsi delle membrane dell’Acquafredda–San Benedetto – come si approfondisce nella nota introduttiva a quelle scritture – sono ‘parlanti’: si presentano caratterizzati da segnature alfabetiche, accompagnate da una numerazione (la cosiddetta fase C nella storia delle carte); da regesti realizzati in modo organico nel 1675 da parte dell’abate Franco Ferrario; da un sistema di piegature delle membrane caratteristico. Pertanto, nello scorrere le membrane dell’Ambrosiana, durante la fase ricognitiva, la sola osservazione dei dorsi e l’analisi delle antiche piegature era oramai divenuta un elemento sufficiente per riconoscere le carte del cenobio di Santa Maria d’Oliveto e di quelle di San Benedetto. Fra tutte le scritture trascritte del Bonomi, solo un numero esiguo di esse [26] erano prive di questi tratti caratteristici: era possibile per esse ipotizzare una provenienza differente? Forse proprio dal monastero di San Faustino? Oppure semplicemente si trattava di scritture dell’Acquafredda non inventariate per motivi non indagabili (perché ritenute inutili, perché copie, perché avevano esaurito la loro efficacia giuridica?).

Il metodo di ricerca è quindi stato quello di fare interagire i dati emergenti dalle analisi e dalla trascrizione intergale delle note dorsali con ogni altro strumento a disposizione, per una verifica oggettiva dell’ipotesi. In questa prospettiva, si sono rese disponibili come preziose le trascrizioni di Giulio Cesare Della Croce, all’interno del Codex diplomaticus Mediolanensis. Sono risalenti al Settecento, e l’autore indica abitualmente l’archivio di provenienza della fonte trascritta. Così, l’incrocio della mancanza delle connotazioni materiali e archivistiche dell’Acquafredda con le informazioni presenti nelle trascrizioni del Della Croce hanno maturato inequivocabili conferme [27]. Delle 8 scritture individuate prive delle caratterizzazioni cisterciensi, ben 7 sono presenti nell’edizione del Della Croce accompagnate dalla qualifica: «Ex tabulario monialium Sancti Faustini». E un ulteriore incrocio di dati ha permesso di appurare che il Della Croce non riporta altre scritture provenienti da questo archivio se non queste individuate nella fase ricognitiva.

Ma, oltre a queste otto scritture anteriori al XII secolo e provenienti dall’archivio di San Faustino, anche altre cinque si sono proposte alla mia attenzione nel corso della ricognizione del Diplomatico dell’Ambrosiana: il monastero di San Faustino vi compare come attore dei negozi e talora tali carte appaiono strettamente collegate alle scritture di provenienza certa. Tuttavia esse non compaiono né tra le trascrizione del Della Croce, né in quelle del Bonomi. Il percorso che le condusse all’Ambrosiana fu differente rispetto a quello sino a qui descritto, e ad oggi non ricostruibile. E non è neppure chiaro se si tratta di carte provenienti dall’archivio del monastero di San Faustino. Le note sui dorsi delle pergamene di San Faustino, se si sono rivelate preziose per una distinzione ‘in negativo’ rispetto a quelle caratterizzanti le scritture dell’archivio di Acquafredda, non sono tuttavia di per se stesse in grado di caratterizzare le pergamene afferenti a quel tabularium.

I dorsi delle membrane di San Faustino presentano annotazioni di epoca medievale, soprattutto duecentesche, che abitualmente richiamano l’ubicazione del bene oggetto del negozio giuridico; furono apposte con evidente legame a esigenze pratiche. Almeno alcune di queste annotazioni sono probabilmente legate ad una revisione complessiva delle carte per la stesura di scritture di sintesi in vista di una più efficace e documentata gestione amministrativa. Il riferimento è in particolare al liber memorie rerum territoriarum del 1254 [28], che – per una sua opportuna contestualizzazione – deve essere letto in correlazione all’inventario delle terre possedute dal monastero di Santa Maria vecchia di Como [29]. Esso venne realizzato nel 1255, dietro precetto del comune di Como. Tuttavia le annotazioni dorsali di San Faustino non sono dotate da elementi di serialità caratterizzante, così come accade per numerose istituzioni.

