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Introduzione

Le litterae papali del sec. XII nel tabularium di S. Vittore in Meda (appunti in margine, tra storia, fortuna archivistica e storiografia).

Nella evoluzione storica delle tipologie documentarie pontificie [1], il secolo XII rappresenta una tappa dalle peculiarità assai marcate, anzi, un traguardo, individuato - se non altro, per le specifiche modalità della traditio - come termine ante quem dalle principali sillogi di regesti di litterae papali, quelle di Philipp Jaffè e di Paul Fridolin Kehr [2], per intenderci, oltre che, naturalmente, da tutti coloro - Raffaello Volpini in primis [3] - che sono andati perfezionando il meticoloso e massiccio censimento allestito nell'Italia pontificia.

Ma se restringiamo il campo visivo per focalizzare l'attenzione sulla documentazione papale custodita in un solo archivio, nella fattispecie quello di S. Vittore di Meda, può accadere che la prospettiva venga completamente ribaltata. Per le benedettine medesi il secolo XII costituisce il punto d'avvio e, nel contempo, il momento cardine per cogliere e circostanziare i rapporti tra l'antico monastero e la Sede apostolica.

Ai secoli precedenti non è possibile arretrare: non disponiamo, infatti, di concreti reperti, ma al più di minime e generiche allusioni che, tràdite in atti del Duecento, non possono fornire un aiuto determinante nel definire un quadro dai contorni cronologicamente precisi [4]; al contrario, esse sembrano rinviare a istanze e a situazioni piuttosto tarde. Per quanto riguarda il basso medioevo, la documentazione papale si presenta, in proporzione, assai rarefatta e dispersiva [5], non suscitata da un'emergenza forte e aggregante, che avrebbe potuto incidere sui criteri di selezione e conservazione. Tutto, dunque, si concentra, e, in un certo qual modo, si esaurisce alla fine del XII secolo, nel torno di pochi decenni: 11 litterae pontificie in un ventennio.

La presenza di bolle in un tabularium monastico e, pertanto, la consistenza, se non la qualità, del rapporto epistolare intrattenuto da un'istituzione con la Sede apostolica, costituiscono una cartina di tornasole preziosa e pluridirezionale. Il semplice dato numerico - e mai come in questo caso può essere opportuno accogliere le suggestioni che il metodo statistico evoca per lo studio della documentazione [6] - è di per sé una spia, che non si limita, infatti, a segnalare un eventuale, particolare favore del pontefice, ma tasta il polso - mi si conceda l'espressione - all'ente stesso: ne rappresenta in modo tanto sintetico, quanto icastico ed efficace, la vitalità e le traversie.

Non sembra perciò un caso che le più antiche litterae appartenute al monastero di S. Vittore di Meda, di cui si abbia notizia, siano riconducibili agli ultimi decenni del secolo XII, una fase critica del rapporto tra poteri 'universali' (papa, impero) e poteri 'locali' (vescovi, comuni dominanti, comunità rurali, domini loci), ma, soprattutto, particolarmente insidiosa per la vita del monastero medese e per l'esercizio dei suoi diritti tradizionali, seriamente messi in discussione da logoranti contrasti, che vedevano quali principali parti in causa, oltre alle benedettine di S. Vittore, i borghigiani di Meda, da un lato, il pievano di Appiano Gentile, dall'altro, e, sullo sfondo, le principali istituzioni milanesi, il comune, cioè, e l'episcopato.

Contrasti che travalicarono il XII secolo e che - almeno per quanto attiene il borgo di Meda - non si acquietarono neppure dopo il 1252, anno in cui esplosero con maggior virulenza, stravolgendo, una volta per tutte, l'assetto giurisdizionale preesistente, ma continuarono ad emergere endemicamente ben oltre la prima età moderna, sancendo, così, attraverso un fitto e indispensabile dialogo con il passato, la fortuna archivistica del materiale documentario posto in essere nei momenti decisivi. Una fortuna a lunga gittata, dunque, che varrà la pena ricuperare, specialmente nella sua declinazione più feconda e intensa, quella settecentesca, imprescindibile perché non solo costituisce quasi l'unico tramite tra noi e le numerose pergamene deperdite (per limitarci agli atti qui editi, di ben sei originali si son perse le tracce dopo il sec. XVIII), ma si rivela comunque, sempre, un agile passe-partout, utile a ricomporre i disiecta membra.

Va, peraltro, ammesso che sia prima, sia dopo il Settecento, il tabularium di S. Vittore, in toto, non ha goduto di una fortuna storiografica proporzionale al suo inestimabile valore. Nel Cinquecento e nel Seicento furono i santi fondatori, Aimone e Vermondo, insieme alla Legenda che li vedeva protagonisti, a monopolizzare l'attenzione, non sempre disinteressata, degli eruditi, intenti com'erano a conferire lustro alle origini della nobile famiglia milanese Corio. Con due sole eccezioni: Gaspare Bugatto e Carlo Bascapè, non a caso illustri rappresentanti - benché su diversa scala - del clima spirituale e culturale instauratosi nella Milano borromaica [7].

Seguì, quindi, l'esuberante parentesi settecentesca. Specchio di una ben precisa e assai diffusa forma mentis [8], che coniugava un prammatico ricupero della documentazione (vuoi per finalità genealogiche, vuoi - come nell'esempio medese - per contingenti urgenze giuridiche) ad un profondo interesse antiquario nei confronti delle fonti d'archivio, coinvolse nomi altisonanti, come quello di Giuseppe Antonio Sassi, prefetto dell'Ambrosiana, o carneadi, sconosciuti ai più, come il notaio Giovanni Angelo Custodi, lasciando una traccia indelebile. L'edizione che il Sassi approntò della sentenza di Robaldo (doc. nr. 3 dell'Appendice), edizione alla quale, tra l'altro, il Custodi non fu estraneo [9], rimase, infatti, un punto fermo, benché un unicum, a cui avrebbero fatto riferimento generazioni di storici e appassionati.

Da allora, per lungo tempo, le porte del tabularium furono completamente serrate a qualsiasi fruitore, per quanto autorevole, Giorgio Giulini incluso; a maggior ragione, nei decenni immediatamente successivi alla soppressione di S. Vittore, decretata l'8 Pratile anno VI (27 maggio 1798) [10]. Poiché era rimasto in loco, con un'unica, temporanea migrazione, e non aveva, pertanto, condiviso il destino degli altri fondi monastici, approdati in Archivio di Stato (ma non per questo scampati a variazioni di sede e a scompaginamenti, nonché a un inevitabile, momentaneo oblio), l'archivio di S. Vittore fu dato dai più per disperso. Così il Kehr, persuaso che «Perpauca... ex archivio monialium supersunt» [11], dovette accontentarsi di attingere a una copia della Risposta al papele intitolato Estratto delle spese attinenti alle campane della Chiesa parrocchiale del luogo di Meda conservata nella Biblioteca Ambrosiana. Allo stesso modo, nel 1912, don Rinaldo Beretta, in una breve notizia consacrata al cenobio medese, seguendo la communis opinio, annotò come, dopo la soppressione del 1798, «L'archivio e i quadri andarono... dispersi, senza che si fosse pensato almeno a inventariarli» [12].

Soltanto due eruditi ebbero la possibilità di avere tra mani qualche prezioso tassello dell'antico scrinium. Vitaliano Rossi [13], studioso di archeologia ed antiquaria, oltre che ispettore agli scavi del territorio di Monza, s'imbatté nel monastero e nel suo tabularium, ma solo - così parrebbe - marginalmente e per gradi. Con tutta probabilità alludeva all'archivio Antona Traversi (temporaneamente allestito nella villa di Desio), allorché, nel 1876, introducendo la monografia di chiara impronta divulgativa dedicata ad Alberto da Giussano, lamentava che «fra gli archivii privati, l'unico che doveva posseder qualche documento interessante non fu neppur interrogato, perché perdette tutte le carte e pergamene anteriori al 1500» [14]. Tuttavia, svolgendo, nel medesimo volumetto, gli antefatti alla battaglia di Legnano, non seppe rinunciare a una rapidissima digressione, piuttosto informata a dire il vero, su S. Vittore, né alla tentazione di pubblicare una lettera di Alessandro III (il nostro doc. nr. 1), da lui stesso «posseduta», anche se non ci è dato sapere a quale titolo [15]. Nell'arco di due anni, dovette, però, avere ragguagli sull'esistenza dell'archivio e sul suo assetto materiale, tanto che appose su una cartella dell'Archivio di Stato di Milano la seguente annotazione: «l'archivio delle monache di Meda è ancora in luogo posseduto dal proprietario avv. Antona Traversi, custodito in sacchi e cassette» [16].

Ma chi per primo ebbe modo di compulsare e valorizzare, nella trama di una narrazione storica, un buon numero di pergamene medesi, spazianti tra XII e XIV secolo, fu Cristoforo Allievi. Sacerdote di origini sevesine (1881-1958) [17], si era posto sulle tracce di documenti utili per una conoscenza più approfondita del paese natale, la cui storia andava pubblicando, tra il 1915 e il 1919, sul bollettino parrocchiale «Risveglio cristiano», e al monastero di S. Vittore poté dedicare alcuni sintetici ma rigorosi excursus [18], intessuti di informazioni di prima mano.

Gli anni dell'Allievi erano anche quelli in cui il conte Giovanni Antona Traversi, per omaggiare le nozze della sorella Claudia, attendeva, affiancato dall'ingegner Carlo Agrati [19], alla confezione di un ben noto florilegio di documenti medesi [20], comprensivo di tre bolle pontificie. Queste nuove sollecitazioni non potevano che suscitare nuove curiosità e stimolare nuove ricerche. I precursori furono Giorgio Picasso, che propose l'edizione critica della bolla custodita nell'abbazia S. Benedetto di Seregno, già divulgata dal Rossi, e Cinzio Violante, che, seguendo la pista delle litterae pontificie (anche attraverso tesi di laurea da lui coordinate [21]), le valorizzò entro sintesi di ampio respiro e dalle intuizioni fortemente pionieristiche. Nell'arco di pochi anni, si aggiunse Raffaello Volpini, che ai preziosi documenti pontifici s'interessò per perfezionare le Additiones Kehriane.

Si era andato così ricostituendo un cospicuo nucleo di lettere papali, grossomodo le stesse che, secondo le intenzioni di Giovanni Angelo Custodi, erano da conservarsi nel "Cass.° B. 9." dell'armarium, sotto il titolo «Bolle Pontificie, Ordini e Decreti de' Cardinali Arcivescovi e suoi Vicarii» [22], e che, con tutta evidenza, sarebbero poi confluite nella cartella settecentesca, tutt'oggi superstite in loco, dedicata a «Bolle Pontificie, sentenze, precetti degli Ordinarij, e delegati Apostolici sopra 'l Dominio della Chiesa Parrochiale a fauore del Monastero di Meda».