Alla luce di quanto riferito, nonostante il permanere dell’incertezza circa l’afferenza archivistica, con scelta di buon senso, è nata la decisione di editare anche queste cinque scritture in una piccola Appendice, per favorire una loro integrazione alle otto di provenienza certa, e così da fornire qualche ulteriore elemento in sede interpretativa.

Presentazione delle carte

Si fornisce di seguito una presentazione in forma schematica delle tredici scritture edite.

Documenti provenienti in modo certo dall’archivio del monastero di San Faustino:

n. nell’ed.segn. attuale BAMidatationestraditionote dorsali medievaliSegnature alfabetiche, sec. XVII (fase C)Regesti Ferrario Della CroceBonomiCeruti
113521011 febbraio, CosioO.nononoDella Croce, I,3 *, n. 49: «ex authentico in archivio monialium Sancti Faustini de Campo»*ante 1.MXI2
213791106 maggio, NibionnoC. a. D(e) Colon(n)o d(e) I(n)sulanonoDella Croce, I,3 *, n. 49: «ex authentico in archivio monialium Sancti Faustini de Campo»* ante 20.MCVI3
313931141 marzo 27, canonica di San Nazaro presso MilanoO.Car(ta) t(er)re d(e) GenzananonoDella Croce, I,7 **, n. 122: «ex authentico ecclesie Sancti Faustini de Campo. Communtatio»29.MCXLI17
41402, 14031148 aprile, Castello dell’Isola ComacinaC. a.Car(ta) d(e) Volt(ul)inanonoDella Croce, I,7 ***, n. 287: «ex authentico exemplo in archivio monialium Sancti Faustini de Campo. Livellum»* ante 35.MCXLVIII27
514041149 gennaio, Castello dell’Isola ComacinaO. Car(ta) Benedicti d(e) ViniolanonoDella Croce, I,7 ***, n. 315: «ex authentico exemplo in archivio monialium Sancti Faustini de Campo. Livellum»*** ante 35.MCII28
666561170 giugno 18–luglio 16, ComoO. Car(ta) t(er)ar(um) d(e) Volt(el)inanonoDella Croce, I,9 *, n. 108: «ex archivio monialium Sancti Faustini de Campo»58.MCLXX57
714311171 gennaio 14, Traona–ComoC. a. Car(ta) d(e) SorliatenonoDella Croce, I,9 **, n. 138: «ex authentico exemplo in archivio monialium Sancti Faustini de Campo»59.MCLXXI53
81477 e 14781190 novembre 22–23, ComoO. C(arta) investit(ur)e t(er)re d(e) Sorliatenonono113.MCXC96

Documenti di provenienza dubbia (editi in Appendice):

n. nell’ed.segn. attuale BAMidatationestraditionote dorsali medievaliSegnature alfabetiche, sec. XVII (fase C)Regesti Ferrario Della CroceBonomiCeruti
913941141 marzo 27, MilanoC. a. Car(ta) t(er)rarum d(e) Genzananononono18
1014161164 luglio, Isola ComacinaO. nonononono39
1114271169 giugno 29, ComoO. Car(ta) S(an)c(t)i Faustini qua(m) fecit Ogerius d(e) Ca(n)tononononono50
1214301170 dicembre 24, ComoO. S(anc)ti Eusebiinononono52
1314641185 novembre 2, VarennaO. Car(ta) monasterii S(an)c(t)i Faustini d(e) rebus d(e) Colonno et Bagiana e(m)ptis a Ioh(ann)e Musanigranononono83

Note

[1] Proprio per la profonda integrazione del lavoro ricognitivo e interpretativo, il presente testo introduttivo deve essere considerato quale parte integrante e imprescindibile all’introduzione delle carte dell’Acquafredda–San Benedetto.

[2] ROVELLI, Storia di Como, III/3, pp. 218–219.

[3] Secondo la formulazione ricorrente negli studi di Ezio Barbieri. Cf., ad esempio: BARBIERI, Per l’edizione del fondo documentario <di S. Giulia>, pp. 49–92; IDEM, L’archivio del monastero <di San Benedetto di Leno>, pp. 255–262.

[4] È profondamente povera la bibliografia relativa a questo monastero femminile, che può oggi contare, oltre ai riferimenti sparsi contenuti nello studio ormai classico di Ugo Monneret de Villard, L’Isola Comacina (e pochi altri contenuti nelle storie comasche, per le quali vide la nota successiva), soltanto su due schede sintetiche: quella stesa da Saverio Xeres e Mario Longatti ed edita nel 1990 sulla rivista diocesana «Archivio storico della diocesi di Como», 4 (1990), p. 82, e quella più recente curata da Francesco Bustaffa, pubblicata on line, nell’ambito del progetto Civita di Regione Lombardia, all’url: <http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/11500662/> (ultimo aggiornamento 2006). Infine, alcuni riferimenti sono presenti in LUCIONI, Insediamenti monastici medievali, pp. 71–73.

[5] Sono due i principali nuclei tematici che comunemente – nella storiografia comasca – contengono riferimenti al monastero di San Faustino. In primo luogo si parla del monastero perché lo si riteneva residenza di Domenica, sorella di sant’Agrippino, che fu il tredicesimo vescovo di Como (607?–617). Secondo il Tatti santa Domenica visse lì intorno al 580 (TATTI, Annali sacri, Decade I, nn. 74–76, pp. 606–608; cf., ad esempio: CANTÙ, Storia della città e della diocesi di Como, pp. 161–162). Il secondo filone di interesse riguarda la fase storica della distruzione dell’Isola Comacina. Il Tatti afferma che nell’anno 1169 «partirono ancora dall’Isola i canonici di Santa Eufemia e le monache de’ Santi Faustino e Giovita, e presero nuovo sito nella vicina pianura (…). Tanto parimente fecero le monache dell’ordine di San Benedetto che ottennero da Lafranco arciprete di Santa Eufemia la chiesa di San Giovanni in un luogo assai capace e poco discosto dalla detta collegiata, addimandato per l’uguaglianze del terreno da’ paesani di Campo, nome che oggidì pure gli va perseverando, onde si chiamano comunemente le monache di Campo» (Annali sacri, Decade II, n. 45, p. 463). Il dato della distruzione del monastero si legge – ad esempio – nel Ballarini (Compendio delle croniche della città di Como, p. 16); viene identicamente riferito da Maurizio Monti, il quale precisa che furono atterrate tutte le chiese ad eccezione di quella di San Giovanni Battista (Storia di Como, pp. 446–447), dal Rovelli, che avanza riserve sulla ricostruzione proposta da padre Tatti (Storia di Como, II, p. 183). Strettamente connesso con il tema della distruzione è il riferimento al monitorium di Gotifredo patriarca di Aquileia, del 1183, col quale il patriarca avrebbe intimato «che – scrive il Rovelli – in avvenire si astengano dal distruggere qualunque chiesa, se non con licenza o del papa o del metropolitano o del vescovo o per necessità della propria difesa, che conducano a compimento la fabbrica già incominciata in Como delle chiese di Santa Eufemia e di San Faustino in luogo delle distrutte dell’Isola, e ciò a norma dell’indulto di Alessandro III pontefice» (ROVELLI, Storia di Como, Parte II, p. 184). Mentre il Giovio aveva riferito: «Avendo poi i comaschi nella distruzione dell’Isola Comacina atterrato le chiese di San Faustino e di Santa Eufemia, furono colpiti dall’interdetto durato quattordici anni, finché ottenuto il perdono, Gotifredo patriarca di Aquileia, di passaggio per Como, a preghiera di suo fratello Giobata, levò l’interdetto e restituì i comaschi alla comunione dei fedeli, ordinando di edificare poi in città due chiese come quelle distrutte» (Historiae patriae, pp. 40–41). Mario L. Belloni, sulla base di dati archeologici e architettonici, esclude che il San Faustino fosse stato distrutto manu militari (Il San Benedetto, pp. 34–35). I sintetici dati storiografici riferiti evidenziano l’esigenza di una nuova riconsiderazione della problematica, con integrazione critica di dati documentari e di dati provenienti dagli scavi archeologici.