Ma ogni archivio può riservare continue, piacevoli sorprese. Quello di S. Vittore, recentemente compulsato, ha restituito un testimone, pur tardo, di una lettera pontificia fino ad oggi sconosciuta, relativa alle decime di Lomazzo (doc. nr. 10), tràdita in copia settecentesca e serbata, come buona parte della documentazione cartacea, nell'originaria cartella, in un contesto, pertanto, defilato rispetto alle res pretiosiorae.

I) L'histoire événementielle nel suo contesto: le dialettiche di fine secolo XII.

Due sono i fili conduttori che si dipanano attraverso le lettere pontificie ricevute e/o serbate dal monastero di S. Vittore nel secolo XII: l'elezione del parroco di Meda e il conflittuale rapporto coi borghigiani, da una parte, e lo scontro con il pievano di Appiano Gentile per alcune decime su terre in Lomazzo, dall'altra. Se quest'ultimo snodo problematico è stato fino ad oggi occasione di rapidissimi cenni, che meritano d'essere ulteriormente scandagliati [23], l'exemplum medese, già parzialmente svelato dagli atti accolti nel florilegio del 1919 e dalla lettera di Alessandro III edita dal Picasso, ha giocato un ruolo di asse portante nelle ricostruzioni, magistrali e innovative, consacrate dal Violante e da Giancarlo Andenna all'inquadramento pievano e alla nascita delle parrocchie nel Milanese medioevale [24]. Per sfatare, tuttavia, una certa aura impressionistica che è, comunque, venuta sedimentandosi attorno alla dialettica tra S. Vittore e i borghigiani, anche a rischio di riproporre il già noto, mette conto ricomporre in un quadro d'insieme, seppur inevitabilmente sommario, tutte le tessere superstiti, a partire dalle litterae meno note e valorizzate, rivisitate alla luce della cospicua documentazione coeva, medese e non, senza rinunciare, nello stesso tempo, a collocare il climax delle vicende in quella prospettiva diacronica di ampio raggio, che tanto si è riflettuta nella traditio della documentazione. Anche se - e lo diciamo subito - sarebbe velleitario sperare di guadagnare con la medesima precisione i contorni, la concreta portata di tutti gli avvenimenti e, soprattutto, di fissarne con certezza incontrovertibile la scansione cronologica. Come spesso accade in ricostruzioni storiche affidate a "frammenti di frammenti", talvolta sarà inevitabile accontentarsi di cogliere semplici suggestioni, di intravedere accostamenti e di indovinare esiti incerti.

Dei molteplici aspetti in gioco, quello che possiamo meglio verificare riguarda la controversa elezione del prete ufficiale nella locale chiesa di S. Maria. Una prima contestazione data al 1138. Nella circostanza era il pievano di Seveso a rivendicare il proprio diritto sulla capella medese [25], richiamandosi ad un'articolata serie di argomentazioni, che, evidentemente, rifrangevano alcune peculiarità delle strutture ecclesiastiche d'inquadramento, così come erano ormai andate consolidandosi: S. Maria era «sub regimine» della chiesa matrice, e doveva rimanere ad essa sottoposta «tamquam membrum capiti et filiam», dal momento che era stata fondata entro i confini del piviere; il preposito, inoltre, vi celebrava ogni anno, in segno di dominium, la festa di san Sebastiano e vi riceveva una refectio dal sacerdote officiante; la stessa chiesa di Seveso, inoltre, forniva alla capella di Meda, ogni sabato santo, il crisma e l'acqua benedetta per il battesimo; senza contare che era stato proprio il pievano ad insediare Ottone, capellanus ormai defunto.

Le monache controbattevano, però, che per trent'anni era stata la badessa di S. Vittore a eleggere i sacerdoti preposti a celebrare gli uffici divini in S. Maria e a «regere et gubernare» il popolo di Meda; uno di loro, in particolare, Ottone - non si poteva negare che era stato nominato dal pievano - aveva ricevuto l'investitura «de altario», alla presenza di Otta, badessa del momento. Di più: la badessa in carica, Martina, per provare la potestas e il dominium da lei esercitati sulla capella, aveva esibito cartarum instrumenta (forse i docc. nr. 1 e 2 dell'Appendice? [26]) volti a dimostrare che, come già ai tempi della badessa Berlenda, era il monastero a gestire le permute dei beni appartenenti a S. Maria.

La controversia, dibattuta dinnanzi all'arcivescovo di Milano, Robaldo [27], ebbe un esito pienamente favorevole al monastero: veniva sancita, così, la superiorità del possesso trentennale e dell'investitura «de altari» sulla territorialità, quali discriminanti per decidere a chi toccasse l'elezione del cappellano (doc. nr. 3 dell'Appendice). Non dovette, tuttavia, mancare uno strascico polemico: fu, infatti, solo attraverso una refuta del 1140 (doc. nr. 4 dell'Appendice) che il preposito e i chierici di SS Gervaso e Protaso di Seveso accettarono formalmente di attenersi a quanto stabilito dal presule milanese nella sentenza del 1138.

Nel complesso, comunque, la prima metà del secolo sembra connotata da un trend altamente positivo, impegnato come fu - e con successo - il monastero a consolidare potere e autorevolezza, attraverso l'acquisizione di beni fondiari, oltre che di diritti giurisdizionali ed ecclesiastici [28]. I conflitti riesplosero, prepotentemente, proprio al termine del lungo, fecondo abbaziato di Martina, forse contestuali a un temporaneo vuoto di potere ai vertici dell'istituzione.

Toccò alla nuova badessa, Letizia, ribadire e difendere il diritto all'elezione del cappellano di S. Maria, divenuta ormai chiesa parrocchiale. Ma negli anni '70 del XII secolo, non era più il pievano di Seveso a contrastare i diritti del cenobio, bensì gli homines di Meda. Un avvicendamento di antagonisti, questo, nient'affatto sorprendente e che, anzi, ben si inserisce nel clima di radicali mutamenti seguiti - soprattutto, ma non solo - alla distruzione di Milano (1162) [29]. L'esito della battaglia di Legnano avrebbe, poi, ben presto impresso - anche nel contado milanese - una vigorosa accelerazione al progressivo rafforzamento delle comunità locali, che, ormai pienamente coscienti delle proprie potenzialità, da tempo erano andate rivendicando un ruolo sempre più partecipe a livello sia politico-amministrativo, sia religioso [30]. Tuttavia, se non altro per la loro determinazione, i medesi si segnalano come vere avanguardie (pur se perdenti, nell'immediato): proprio in quegli anni, del resto, si era andata creando una favorevole congiuntura, che non poteva mancare di sollecitare le loro ambizioni. Come ci inducono a ritenere anche alcune lettere pontificie qui edite (docc. nr. 2 e 3), il locus di Meda era divenuto un burgus [31], economicamente e demograficamente rilevante, dove si era ormai strutturata una comunità assai consapevole e temprata, alla quale il dominus loci aveva indirettamente fornito, con l'erezione di un castrum, con l'organizzazione di un mercato, con lo stesso esercizio dei diritti giurisdizionali, ambiti di crescita e stimoli alla coesione. I borghigiani, inoltre, erano inseriti - secondo modalità che ancora ci sfuggono ma che trovano ampio riscontro nella vivace e mobile società comitatina del tempo - in una vita relazionale ad ampio raggio e avevano, con tutta probabilità, contatti extra burgum tali da rendere meno peregrine e ben motivate le loro aspirazioni [32]. Infine, la vacanza della sede arcivescovile milanese (Galdino morì il 18 aprile 1176 [33], il suo successore, Algisio, fu eletto solo il 2 luglio del medesimo anno [34]), dovette rappresentare un interstizio assai opportuno all'apertura delle ostilità.

E la decisione presa da Goldeto de Gregoriis nella primavera del 1176, di ricorrere, cioè, ai consoli milanesi ed interporre appello contro una sentenza favorevole al monastero di S. Vittore pronunciata da Alberto da Rho, ha tutto il sapore di una prima prova di forza [35]. Senza voler entrare nel dettaglio, trapela dall'intera vertenza - che ruota attorno ad una «petia terre», forse non casualmente «iuris ecclesie Sancte Marie» - la ferma volontà di scavalcare il dominus, non solo nella possibilità di amministrare il bene conteso: se, infatti, ci è ignoto a che titolo Alberto avesse sentenziato, è certo che dinnanzi ai consoli di Milano egli figura come missus della badessa Letizia. Del resto, non è difficile cedere alla suggestione di riconoscere in quel gruppo di medesi (Giovanni Ferrarius, Garaverna, Viviano de Plato, Straciolus de Pazeda, Roberto Allexandrus e sotii sui), che rappresenta l'anello intermedio nei passaggi di proprietà dell'appezzamento, un nucleo originario del nascente o neonato comune.

Qualche settimana più tardi, burgenses e monache ricorsero alla sede apostolica. Erano stati i parrocchiani a prendere l'iniziativa: rivendicavano a sé «electionem et representationem» del sacerdote di S. Maria (doc. nr. 2), dal momento che - come ci informa la lettera indirizzata a S. Vittore (doc. nr. 3) - «presbiter eiusdem capelle de bonis eorum sustentetur», pur ammettendo, per la badessa, il diritto di confermare il neo-eletto; chiedevano, inoltre, l'istituzione di un secondo sacerdote dal momento che, «ita populus excrevit, quod vix duo sacerdotes sufficiant ad sacramenta eis ecclesiastica ministranda, cum sint, sicut dicitur, tum viri tum mulieres, duo milia personarum» (doc. nr. 2). Il nunzio abbaziale fondava, invece, le proprie ragioni sul fatto che, per consuetudine, era sempre stata la badessa di S. Vittore ad eleggere il sacerdote di S. Maria (doc. nr. 2), e che la località di Meda «ad iurisdictionem monasterii abbatisse proprie pertinet» (doc. nr. 2), o, secondo la parallela formula adottata nella missiva destinata alla badessa di Meda (doc. nr. 3), che «ipsius loci dominium et electio presbiteri, qui in capella eiusdem loci est instituendus, ad te pertineat».