[6] L’espressione è frequente negli Annali sacri del Tatti. Ad esempio, riguardo alla partenza delle monache di San Faustino dall’Isola (cf. il testo citato nella nota 5), il Tatti dichiara in modo esplicito che le notizie riferite furono attinte ex monumenta collegiatae Sanctae Euphemiae ad Insulam (Annali sacri, Decade, II, n. 45, p. 463).

[7] Cf. nella silloge Acquafredda–San Benedetto il doc. n. 19 e bibliografia ivi citata.

[8] GRILLO, Lombardia monastica, p. 148. Anche Ugo Monneret de Villard propone questa datazione portando quale prova indiziaria un documento dell’archivio di San Fedele di Como, del 26 giugno 1181 e una lapide posta nella chiesa di San Giovanni dell’Isola risalente al 1467 (MONNERET, L’Isola Comacina, p. 56). Il succitato precetto di Federico I, del 1175, che proibisce la ricostruzione del castello e di strutture edificatorie, è ribadito dall’imperatore Adolfo nel 1296 (MONNERET, L’Isola Comacina, pp. 56–57). Chi più compiutamente si è occupato della datazione della distruzione è Santo Monti, Carte di San Fedele, pp. 67–77, giungendo alla medesima proposta di datazione. Giuseppe Rovelli colloca la distruzione «non prima del febbraio di detto anno, poiché una carta originale di quell’archivio, che porta la data appunto di febbraio dell’anno 1169, leggesi rogata nel castello d’Isola. (…) Quindi è che i documenti Isolani degli anni 1189, 1191, 1193 e 1197 qualificano l’Isola coll’aggiunta di “nuova”, ed un d’essi fa cenno dell’isola “vecchia”» (ROVELLI, Storia di Como, II, pp. 171–172).

[9] In proposito ad es. GIOVIO, Historiae patriae, pp. 39–40.

[10] Riguardo alla quaestio relativa alla distruzione che colpì, oltre al castello e alle strutture fortificatorie, anche edifici religiosi, gli storici locali non sono concordi, né circa il loro numero né circa la loro identificazione (cf. supra la nota 5). Quel che è certo è che, sia che l’edificio fosse abbattuto, sia che non lo fosse, certamente il monastero si trasferì e quel giro di anni immediatamente successivi alla sconfitta dell’Isola costituirono uno snodo istituzionale significativo, come appare chiaramente dalla lettura delle carte.

[11] Su questi fatti, cf. lo studio di U. MONNERET DE VILLARD, L’Isola Comacina.

[12] Identicamente la medesima Aveduta, ancora in qualità di badessa («Avedute, abbatisse ecclesie Beati Faustini de Insula»), è attiva il 29 giugno del 1169 come acquirente di beni di Premonte (doc. qui edito al n. 11).

[13] Del vescovo Anselmo il Ballarini evidenzia il ruolo importante di riorganizzazione della mensa vescovile: Compendio, p. 122.

[14] L’edificio attualmente appare riedificato nel Seicento sui resti di un’antica chiesa romanica eretta entro il perimetro delle mura medievali. È ancora oggi testimonianza della sua antichità il muraglione perimetrale di sinistra, ove si vedono un’apertura a feritoia e lavorazioni della pietra tipicamente romaniche.

[15] Citazione ancora dal doc. n. 12 .