Alessandro III delegò la decisione della causa ad un prelato ormai di sua piena fiducia, il vescovo di Verona Ognibene (doc. nr. 2) [36]. Era, questa, una prassi che aveva trovato sempre più larga applicazione proprio durante il pontificato del Bandinelli [37]. E non senza ragione: agevolava, infatti, l'accertamento dello status quaestionis, essendo i giudici delegati espressione di aree geograficamente non distanti dal fulcro della lite, e, al tempo stesso, snelliva l'iter gravante sulla curia pontificia, senza che, tuttavia, Roma fosse costretta ad abdicare ad un controllo capillare sulle chiese locali. Anche perché, le litterae del papa non mancavano di suggerire i principi che avrebbero dovuto informare di sé la decisione finale: «ita quidem quod quicumque super iure representationis obtineat, in prescripta capella duos facias institui sacerdotes, si populus ita excrevit quod duo milia sint aut etiam mille, tum viri tum mulieres. Interim autem ne parrochiani in perceptione ecclesiasticorum sacramentorum ullum valeant sustinere defectum, aliquem idoneum presbiterum sine preiudicio alterutrius partis provideri per abbatissam facias, qui eis divina celebrare officia et sacramenta debeat ecclesiastica ministrare» raccomanda il pontefice al suo delegato (doc. nr. 2).

Ognibene, nel marzo dell'anno successivo, pronunciò la sentenza che avrebbe dovuto risolvere definitivamente il contrasto tra S. Vittore e i burgenses (doc. nr. 5 dell'Appendice) al cospetto di un gruppo di testimoni degni d'attenzione. Accanto all'entourage episcopale veronese (Riprando e magister Adriano, rispettivamente arciprete e canonico della chiesa Maggiore [38], Gerardo, priore di S. Giorgio in Braida [39], forse il «presbiter Tridentinus» [40]), ai rappresentanti dell'élite comunale (Nerot causidicus e Giselbertino de Clavega [41]) e a un manipolo di medesi (Boltechus Nicoris, Gianni Delmas, Bordigacius, Gianni Adelasii, Medasco Mascaronis, oltre a Bonizone, «vilicus» della badessa di S. Vittore), spiccano infatti tre nomi - quelli di Ariprando iudex, di Guglielmo Burrus e di Arderico de Bonate - quale chiara espressione del ceto dirigente comunale di Milano, proprio allora sensibilmente allertato per le trattive che precedettero la cosiddetta 'pace di Venezia' [42]. Arderico de Bonate, che appose la sua sottoscrizione autografa in calce alla sentenza, fu giurista e politico di punta [43]: non aveva dovuto scontare la sua, pur molto equilibrata, collaborazione col Barbarossa negli anni successivi alla distruzione di Milano [44], ed anche in seguito al ritorno dei milanesi entro le mura della loro città, aveva ricoperto - quasi a ritmo biennale - l'ufficio di console del comune o consul causarum [45], rappresentando, inoltre, il capoluogo ambrosiano in occasione di patti con altre città lombarde o con rappresentati della dinastia sveva [46]. Il suo cursus honorum comunale si snodò in stretto parallelismo con quello del giudice Ariprando, che, per quasi mezzo secolo, occupò le massime cariche pubbliche (consul Mediolani, consul causarum, consul reipublice [47], nonché - forse - funzionario imperiale tra il 1164 e il 1165 [48]), segnalandosi, inoltre, per il suo coinvolgimento nella compagine religiosa milanese [49]. Di almeno una generazione successiva rispetto ai due colleghi fu Guglielmo Burrus: anch'egli a più riprese console [50], anch'egli espressione della sua città nelle principali missioni diplomatiche [51], anch'egli collaboratore di enti ecclesiastici [52], a differenza di Arderico e di Ariprando poté essere protagonista, se non altro per motivi anagrafici, di quella peculiare fase dell'età comunale - la fase del governo podestarile - che attraverso l'esportazione di ufficiali cimentò rapporti e alleanze tra le città dell'Italia settentrionale [53].

La presenza di ben tre uomini politici di Milano - tutti e tre consoli nel 1177 - alla decisione del presule veronese può essere interpretata come l'indizio di un interessamento partecipe nei confronti delle vicende di un borgo e di un monastero che non dovevano essere marginali nella considerazione dell'aristocrazia consolare ambrosiana, qualunque fossero, o fossero stati, di fatto, gli orientamenti politici e gli schieramenti delle parti in gioco, orientamenti e schieramenti, in ogni caso, difficili da ricostruire - come insegnano le ricerche fino ad oggi condotte sulla società e le istituzioni di Milano [54] - e per nulla riconducibili a schemi monoliticamente definiti. Non va dimenticato, comunque, che, pur trapelando segnali di un moderato, quanto tardo orientamento filoimperiale da parte del monastero [55], l'élite milanese non poteva che essere assai vicina al capitolo di S. Vittore, accomunati com'erano, entrambi, dalla presenza, tra le proprie fila, delle medesime famiglie capitaneali, come i da Rho [56]. Del resto, non sembra essere solo istituzionale e ufficiale l'attenzione riservata a Meda e a S. Vittore da Arderico de Bonate, che, menzionato - si noti - tra gli intervenienti alla sentenza del 16 aprile 1176, era, forse, legato al cenobio da rapporti complessi, come potrebbe suggerire anche la contiguità geografica tra le due località bergamasche di Bonate e di Mapello, quest'ultima eponima della schiatta alla quale apparteneva - nell'occasione - uno dei due rappresentanti di S. Vittore.

Alla luce di un tale, fitto intreccio di interessi e di poteri, che lascia intuire un retroterra dinamico e pragmatico di alleanze, emergono con maggior evidenza anche i criteri che dovettero governare la scelta dei rappresentanti abbaziali a Verona presso Ognibene. Scelta per nulla casuale, che non cadde, infatti, sul gastaldo Bonizone, già fedele e sollecito collaboratore del monastero anche nei momenti più delicati [57], e nemmeno su un rappresentante - laico o ecclesiastico - della famiglia da Rho [58], bensì su Anselmo Giringellus e Alberto de Mapello, due personaggi apparentemente defilati nella partecipazione attiva alla vita del monastero. Di Anselmo è presto detto: forse milanese, figura come testimone in alcuni atti relativi a S. Vittore [59]. Alberto de Mapello - se si esclude, naturalmente, una qualsivoglia omonimia, comunque sempre in agguato - era, invece, un esponente di spicco della Lega lombarda, partecipe rappresentante della sua città, Bergamo, dal 1167 fino a Costanza (1183), dove, al pari di Arderico de Bonate e di Guglielmo Burrus, è attestato fra i «nuntii... ex parte Lombardorum» [60]. Era, dunque, un leader particolarmente acconcio a farsi interprete dei diritti del monastero di Meda nel contesto di una realtà, quella veronese, baluardo nord-orientale della Lega e fedele alleata del mondo comunale ambrosiano [61], benché, proprio nella primavera del 1177, si andasse già logorando il delicato equilibrio tra i comuni, il Papato sostenuto dall'episcopato dell'Italia settentrionale e l'Impero [62].

La sentenza pronunciata da Ognibene fu sostanzialmente favorevole a S. Vittore, con una sola concessione ai parrocchiani: che la badessa «[duos] sacerdotes in predicta capella Sanctę Marię instituat». Come stabilito nel mandatum di Alessandro III, la causa sarebbe dovuta essere definita «omni appellatione remota», senza possibilità, cioè, d'interporre appello. Era una clausola, questa, ormai largamente applicata in caso di delega da parte del pontefice, per evitare superflui rinvii a Roma della medesima vertenza [63]. Nella pratica, non riuscì ad esercitare un'assoluta azione deterrente: non bastò, infatti, a fermare i borghigiani, che - nell'illusione di far valere a loro favore i limiti della clausola e del connesso divieto d'appello, che pur esistevano [64] - non si diedero per vinti e si appellarono, di fatto, alla Sede apostolica. Nel frattempo vennero attuando una vera e propria rappresaglia liturgica. Non permettevano alla badessa di insediare il nuovo sacerdote della chiesa di S. Maria, ma nemmeno acconsentivano a ricevere «sacerdotalia conscilia» dal prete officiale di S. Vittore. La situazione destava la più viva preoccupazione della Chiesa milanese e a tal punto dovette apparire senza sbocchi, che l'arcivescovo stesso, Algisio, forse poco prima di raggiungere il pontefice a Ferrara, si trovò costretto a scrivere una lettera (doc. nr. 5 dell'Appendice), dove intimava «omnibus sacerdotibus» della sua diocesi di non ammettere alla penitenza, né alla comunione, né ad altro momento peculiare della cura animarum alcun borghigiano di Meda, che non avesse prima ricevuto i sacramenti dal sacerdote della badessa. Poco dopo, ad Alessandro III non restò che confermare la sentenza del suo delegato (doc. nr. 4).

Ma prima del 22 maggio di un anno imprecisato, che potrebbe essere identificato con il 1173, con il 1174 o, con più probabilità, con quell'anno 'di fuoco' che fu il 1176, era accaduto qualcosa che aveva tutto il sapore di una prova di forza generale, di una minaccia agitata per ottenere quanto ambito, o, comunque, di un antefatto alle rivendicazioni in merito all'elezione dell'officiale. Come infatti apprendiamo da un'altra lettera di Alessandro III indirizzata alle monache su loro stessa richiesta (doc. nr. 1), i medesi avevano cominciato a costruire - caso non raro nel panorama coevo [65] - «infra parrochiam monasterii... ecclesiam vel oratorium de novo», o per lo meno ne avevano manifestato l'intenzione. Neppure allora furono assecondati: il responso del pontefice fu che nessuno avrebbe potuto attuare simile proposito «sine auctoritate Mediolanensis archiepiscopi» e senza il consenso delle benedettine di S. Vittore, fatti salvi, ovviamente, «privilegiis et autenticis scriptis apostolice sedis».

Come non collegare questa serie di eventi a quanto, nello stesso torno d'anni, emerge dal fronte dei rapporti con il comune di Milano? Due sentenze pronunciate dai consoli milanesi nella primavera del 1178 [66] ci informano che gli homines di Meda - oltre duecento, secondo l'elenco stilato in occasione della prima vertenza, il 17 maggio - erano sul punto di «auferre edifitia omnia que habent super allodia sua, et petras et lapides et ligna et arbores et transportare alibi», rivendicando, nelle persone di Marchisio de Marcato, Giovanni Ferrarius e Ottone Mabbus, il diritto di fare altrettanto «de edifitiia et petris et lignis que habent super sediminibus masaritii aut supra terram unde prestant fictum... abbatisse» [67]. Si celava, dietro queste richieste ufficiali, la volontà di neutralizzare l'autorità civile e religiosa del monastero, di eludere quella iurisdictio e quel dominium, ai quali lo stesso papa Alessandro, attraverso la sentenza di Ognibene, aveva inscindibilmente legato l'elezione del parroco, e di ottenere una qualche legittimazione di un nuovo status quo? È probabile. Non per nulla la badessa opponeva resistenza e affermava (con scarsa convinzione) che «edifitia non licere ipsis burgensibus auferre et alibi portare», pur comprendendo bene che non era in gioco la facoltà dei medesi di trasferirsi e portare con sé i propri beni, facoltà, infatti, puntualmente riconosciuta dai consoli milanesi, bensì il destino degli edifici costruiti entro i sedimina concessi in affitto dal monastero. Quei sedimina che, una volta venduti, secondo lo «ius et usum» in vigore, avrebbero procacciato al monastero «pro investitura» un guadagno pari ad un quinto del valore «tam soli quam edifitii» e che, pertanto, andavano salvaguardati da eventuali depauperamenti. Era questo il lato più spinoso della questione, a proposito del quale le autorità di Milano intervennero in modo circostanziato, pur non senza ambiguità. In un primo tempo, il 17 maggio, riconobbero a S. Vittore il diritto di prelazione sugli edifici stessi, ma «eo pretio quod si fuissent destructa valerent»; nell'eventualità, poi, che la badessa non avesse voluto acquistarli, i borghigiani avrebbero potuto «libere et inpune ipsa edifitia... tollere et portare», non senza aver giurato, in ogni caso, «quod de lignis vel petris ipsius abbatisse ibi positum est, ut proinde tantum minus estimentur edificia, et quod super allodiis est abbatisse relinquant». La sentenza, che aveva lasciato indeterminata tutta una serie di eventualità, fu ulteriormente perfezionata il 3 giugno e assicurò alle monache almeno il possesso di «petre seu lapides et ligna» ricavati dalla terra di loro proprietà, muri compresi, ma non quei «cuppi et petre... quas ipsi burgenses fecerint de terra abbatisse» [68].

Sta di fatto che i borghigiani erano riusciti nell'intento di solennizzare il loro diritto - con tutta probabilità mai seriamente minacciato - di «edifitia de allodiis suis et lapides et petras et ligna et arbores... auferre et alibi portare sine inpedimento... abbatisse», ufficializzando, nel contempo, il loro assetto comunale (nella sentenza del 3 giugno furono, infatti, rappresentati da tre consules burgi) e assicurandosi, inoltre, un verdetto per nulla mortificante.

Concretizzarono, foss'anche parzialmente, i loro intenti? Il momento storico era senza dubbio favorevole alla mobilità comitatina e alla creazione di nuovi borghi [69]. E gli accenti preoccupati di una lettera indirizzata al cenobio di S. Vittore da Alessandro III nel medesimo anno 1178, o, al più, nel 1180 (doc. nr. 5), lasciano intendere che le monache fossero sul punto di abdicare «aliquorum precibus vel minis» a «iura vel consuetudines rationabiles... monasterii», convinte o costrette ad alienare «vel homines districtarios aut possessiones aliquas in detrimentum eiusdem monasterii». Senza dubbio, il pontefice molto si aspettava dalla collaborazione del comune milanese [70], tanto da assicurare che «malefactores vestros per dilectos filios consules Mediolaneses a sua curabimus audacia cohercere». Ma nulla, nemmeno il patrocinio apostolico in quell'occasione contestualmente concesso (doc. nr. 6), scoraggiò i medesi. Tanto che il secolo si chiude con un appello rivolto da Clemente III all'arcivescovo di Milano, Milone da Cardano [71] - suo fedele collaboratore e costante punto di riferimento nei numerosi interventi a favore di enti ecclesiastici della diocesi milanese [72] - affinché, «ecclesiastica districtione», facesse desistere gli homines di Meda «a gravamine predictarum abbatisse et monialium super constructione ville [nove]», dal momento che «[ho]mines illius loci ad ecclesiam earum spectantes, contra privilegia ab imperatoribus monasterio ipsa[rum] indulta, novam habitationem in dispendium monasterii edificare ceperunt, ad quam se transferre, relictis prioribus habitaculis, moliuntur» (doc. nr. 11).

Che poi i borghigiani avessero nuovamente atteso alla realizzazione dei loro antichi disegni - forse mai del tutto riposti, considerata la tempestività con cui, dopo la morte di Alessandro III, ad ogni nuova elezione pontificia le monache si erano affrettate a sollecitare la conferma della sentenza emanata da Ognibene [73] - proprio negli anni in cui il monastero di S. Vittore era impegnato contro gli homines di Barlassina in una serie di vertenze [74], culminate nel tentativo, da parte dei barlassinesi stessi, di sottrarsi al districtus esercitato in loco dalle benedettine [75], non andrà letto come semplice coincidenza, ma ricondotto a una nuova ondata di rivendicazioni da parte dei rustici, complice, con tutta probabilità, il vistoso, seppur momentaneo scollamento che il cenobio medese stava vivendo nei confronti del comune dominante durante la fase di transito dagli anni '80 agli anni '90 del secolo [76].

Non è, dunque, arduo intravedere nella volontà di sottrarsi alla giurisdizione e al districtus abbaziale [77], il minimo comune denominatore che improntò di sé le azioni dei burgenses medesi nell'ultimo trentennio del secolo XII. Volontà che - lo avevamo anticipato - si sarebbe protratta, inappagata, fin'oltre la metà del Duecento, allorché la decisione di quattro arbitri, Antonio de Carnixio, Uberto de Carcano, Viviano Gottarinus e frater Benvenuto, sancì la fine del dominatus loci esercitato da S. Vittore sul borgo di Meda ed il capitolo monastico, su disposizione arbitrale, non solo cedette agli ufficiali e ai vicini del comune il mercato del borgo e la curaria del mercato stesso, ma rinunciò - sempre in favore del comune - all'honor, al districtus e alla iurisdictio sul borgo, nonché a tutti i conditia, connessi o meno all'esercizio dei diritti giurisdizionali [78]. Ancora nel 1252, i rapporti tra i medesi e S. Maria permanevano dibattuti e irrisolti, se gli arbitri dovettero puntualizzare che «ecclexia Sancte Marie... cum suis iuribus et possession[i]bus et cum iure ponendii et instituendi ibi benefitiale[s] sint et esse inteligantur dicti monasterii et quod dictum comune et singulares persone habitantes in dicto burgo seu due partes earum protestentur hin ad mensem unum proximum predicta vera esse [et q]uod de ipsa dicta ecclexia vel eius iuribus se nolunt nec possunt nec debeant intromittere et quod de cetero de ipsis iuribus non intromittent et de ipsis observandis fatiant cartam et promissionem et obligationem omnium suorum bonorum eidem domine abbatisse, nomine dicti monasterii», con una sola concessione, «quod burgienses possint ibi habere campanile unum ligneum in eo modo et forma, ut modo est, et ipsum cohoperire vel cohoperiri facere de cupis vel palea vel assibus prout eis placuerit in cohoperiendo et ipsum refficere per tempora de lign[o] in eo modo et forma, ut nunc est, ita tamen quod dicti burgienses non debeant dictum campanille munire ad offensionem nec deffenssionem aliquam» [79].

Non meno complessa e, a tratti, enigmatica, ma circoscrivibile - se non altro all'apparenza - ad un unico motivo di contesa e ad un dossier documentario dalle proporzioni certamente più ridotte, ma saporoso per la vivacità di alcuni passi, e dall'indole, tutto sommato, referenziale, la diatriba riguardante alcune decime spettanti alla chiesa di S. Vito in Lomazzo, all'epoca diocesi di Milano e pieve di Appiano Gentile [80]. Anche in questa occasione, un atto arcivescovile, nella fattispecie una composizione per transazione, emanato l'11 ottobre 1185 da Uberto Crivelli, nella persona del cancelliere Rolando (doc. nr. 7 dell'Appendice), innescò una serie di interventi pontifici. Così, dopo Lucio III, chiamato subito in causa il 30 ottobre del medesimo anno (doc. nr. 8), toccò al Crivelli, ormai papa col nome di Urbano III, ma ancora arcivescovo di Milano, ravvalorare - forse proprio agli esordi del suo pontificato - la disposizione da lui stesso sollecitata (doc. nr. 10), in un momento (1186 o 1187) evidentemente critico per il monastero di S. Vittore, che, nel medesimo frangente, aveva richiesto anche una nuova conferma alla sentenza di Ognibene.

Ma quali erano i termini della controversia relativa a Lomazzo? Oggetto della diuturna contesa erano alcune decime, sottratte al controllo del pievano, legate a ben precise tipologie di beni (i domiculti, le terre dei de Castellino) e ormai patrimonializzate, secondo la prassi che era venuta affermandosi nel sec. XII [81]: una porzione, ad esempio, aveva seguito un iter piuttosto complesso, venduta dal defunto Arnaldo de Alliate [82], acquistata da Musso, prete di S. Vito, quindi approdata al monastero di S. Vittore.

Era nell'ordine delle cose che Pietro, il preposito di Appiano Gentile, le reclamasse nella loro interezza per sé e per la chiesa di S. Vito. Ma la badessa di S. Vittore era disposta a riconoscergliene solo la metà, in virtù di una precedente transazione gestita da due arbitri, eletti dalle parti. E se, nell'occasione, è fin troppo ovvio che fosse stata la comunità monastica medese ad affidarsi al giudizio di Bonizone, suo fedele collaboratore da decenni [83], sembra altrettanto scontato che Pietro avesse risposto, riponendo la sua fiducia in un certo Bruniolo Zacius.

Mal gliene incolse, evidentemente! La transazione, deperdita, non doveva averlo minimamente appagato, se dinnanzi all'arcivescovo di Milano ne mise in dubbio la validità: era stata fatta senza il suo consenso! Aveva causato un enorme danno alla chiesa di S. Vito! Il prete Musso era stato turlupinato, nella sua buona fede, poiché Bruniolo gli aveva promesso sedici moggia, che - sembra chiaro - nessuno aveva mai effettivamente visto! Ma soprattutto Bruniolo, l'arbitro Bruniolo, era un corrotto!

La badessa, dal canto suo, sosteneva che la transactio era stata stipulata legittimamente e senza inganno alcuno. Così, mentre nessuna delle prove fino ad allora esibite consentì all'équipe della curia milanese di sciogliere il nodo gordiano e dirimere una volta per tutte la questione, la causa si trascinò a lungo. Tanto accanimento nell'una e nell'altra parte non deve, comunque, stupire. Le decime riscosse a Lomazzo costituivano già allora - e lo sarebbero state a lungo [84] - un cespite di non poco conto per il monastero, legate, tra l'altro, ad un'area eccentrica rispetto a Meda, ma strategicamente rilevante, di confine, al limitare di pievi (Appiano Gentile e Seveso), diocesi e contadi (Milano e Como), un'area dove, tra l'altro, S. Vittore poteva contare anche su sostanziose basi fondiarie e buoni appoggi familiari nella vicina Bregnano [85].