[16] «Troviamo poi che l’anno 1190 non solamente era stata condotta a termine dentro la città di Como una delle suddette chiese sotto il titolo dei Santi Faustino ed Eusebio in luogo della demolita dell’Isola, ma ancora eretto un monastero a quella unito ed abitato allora da una badessa, e da cinque altre monache, come ce ne assicura una autentica scrittura de’ 22 di novembre di quell’anno (in tabulario ecclesia Sancte Eufemie ad Insulam)»: TATTI, Annali sacri, Decade II, pp. 184–185. Il Cantù ritiene con certezza che si trattasse della chiesa di Sant’Eusebio: «Dell’eccidio dell’Isola cominciarono i comaschi ad aver punizione nell’interdetto che corsero per le violate chiese, a redimersi del quale fabbricarono quella di Sant’Eusebio in Como» (CANTÙ, Storia di Como, I, p. 183).

[17] Così parrebbe dal documento qui edito al n. 13, in data 1185 novembre 2, Varenna.

[18] Un esempio particolarmente eloquente di questo uso toponimico viene proprio dall’archivio di San Faustino, in una vendita del 1209 gennaio 11, Insula nova sive Varene, l’acquisto è compiuto da «Anastaxia, abbatissa monasterii Sancti Faustini sive ecclesia de Insula veteri» (BAMi, Pergamene, 1558).

[19] Monneret de Villard scrive che «il convento femminile di San Faustino (e Giovita), alla distruzione dell’Isola ottenne di occupare la chiesa di San Giovanni di Campo, ed il cenobio portò il nome di San Faustino e Giovita di San Giovanni di Campo, e durò sino alla soppressione Giuseppina» (L’Isola Comacina, p. 61). Altre volte apparirà più sinteticamente come «monastero di San Faustino di Campo». Così ad esempio nella carta cautionis rogata in data 1244 dicembre 15, ove attore del negozio è il «monasterium Sancti Faustini de campo de Insula» (BAMi, Pergamene, 6416).

[20] Edizione: CERUTI, Liber statutorum, coll. 395–396.

[21] CANOBBIO, La visita pastorale di Gerardo Landriani, p. 107. Inoltre, tra le descriptiones preliminari alla visita pastorale del vescovo Feliciano Ninguarda (1589) si legge: «Item la chiesa di Santo Giovanne et Paulo, Faustino et Jovita filiale dell’arcipretato nella terra di Campo, appresso quale chiesa vi è edificato un monastero delle monache dell’ordine di Santo Benedetto, et è distante dalla matrice un tiro d’arcabugio» (MONTI, La visita pastorale, vol. II, p. 248).

[22] ROVELLI, Storia di Como, III, tomo III, pp. 218–219.

[23] BBMi, AE.XV.33–35. A seguito della morte di Ermete Bonomi, tutti i suoi volumi di trascrizioni, tra i quali quelli relativi alle carte dell’Acquafredda, passarono al nipote, e infine, nel 1894, furono donati alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, dove sono tutt’oggi conservati.

[24] BBMi, Diplomatum, AE.XV.33, pp. 3–4.

[25] Il danno dell’ordinamento cronologico non fu tanto nell’applicazione ad un singolo archivio di questo criterio; quanto ad una somma di archivi diversi, i cui ordinamenti vennero infranti per coordinarvi le carte in base ad un criterio univoco e rigido (a questo proposito cf. NATALE, Introduzione, in L’archivio di Stato di Milano. Manuale storico–archivistico, p. 53).

[26] Il dato della esiguità numerica è valida soltanto in relazione ai secoli XI–XII (diverso è invece il caso del XIII secolo).

[27] Trascrizione Della Croce in Codex diplomaticus Mediolanensis, BAMi, I.3 suss. .

[28] In particolare il riferimento è a un inventario di beni datato 1254, intitolato Liber memorie rerum territoriarum (BAMi, Pergamene, 1843 ter).

[29] A questo proposito si rimanda alle note 30 e 31 dell’introduzione alle carte dell’Acquafredda. Si segnala inoltre che risale al medesimo 1255 anche l’inventario di beni e terre dell’ospedale di San Romerio di Brusio redatto da Rogerio de Beccaria (cf. PEZZOLA, Le carte degli ospedali, nell’introduzione il paragrafo La svolta documentaria negli anni dell’unificazione istituzionale, a partire dal testo in corrispondenza della nota 68).

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