Ma ecco che, proprio quando Rolando si era detto pronto ad emanare una sentenza, con il consenso delle parti «iterum... ventum est ad transactionem». In un primo tempo Bevulco de Raude, a nome della badessa, si impegnò a dare attuazione a qualsiasi decisione che sarebbe stata formulata; lo stesso assicurò Musso, anche a nome del preposito di Appiano, ed entrambi, Bevulco e Musso, posero come fideiussori, rispettivamente, Rambotto de Raude e il giudice Suzone de Marliano. Solo allora, ricevute quelle garanzie che avrebbero potuto scongiurare il procrastinarsi della vertenza, Rolando ordinò che fosse rispettata la famigerata transazione, nei confronti della quale Pietro aveva insinuato tanti dubbi e sospetti. Con una sola, criptica clausola supplementare: che «super his quattuor modiis qui in transactione superius dicta continentur», la badessa avrebbe dovuto corrispondere annualmente alla chiesa di S. Vito un fitto annuo di un moggio di mistura di segale e di panico in parti uguali.

Sono troppi i tasselli ormai irrimediabilmente perduti e i dettagli sfuggenti per dar corpo a una ricostruzione dai contorni meno confusi e sfumati. Eppure, ancora una volta, un dato di fondo, solo apparentemente esteriore e marginale, si percepisce con nettezza: il forte coinvolgimento della realtà comunale di Milano nelle vicende ecclesiastiche comitatine. Così, se ben due ufficiali milanesi, Gulielmus iudex e il console di giustizia Stefano Menclozzi [86] (destinato, quest'ultimo, ad avere una certa familiarità con i problemi medesi [87]), sottoscrivono l'atto, se un giudice, Suzone de Marliano [88], è il fideiussore scelto dal prete Musso, ben oltre un membro della famiglia da Rho (Bevolco, Rambotto, Ottone) interviene, e in ruoli non certo marginali.

Ma non è tutto. Proprio lo stretto rapporto, che si manifestò senza dubbio a partire dall'abbaziato di Martina e si intensificò durante quello di Letizia, tra il monastero di S. Vittore e i da Rho può essere individuato come una chiave interpretativa di prim'ordine per comprendere la storia del cenobio medese nel secolo XII. Se si tiene conto che fu un rapporto costante a livello di reclutamento monastico [89], nella scelta dei rappresentanti [90], nella presenza di testimoni in atti ufficiali [91], e che, come tale, non solo legò a doppio filo l'istituzione medese alle sorti dell'antica famiglia capitaneale [92], ma la inserì a pieno titolo nella dinamica cittadina, tanto ecclesiastica, quanto comunale [93], è possibile spiegare la fermezza delle monache nel respingere attacchi su più fronti e giustificare l'atteggiamento quasi sempre favorevole, seppur non privo di ambiguità, manifestato dal comune di Milano nei confronti di S. Vittore, fino alla temporanea parabola discendente del cenobio [94] - come pure del ramo della famiglia più direttamente coinvolto nell'amministrazione monastica [95] - dopo il lungo abbaziato di Allegranza da Rho (1211-1238) [96].

II) La fortuna archivistica delle litterae.

Nel tabularium di S. Vittore, il trattamento d'onore nei confronti delle più antiche litterae pontificie non dovette mai subire battute d'arresto, considerata l'attualità costante, a lungo termine, che i temi affrontati negli ultimi decenni del secolo XII mantennero nel tempo. Che, poi, le tracce più appariscenti di tale 'fortuna' siano quelle impresse dall'assetto archivistico settecentesco, è quasi inevitabile, giacché il secolo XVIII coincide non solo - com'è ovvio - con la fase a noi più vicina della lunga esistenza del cenobio medese, ma anche con una particolare ed intensa valorizzazione pratica delle più preziose e vetuste pergamene custodite dalle monache di S. Vittore.

Fu, infatti, un evento concreto e contingente a stimolare nella comunità monastica, nuovamente e più intensamente che mai, il bisogno di ricorrere in modo non episodico alla documentazione del suo ricco tabularium: la «famosa pendenza sopra di quella Campana, che fece tanto rumore in ammendue li Fori di questa nostra Città» [97]. La scintilla che aveva innescato la miccia - come è ormai ben noto [98], se non altro attraverso la versione unilaterale degli avvenimenti proposta dalla Risposta al papele [99], opuscoletto polemico di parte monastica, redatto probabilmente a Milano sul finire del 1740 [100] - era scoccata «nello scader di Dicembre dell'anno... 1736», allorché «non si sa come, crepò la Campana maggiore della Chiesa Parrocchiale», che, in seguito, «levata dal Campanile della medesima Chiesa, senza nemmeno partecipare la cosa... alla Badessa, e alle Monache del Monistero padrone..., non fu riposta, giusta il costume, in un angolo della Chiesa Parrocchiale, ma trasferita bensì in una Casa privata ad essa Chiesa vicina» [101]. Ne nacque un vivace corollario di ripicche e stratagemmi dai risvolti tragicomici, se non drammatici, che condussero a un procedimento dinnanzi al tribunale ecclesiastico, terminato con un arbitrato, e a un più lungo processo civile, tutti gravitanti - nella sostanza - attorno alla legittimità del diritto, rivendicato da S. Vittore ma contestato dai borghigiani, di essere «libero, assoluto, e privativo Padrone della Chiesa Parrocchiale..., e parimente di tutte le cose a lei annesse, e connesse» [102].

Il coordinamento delle fasi indispensabili per realizzare una solida base documentaria fu affidato a Giovanni Angelo Custodi. Ben conosciamo, ormai, la trama grezza delle vicende che seguirono, le inclinazioni antiquarie del notaio milanese, le linee guida della sua attività archivistica, l'infelice esito del suo rapporto di lavoro con il cenobio medese [103]. Mi pare, tuttavia, opportuno guadagnare qualche ulteriore dettaglio, se non altro, per rendere maggiormente nitidi i contorni del più incisivo, anche se inconsapevole, artefice della fortuna 'storiografica' occorsa alle bolle e per fare ulteriore luce su un episodio che, anche in virtù della sua schietta carica umana, meriterebbe una ricostruzione più puntuale. Imprescindibile punto di partenza rimane il dossier assemblato per le monache in occasione della lite che, immediatamente dopo la collaborazione, oppose il Custodi a S. Vittore, a quanto pare, per pretese di compenso: ne emerge una fitta rete di recriminazioni e dati, spesso polemicamente postillati dallo stesso professionista milanese, la cui voce è, pertanto, quella che - in definitiva - risuona più acuta.

Dalla documentazione medese e, in particolare, dal dossier relativo alla vertenza Custodi, apprendiamo, dunque, che il notaio aveva passato in rassegna tutte le pergamene medesi, sul cui dorso, nell'angolo superiore destro, aveva vergato di proprio pugno o, più raramente, fatto apporre un regesto essenziale (data cronica, sempre; titolo del negozio, assai spesso). Quindi, aveva provveduto a far riporre il materiale documentario in cartelle confezionate all'occorrenza e aveva progettato un armarium a cassetti, il cui schizzo è parzialmente sopravvissuto [104], mettendo a punto i più elementari strumenti di corredo, come alcuni inventari generali o «somarioni» tematici [105].

Aveva, nel frattempo, ampliato lo spettro delle proprie ricerche, sondando altri archivi, milanesi, alla ricerca di ulteriori pezze d'appoggio documentarie utili alla causa [106], come pure biblioteche per rinsaldare le proprie cognizioni, leggendo o copiando il fior fiore dell'erudizione allora in voga [107], e per meglio realizzare, così, le proprie aspirazioni storiografiche.

In seguito, dopo una ricognizione di tutto il materiale utile, aveva isolato quelle pergamene o carte moderne che avrebbero potuto comprovare i diritti esercitati nei secoli dalle monache di S. Vittore sulla chiesa di S. Maria: le aveva riunite a mazzi, per tematiche, e le aveva accompagnate con dissertazioni ad hoc, facendo redigere o scrivendo lui stesso sintetici inquadramenti storici [108]. Per gli atti più antichi e preziosi aveva approntato anche un cospicuo apparato di regesti, di copie autentiche, di copie semplici e di traduzioni in italiano [109]. Aveva redatto, infine, «fatti storici» [110], cioè, ricostruzioni funzionali al processo, più volte rielaborate per volontà degli avvocati; ricostruzioni che altro non avrebbero dovuto essere se non un indice ragionato del dossier documentario da esibire nel foro.

Un'idea piuttosto chiara del metodo attuato e degli obiettivi perseguiti dal Custodi per realizzare tali «fatti storici», è fornita dai tre abbozzi sopravvissuti. L'opuscolo, mutilo, e contraddistinto dal titolo Pro monialium Medę iuribus super ecclesia parochiali S. Marię et Sebastiani eiusdem burgi res ita se habent a 776 ad 1737, è la versione 'in bella copia', limata e scremata, del fascicolo polemicamente intitolato Veritas oprimi potest, vinci non potest: in entrambi viene imbastita una minima trama storica attraverso la successione di sunti, più o meno minuziosi, dove il riferimento ai singoli documenti è contraddistinto da una progressione alfabetica (che non coincide, tuttavia, con quella vergata sulle camicie cartacee), in un caso, da una serie numerica, nell'altro. Il Trasonto italiano riguardante documenti vari relativi ai diritti del monastero sulla chiesa di S. Maria (nulla più di un brogliaccio di fitti appunti tormentati e disorganici) denuncia, invece, aperti intenti didascalico-narrativi, rivolgendosi a un ipotetico lettore e indulgendo a digressioni esplicative: nelle intenzioni dell'autore, probabilmente, avrebbe dovuto confluire in una pubblicazione di carattere erudito.

Se l'aspirazione del Custodi andò frustrata, fu, con tutta evidenza, a causa della lite che lo contrappose al cenobio. I suoi sforzi, tuttavia, non rimasero sterili. Gran parte del materiale da lui predisposto fu utilizzato e riorganizzato secondo una trama opportunamente mirata, dall'anonimo autore milanese della Risposta al papele [111]. Un anonimo che per confutare e screditare l'Estratto delle spese attinenti alle campane della Chiesa parrocchiale del luogo di Meda - un rendiconto steso dai medesi durante la vertenza del 1737 per dimostrare «le ragioni di fatto, che militano a favore della Comunità nell'azione intentata contro di essa dalle RR. MM. del Venerando Monastero di S. Vittore» [112] - mette in campo la sterminata documentazione medese, contro un antagonista - la comunità di Meda - che si sarebbe servito solo di «Libri non più ch'economici... sfasciati, e malconci, in qualche luogo mancanti non solamente di fogli, ma ben d'interi quinterni... non conservati in pubblico Archivio, né... "Esistenti presso della medesima Chiesa" [113]; ma trattenuti... in casa di chi fa la figura di Parte», non senza rinunciare alla civettuola tentazione di prendere le mosse e accomiatarsi citando Marziale e Orazio [114]. Un anonimo, dunque, che per cultura, sensibilità archivistica e capillare conoscenza del patrimonio documentario medese, potrebbe essere identificato nel Custodi stesso. Il condizionale, in questo caso, è di rigore, dal momento che la Risposta al papele venne data alle stampe nel 1740, quando, cioè, i rapporti tra le monache e il professionista milanese parrebbero ormai irrimediabilmente incrinati. A quest'ultimo proposito, tuttavia, non va dimenticato che ancora nell'autunno del 1739 - un paio di anni dopo, cioè, l'inizio della vertenza - le fatiche storiografiche del Custodi non potevano dirsi definitivamente compiute, se il lodo arbitrale del 25 settembre aveva previsto che il notaio consegnasse al curato Stefano Simonetta, procuratore del monastero, «copia del fatto istorico italiano, non ancora terminato, in quello stato nel quale si ritrova», e al tempo stesso si impegnasse a terminarlo, qualora le monache ne avessero fatto richiesta [115].

Tanto interesse nei confronti di un modesto libello polemico non sembri sproporzionato: per quanto faziosa e farraginosa possa essere, infatti, la Risposta al papele fu per secoli il solo resoconto ben documentato e fruibile extra claustrum intorno ad alcuni momenti della storia di S. Vittore, il solo in grado di garantire l'immissione nei circuiti storiografici delle bolle conservate nell'archivio monastico.

III) La presente edizione.

Per rendere meglio percepibile quel vincolo che rende davvero 'parlante' qualsiasi materiale archivistico, inserendolo nel suo più profondo contesto vitale, sono state qui accolte tutte le litterae del secolo XII appartenute al tabularium medioevale di S. Vittore: anche le litterae già note, dunque, compresa quella oggi conservata presso l'abbazia S. Benedetto di Seregno [116], ma che un ampio corredo settecentesco ricollega, senz'ombra di dubbio, all'originaria sede medese. E altrettanto dicasi per le litterae deperdite, nondimeno restituite da citazioni erudite e traduzioni.

Numerose lettere, tuttavia, sarebbero rimaste mute senza un'adeguata appendice documentaria d'appoggio. I criteri che hanno guidato la selezione di quanto propongo sono ovviamente soggettivi, riconducibili tuttavia ad un'unica istanza: ricomporre un articolato 'tessuto connettivo' che giovasse a una miglior comprensione dei testi e degli avvenimenti. In particolare, si è dato spazio alle testimonianze documentarie relative a S. Maria, non solo per disporre in bell'ordine, uno dopo l'altro, i primi anelli superstiti di una catena che tocca uno snodo essenziale negli anni Settanta del secolo XII, ma anche per fornire un'idea concreta, per quanto imprecisa, delle premesse che l'archivio poteva fornire in merito alle peculiarità giurisdizionali della chiesa e all'elezione dei suoi sacerdoti. Non si poteva, perciò, tralasciare l'edizione dei superstiti cenni alle due permute degli anni 1077/1078, dubbie sì, ma fin'ora ignote, e, pertanto, preziose integrazioni al corpus documentario del secolo XI fino ad oggi ricomposto [117]. Né si poteva omettere quel particolarissimo rompicapo diplomatistico che è costituito dalla sentenza emanata da Robaldo nel 1138, già pubblicata sulla base di una copia di oltre mezzo secolo più tarda, ma tràdita da un discreto numero di testimoni dalla storia decisamente 'vissuta'. Si noti - per inciso - che ben quattro documenti su sette hanno una genesi di matrice vescovile e possono costituire, dunque, un apporto, seppur esiguo, al progresso della diplomatica episcopale milanese, disciplina assai poco frequentata, fino a quest'ultimo decennio, anche a ragione di una non trascurabile penuria di fonti edite [118].

Non è il caso di indugiare sui criteri editoriali adottati: fatta eccezione per lievi modifiche già sperimentate altrove [119], mi sono attenuta a quelli seguiti dal Volpini per le Additiones Kehrianae, poi accolti e rivisitati in occasione delle più recenti fatiche editoriali [120].

In consonanza a una prassi consolidata, ho accolto, nelle note introduttive ad ogni edizione, una sezione dedicata a quei contributi, anche marginali o divulgativi, che nelle loro argomentazioni hanno utilizzato il documento di volta in volta edito, riservando ad esso vuoi una rapida segnalazione, vuoi una più ampia e meditata riflessione. Operazione rischiosa - me ne rendo conto - consapevole come sono che lo spoglio bibliografico è ancora ad uno stato aurorale, né mai, forse, potrà dirsi definitivo, di fronte al mare magnum di una produzione erudita e storiografica non sempre facilmente dominabile; eppure operazione necessaria, qualora si voglia lasciar intravedere, anche con poche indicazioni di minima, gli innumerevoli risvolti, e le altrettante, possibili piste di ricerca, che ogni documento qui edito schiude [*].

Note

[1] Sempre utile la consultazione delle ormai 'classiche' pagine dedicate, con finalità essenzialmente didattiche, alla diplomatica pontificia dal RABIKAUSKAS, Diplomatica pontificia, e dal FRENZ, I documenti pontifici; alla Bibliografia di quest'ultimo volumetto rinvio per una panoramica sulla copiosa produzione specifica anteriore al 1986 (pp. 99-129). Ricco di spunti anche il poderoso Handbuch der Urkundenlehre für Deutschland und Italien di Harry Bresslau, oggetto di una tormentata vicenda editoriale e tradotto recentemente in lingua italiana (Manuale di diplomatica, pp. 171-314).

[2] Regesta pontificum Romanorum e Italia pontificia. Sullo Jaffé: BRESSLAU, Geschichte der Monumenta Germaniae Historica, ad indicem; BATTELLI, Jaffé, Philipp; COTHENET, Jaffé (Philipp); Jaffé (Philipp). Profili bio-bibliografici del Kehr: HOLTZMANN, Paul Fridolin Kehr; PALUMBO, L'editore dell'Italia pontificia; FLECKENSTEIN, Paul Kehr; AUBERT, Kehr (Paul Fridolin); ESCH, Die Lage; ID., La scuola storica tedesca, pp. 79-81; S. WEISS, Paul-Kehr-Bibliographie; quanto ad alcuni particolari aspetti della sua attività storiografica: BRESSLAU, Geschichte der Monumenta Germaniae Historica, pp. 590, 654, 671, 682, 684, 713, 723, 748; HOLTZMANN, Paolo Kehr e le ricerche archivistiche; FELDKAMP, Pius XI. und Paul Fridolin Kehr.

[3] VOLPINI, Additiones Kehrianae, I e II.

[4] ACM XIII, IV, docc. nr. 547 (1291 settembre 22), che ricorda «plura privilegia data a sede apostolica ipsi monasterio de honore et districtu curtis de Faroa seu de Fadra», e nr. 765 (1300 febbraio 26), dove si fa cenno a «duo privilegia papalia in favorem dicti monasterii data et facta, in quibus inter cetera continetur curte de Nobiano cum honore et districtu suo esse illius monasterii».

[5] Senza volerne fare un censimento sistematico, segnaliamo qui almeno la lettera di Bonifacio VIII (12 febbraio 1295) richiamata dal TAGLIABUE (Origine, p. 33, e Seregno nelle pergamene, p. 430).

[6] Trattando di storia di monasteri, è impossibile passare sotto silenzio alcuni contributi (oltre a quelli raccolti in Monasteri e nobiltà, specialmente Lo storico e i fondi diplomatici, anche La vita della comunità monastica, Monasteri e comuni in Toscana, Federico II e l'Italia) di Wilhelm Kurze, che, proprio del metodo statistico - applicato però ai fondi archivistici tout court, e, in particolare ai più diffusi documenti privati, più cospicui e, pertanto, più significativi - aveva fatto un insostituibile grimaldello per decifrare l'evoluzione di cenobi e di famiglie monastiche attraverso l'individuazione di 'punti nevralgici' problematici.

[7] Al momento, mi sia consentito rinviare, per una più dettagliata disamina dei singoli contributi, al primo capitolo della mia tesi di dottorato (Un monastero tra città e contado); aggiungo qui solo due rinvii bibliografici recenti: uno di maggior respiro, in ordine alla temperie culturale e spirituale di fine Cinquecento (Carlo Borromeo e l'opera della 'grande Riforma'); l'altro - in realtà, una spigolatura, piuttosto marginale nell'economia del contributo (GOMARASCA, La biblioteca manoscritta di Giovanni Pietro Italiano, pp. 301 e nota 69, 307) - relativo al precoce e concreto successo che il Bugatto riscosse con l'Historia et origine della terra di Meda.

[8] Accuratamente rievocata dal MENANT, La conoscenza del medioevo; quanto all'esempio milanese di S. Ambrogio, AMBROSIONI, Per una storia, pp. 295-305, mentre per l'Italia nord-orientale, CAVAZZANA ROMANELLI, Archivi monastici.

[9] Si veda, in proposito, ALBUZZI, Meda 1252, pp. 20-21; il Sassi, comunque, aveva intrattenuto autonomi rapporti col monastero di S. Vittore almeno fin dal 1734, figurando, in quell'anno, come mediatore nella causa tra le benedettine e la Scuola del SS. Sacramento di Meda (Risposta al papele, p. [18]).

[10] Cenni sul tratto finale della parabola del cenobio medese in: ALLIEVI, Per una storia di Seveso, pp. 123-127; ZOPPÉ, Per una storia di Meda, pp. 233-241; ORSINI, Il monastero di San Vittore in Meda, pp. 52-54; BUSNELLI, Il tramonto di un monastero patrizio, specialmente pp. 161-165. Quanto alla sorte occorsa all'edificio monastico e, in special modo, al tabularium, rinvio ad ALBUZZI, Il tabularium delle benedettine, pp. 57-58, e ad EAD., Meda 1252, pp. 16-17.

[11] KEHR, Italia pontificia, VI/1, p. 138.

[12] BERETTA, Il monastero, p. 321 nota 1; a proposito del Beretta, si vedano, al momento, le rapide rievocazioni di vita e di studi proposti dal CONFALONIERI, Lo storico con la tonaca, dal COLOMBO, Un maestro di storia, e dal VIGANÒ, Bibliografia, oltre alla nota del RONZONI, Libri e saggi, e all'Opera omnia recentemente digitalizzata su CD. Non va dimenticato, comunque, che allo studioso brianzolo si deve un ben più articolato, e meglio informato, profilo storico di S. Vittore, propiziato dalla Recensione ad ANTONA TRAVERSI, Per le nozze.

[13] Qualche nota su don Rossi, che, originario di Giussano, per quasi vent'anni coadiutore a S. Fedele in Milano, poi parroco a Cinisello Balsamo, fu anche confessore di Alessandro Manzoni, in VISMARA, Le ultime ore, pp. 418-419, e nella miscellanea La chiesa di Sant'Eusebio, dove, oltre ad un breve profilo ([CASSANELLI], Due testi, p. 97), sono editi lettere e appunti (CASSANELLI, Le vicende edilizie, pp. 91-92), nonché un opuscolo (La chiesuola di Sant'Eusebio, pp. 98-102) del sacerdote brianzolo.

[14] ROSSI, Alberto da Giussano, p. 2.

[15] Il percorso che, in seguito, vide la bolla approdare all'abbazia di Seregno, è tratteggiato dal PICASSO, Una lettera graziosa, p. 132 nota 4.

[16] Milano, Archivio di Stato, Culto, Comuni, Meda, cart. 2403.

[17] Per un primo profilo biografico: ALLIEVI, Per una storia di Seveso, pp. 11-20.

[18] Ora radunati in ALLIEVI, Per una storia di Seveso, pp. 71-128.

[19] Sull'attività dell'Agrati in margine all'archivio di S. Vittore, ALBUZZI, Meda 1252, pp. 17-18.

[20] [ANTONA TRAVERSI], Per le nozze.

[21] ORSINI, Il monastero di San Vittore a Meda.

[22] In merito all'assetto materiale del tabularium monastico nella prima metà del Settecento, si veda ALBUZZI, Il tabularium delle benedettine, specialmente alle pp. 73, 75.

[23] ZOPPÉ, Per una storia di Meda, p. 71, e ORSINI, Il monastero di San Vittore a Meda, p. 59.

[24] VIOLANTE, Il monachesimo cluniacense, pp. 53-54 nota 102; ID., Pievi e parrocchie, pp. 367, 380, 396-397, 400, 401; ANDENNA, Aspetti e problemi, p. 367; ID., Territorio e popolazione, p. 35, 149.

[25] Cenni sulla chiesa pievana dei SS. Gervaso e Protaso di Seveso in: ALLIEVI, Per una storia di Seveso, pp. 59-70, 187-195; MADERNA, Seveso, pp. 104-106; VIGOTTI, La diocesi di Milano, pp. 330-331; VAZZOLER - ROSSI, Seveso. Si osservi, per inciso, che la rinuncia del 27 marzo 1140 edita nel presente volume (doc. nr. 4 dell'Appendice) è una bella, preziosa testimonianza relativa alla pieve e all'articolazione interna del suo clero. Già si erano affacciati, dalle pergamene dei secoli X e XI, nomi di preti «de hordine et plebe sanctorum Protaxii et Gervaxii sita loco Seuse» (Giselberto: CORBETTA - MARTEGANI, Storia di una pieve, doc. nr. 1, AP, I, docc. nr. 8, 91; Raimberto: AP, IV, doc. nr. 648). Già un giudicato del 1057 aveva alluso alla presenza di «presbiteris, diaconibus seu cepteris clericis cardinalibus eclesie plebe sancti Protasi et Gervasi sita loco Seuse» (AP, III, doc. nr. 396). Ma mai, prima d'ora, la documentazione di S. Vittore aveva restituito, così, nel dettaglio la comunità pievana, costituita, nel 1140, da un preposito, Giovanni, da almeno quattro preti, Giovanni detto Aroni o Azoni, Giovanni da Lentate, Giovanni detto Lue, Pietro da Lentate, e da due diaconi, Pietro e Arderico da Cesano, quasi tutti afferenti, quindi, a località del piviere (Lentate, Cesano).

[26] Nessun altro atto del sec. XI lascia trapelare un eventuale «potestas et dominium» di S. Vittore su S. Maria, benché non manchino, tra i superstiti, carte iudicati (AP, II, doc. nr. 253, 1036 agosto; III, docc. nr. 488, 1067 dicembre, e 537, 1073 aprile; IV, docc. nr. 553, 1075 gennaio, e 637, 1082 ottobre 9; ALBUZZI, Pergamene inedite, docc. nr. 3, 4, 5, 7) che si riferiscono anche alla chiesa o ai suoi «presbiteris, diaconibus et subdiaconibus seu ceteris clericis».

[27] A proposito di Robaldo, arcivescovo di Milano dal 1135 al 1145, oltre all'essenziale schedatura procurata dal SAVIO, Gli antichi vescovi d'Italia, pp. 490-501, e agli inquadramenti di ampio respiro tracciati dalla AMBROSIONI, Dagli albori del secolo XII, pp. 212-219, rimangono imprescindibili alcuni contributi di Pietro Zerbi: I rapporti di s. Bernardo di Chiaravalle; La Chiesa ambrosiana; Una lettera inedita; «Ad solita castela archiepiscopatus exivit?»; «Consuetudines et libertates Ecclesiae sibi commissae adhuc ignorans»; nonché la voce Robaldo nel Dizionario della Chiesa ambrosiana. Infine, per alcune tappe salienti dell'episcopato ambrosiano di Robaldo in rapporto a singoli enti ecclesiastici: PICASSO, L'origine; AMBROSIONI, Gli arcivescovi e la carità, pp. 54-57; BRIOSCHI, L'arcivescovo Robaldo; BASILE WEATHERILL, Il monastero di San Pietro di Cremella, alla quale rinvio (pp. 18-19 nota 2) anche per le referenze bibliografiche relative alle origini geografiche del presule.

[28] A proposito dell'espansione a Bovisio e a Bregnano, così come dei rapporti patrimoniali intessuti con alcune famiglie milanesi, in probabile dissesto finanziario, rinvio ad ALBUZZI, Per una prosopografia dei da Bovisio; per quanto riguarda l'affermazione nel Canturino, EAD., Vighizzolo, specialmente pp. 11-14; più in generale, primi ragguagli sulle operazioni economiche che videro coinvolto il monastero di S. Vittore nei primi decenni del secolo XII: EAD., Un monastero tra città e contado, I, Capitolo III: Il patrimonio fondiario del monastero di S. Vittore nella prima metà del secolo XIII: consistenza e gestione.

[29] Per una visione d'insieme, BARNI, La lotta contro il Barbarossa, pp. 57-106, e BORDONE, La Lombardia. In particolare, poi, sull'assetto e sugli schieramenti politici - complessi e sfaccettati - che andarono definendosi, specie in Milano, negli anni delle lotte tra Federico I e i comuni lombardi, FASOLA, Una famiglia di sostenitori, pp. 122-127, mentre per le smagliature che causò, nella gestione patrimoniale e nell'esercizio dei diritti giurisdizionali, la resa incondizionata dei milanesi al Barbarossa, così come per le incalzanti aspirazioni dei rustici che, negli ultimi decenni del sec. XII, rivendicarono con sempre maggior determinazione l'affrancamento dai domini loci: BARNI, Cives e rustici, nonché CHIAPPA MAURI, Tra consuetudine e rinnovamento, specialmente pp. 68-70.

[30] VIOLANTE, Pievi e parrocchie, pp. 397-404; ANDENNA, Aspetti e problemi, pp. 364-369.

[31] Sui tratti specifici dei borghi medioevali, CHIAPPA MAURI, Gerarchie insediative (in particolare, a proposito di Meda, pp. 284, 287).

[32] Solo a titolo esemplificativo, ricordo che più medesi - tra l'altro, quasi tutti ricordati anche nella sentenza del 16 aprile 1176, di cui alla successiva nota 35 - appaiono coinvolti, a diverso titolo, insieme al primicerio della Chiesa milanese e a tal Guarnerio de Curtenova, in un negozio dell'8 febbraio 1175 (DELLA CROCE, I, 9, ff. 271-272), relativo alle decime su Masciago e «Roate»: si tratta di Pietro Garaverna, Scotto de Gastaldo, Viviano de Plato, Ottone de Curte, Marchisio de Mercato, Giovanni Ferrarius e Roberto Alexandri.

[33] In merito a Galdino della Sala, oltre alla rassegna di atti approntata dal SAVIO, Gli antichi vescovi d'Italia; pp. 523-534, si tengano presenti le fondamentali ricerche del CATTANEO (Galdino della Sala) e dell'AMBROSIONI (Alessandro III, pp. 27-33; Gli arcivescovi e la carità, pp. 62-66; Milano e i suoi vescovi, pp. 305-308, 311-312, 325), nonché il sintetico quadro tracciato dall'ALBERZONI, Nel conflitto tra papato e impero, pp. 227-230.

[34] A proposito dell'episcopato di Algisio (1176-1185), senza tralasciare la ricognizione documentaria del SAVIO, Gli antichi vescovi d'Italia, pp. 535-540, si vedano: AMBROSIONI, Alessandro III, pp. 33-35; EAD., Gli arcivescovi e la carità, p. 63; ALBERZONI, Nel conflitto tra papato e impero, pp. 230-231, 248-249.

[35] ACM XIII, IV, doc. nr. 1, 1176 aprile 16.

[36] Su Ognibene, vescovo dal 1157 al 1185, mancando ancor oggi una valida monografia che ne illustri figura ed episcopato (si veda, in proposito, DE SANDRE GASPARINI, Istituzioni e vita religiosa, pp. 430, 486), è inevitabile richiamare BIANCOLINI, Notizie storiche, I, pp. 196-197; ID., Serie cronologica, p. 7; PIGHI, Cenni storici, specialmente II, pp. 28-38; BRUGNOLI, Il vescovo Ognibene; EDERLE, Dizionario, pp. 41-42; CERVATO, Diocesi di Verona, pp. 154-155, 157, 160-161, senza trascurare i dati raccolti dal SIMEONI, Documenti, pp. 68-71, dal CIPOLLA, Verona, e I primi accenni, pp. 324-327, 343, 350, 368, 375-376, 503-504, oltre che dal CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», pp. 35, 41-43, 81, 82, 122-124. Per Alessandro III, basti qui rinviare al sintetico profilo del BREZZI (Alessandro III), aggiornato dal PIAZZA.

[37] PADOA SCHIOPPA, La delega "appellatione remota", soprattutto pp. 179-181; ID., I limiti all'appello, pp. 402, 404.

[38] A proposito di Riprando, futuro vescovo di Verona (dal 1185 al 1189): BIANCOLINI, Notizie storiche, I, pp. 197-198; ID., Serie cronologica, p. 7; PIGHI, Cenni storici, specialmente II, pp. 35, 38, 39, 56, 64, 74-76; EDERLE, Dizionario, pp. 42-43; CERVATO, Diocesi di Verona, pp. 139, 160, 167-168 (per qualche occorrenza documentaria: KEHR, Italia pontificia, VII/1, pp. 240-241, docc. nr. 28, 32), mentre per Adriano, destinato a succedergli nella carica di arciprete: KEHR, Italia pontificia, VII/1, pp. 242-244, docc. nr. 38, 43, *45, *46; ROSSI SACCOMANI, Le carte, doc. nr. 26; CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», pp. 135-136.

[39] Anche in quest'occasione, si vedano almeno gli atti pontifici regestati dal KEHR, Italia pontificia, VII/1, pp. 262-264, nr. 15 e 16, oltre ai nr. 9, 11, *12, 13, 14; per la canonica regolare di S. Giorgio: CIPOLLA, I primi accenni; BISCARO, Attraverso le carte; CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», pp. 45-47; MILLER, Chiesa e società, pp. 38, 107, 109-111, 114-119, 123, 124, 149, 150, 152, 155, 158, 159, 184, 215, 218.

[40] Un «presbiter Trentinus» è menzionato, ad esempio, tra i canonici della cattedrale nel 1186 (CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», p. 136).

[41] Nerot parrebbe attivo in qualità di notaio e di giudice tra il 1147 e il 1186: FAINELLI, Consoli, podestà e giudici, pp. 235-236, 241, 244, 246, 250; CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», pp. 131, 136; LANZA, Le carte, docc. nr. 130, 131, 134, mentre Giselbertino, attraverso forti legami con i principali enti ecclesiastici cittadini e la conseguente acquisizione di castelli nel contado, contribuì in modo determinante alle fortune politiche del suo clan familiare, urbano da tempo, ma fino ad allora defilato nella vita socio-politica veronese (CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», pp. 16, 19-22, 87). Incerti ma probabili i legami familiari tra Wido Rubeus e quel 'Guidone Rosso' rettore di Verona tra il 1151 e il 1163, poi sempre sulla cresta dell'onda tra il 1163 e il 1174 (FAINELLI, Consoli, podestà e giudici, pp. 235-237, 241-245), mentre saranno probabilmente da escludere vincoli di parentela tra Turisendinus - antroponimo, per altro, piuttosto diffuso - e la potente famiglia dei Turrisendi, che proprio a cavallo tra il 1176 e il 1177 contavano, nelle loro file, un podestà, già rettore di Verona (CASTAGNETTI, «Ut nullus incipiat hedificare forticiam», pp. 22-24; ID., L'età precomunale, pp. 79-82, 89, 93-94, 97); sulla dinastia capitaneale, si vedano inoltre MONESE RECCHIA, Aspetti sociali ed economici, pp. 8-12; CASTAGNETTI, La società veronese, pp. 14-15, ID., Mercanti, pp. 32, 52, 63, 66, 151, 164; ID., Da Verona, pp. 351-355, 362-364, 367, 368, 374, 383, 417, 420, 422, 488, 489).

[42] In merito alle trattative tra Papato, Impero e comuni nella prima metà del 1177, AMBROSIONI, Le città italiane, specialmente pp. 45-50; LAUDAGE, Alexander III. und Friedrich Barbarossa, pp. 202-221; BORDONE, La Lombardia, pp. 371-374; per il periodo immediatamente successivo e, nello specifico, a proposito di taluni riverberi della situazione politica sulle disposizioni del concilio Lateranense III (1179), AMBROSIONI, Le città italiane, pp. 37-38, 40, 51; infine sul fitto tessuto di rapporti strategici intrecciati tra le città dell'Italia settentrionale, in particolar modo tra Milano, Bergamo e Verona, nel solco di tempo compreso tra la battaglia di Legnano e la pace di Costanza, HAVERKAMP, La Lega lombarda.

[43] La documentazione lo segnala attivo, oltre che come teste in alcuni atti consolari (ACM, docc. nr. 119, 128, 143), in vertenze di afferenza comasca: nella lite sorta tra il comune di Milano e il comune di Como per i confini del Seprio (ibidem, doc. nr. 73, del 3 settembre 1170), ad esempio, agisce quale arbitro eletto dalla parte milanese, mentre nell'appello mosso dall'abate di S. Ambrogio presso i rettori di Lombardia, Marca e Romagna contro una sentenza pronunicata dai consoli comaschi (ibidem, doc. nr. 118, del 15 settembre 1178) il «vir industrius» Arderico de Bonate fa quasi da perno tra il cenobio santambrosiano e i rectores stessi. Legato, evidentemente, alla curia milanese, come giudice, aveva deciso una causa relativa al monastero Maggiore di Milano e ad una chiesa di Arosio, alla presenza e per incarico del presule Oberto, il 6 giugno 1157 (edita in FONSECA, La signoria, pp. 155-158 e in CORBETTA - MARTEGANI, Storia di una pieve, pp. 59-62; cf., inoltre, AMBROSIONI, Il monastero di S. Ambrogio, p. 76).

[44] FASOLA, Una famiglia di sostenitori, pp. 125-126.

[45] Esattamente negli anni 1156 (ACM, doc. nr. 38), 1162 (ibidem, p. 542), 1169 (ibidem, doc. nr. 68), 1173 (ibidem, docc. nr. 84, 85, 87, 88), 1175 (ibidem, doc. nr. 97), 1177 (ibidem, docc. nr. 107, 108), 1179 (ibidem, docc. nr. 120, 121), 1181 (ibidem, docc. nr. 123, 125; ANSANI, Le carte, II, doc. nr. 263).

[46] ACM, docc. nr. 54, 136, 139 (1183 giugno 25, pace di Costanza), 148. Ulteriori spunti per una ricostruzione prosopografica relativa al curriculum e alla famiglia di Arderico in MENANT, Fra Milano e Bergamo, p. 178 nota 115; ID., Alle origini della società cremasca, p. 262 e nota 49; ID., Campagnes lombardes, pp. 335, 354, 364; ID., Nouveaux monastères, p. 308 e nota 170; MONZIO COMPAGNONI, Il «Rythmus», p. 387.

[47] Negli anni 1147 (ACM, docc. nr. 14, 15), 1151 (ibidem, docc. nr. 24), 1156 (ibidem, docc. nr. 37-39), 1177 (ibidem, docc. nr. 107, 108, 113), 1179 (ibidem, docc. nr. 120, 121), 1181 (ibidem, docc. nr. 123, 125; ANSANI, Le carte, II, doc. nr. 263), 1183 (ACM, docc. nr. 130, 131, 138, 141), 1185 (ibidem, docc. nr. 148-150), 1189 (ibidem, doc. nr. 165), 1192 (ibidem, doc. nr. 178); fino al 1199 è, inoltre, ricordato come testimone in sentenze consolari (ibidem, docc. nr. 80, 91, 97, 115, 119, 171, 188, 210), mentre nel 1194 risulta impegnato in missioni diplomatiche (ibidem, docc. nr. 184, 185). Per districarsi tra possibili omonimie - contro le quali ha messo in guardia la FASOLA, Una famiglia di sostenitori, p. 120 - gioverà ricordare che un «Ariprandus iudex», Ariprando Corbus, era attivo a Milano nel medesimo arco temporale: a lui si devono numerosi documenti rogati tra il 1147 e il 1174 (ANSANI, Le carte, I, docc. nr. 96, 159, 186, 195, 196, 198, 200, 216; BARONI, Le pergamene del secolo XII della chiesa di S. Lorenzo, doc. nr. 27; ZAGNI, Le pergamene del secolo XII della chiesa di S. Giorgio, docc. nr. 45, 49, 51; BARONI, Le pergamene del secolo XII della chiesa di Santa Maria, doc. nr. 10; AMBROSIONI, Le pergamene della canonica, docc. nr. 19, 65, 94).

[48] FASOLA, Una famiglia di sostenitori, pp. 119-120, 126.

[49] Il 6 ottobre 1173, ad esempio, deliberò in qualità di assessore dell'arcivescovo Galdino (ANSANI, Le carte, II, doc. nr. 234); tre anni prima, il 30 luglio, aveva presenziato a una sentenza emanata, su mandato arcivescovile, da Oberto, suddiacono della chiesa romana e arciprete di Monza (BARONI, Le pergamene milanesi, doc. nr. 3 di S. Vittore al Corpo, pp. 43-46); il 12 luglio 1174 avrebbe, invece, rappresentato il monastero di S. Celso in una controversia agitata dinnanzi ai consoli di Milano (ACM, doc. nr. 92), mentre il 14 agosto del medesimo anno sarebbe intervenuto quale testimone di una sentenza emessa da Galdino, in persona di Milone da Cardano, vescovo di Torino e arciprete della Chiesa milanese (ZAGNI, Le pergamene del secolo XII del monastero di S. Margherita, doc. nr. 18). Sarà, poi, da identificare con il nostro, l'«Arprandus iudex» citato il 21 ottobre 1170, al fianco di Guglielmo Borri, come teste in una lite tra il monastero Maggiore di Milano e S. Maria di Montano, risolta da Milone da Cardano, alla presenza del presule milanese (BARONI, Le pergamene del secolo XII della chiesa di Santa Maria, doc. nr. 11), e l'«Hariprando iudice» avvocato della chiesa di S. Pietro di Gerenzano in una finis et transactio del 21 aprile 1178 (BARBIERI - CASAGRANDE MAZZOLI - CAU, Le carte del monastero, doc. nr. 102).

[50] ACM, docc. nr. 113 (anno 1177), 290-292 (1206); tra il 1204 e il 1215 è ricordato, inoltre, come teste in sentenze consolari: ACM, docc. nr. 271, 274, 275, 277, 284, 343, 397.

[51] ACM, docc. nr. 139 (1183 giugno 25, pace di Costanza), 151 e 251 (patti con Cremona).

[52] Per alcune menzioni documentarie, che lasciano trasparire una sua convergenza di interessi con alcuni enti ecclesiastici (Chiesa milanese, S. Maria di Morimondo, S. Giovanni Battista di Monza) e famiglie eminenti, sia della città che del contado: ACM, docc. nr. 275, 276; BARONI, Le pergamene del secolo XII della chiesa di Santa Maria, doc. nr. 11; ANSANI, Le carte, II, docc. nr. 265, 326; AMBROSIONI, Le pergamene della canonica, doc. nr. 76.

[53] Fu, infatti, podestà a Faenza, nel 1185 (ACM, doc. nr. 147), e a Bergamo, nel 1228 (BATTIONI, Osservazioni, p. 124); in proposito, si vedano, inoltre, le note dell'ARTIFONI, I podestà itineranti, p. 42, e, per la famiglia Borri/Burri, OCCHIPINTI, Podestà «da Milano», p. 67, ALBINI, I podestà delle «quasi-città», p. 162, MAIRE VIGUEUR, Flussi, p. 980.

[54] FASOLA, Una famiglia di sostenitori, pp. 122-127; in particolare, per le simpatie filo-imperiali di un ente ecclesiastico come il monastero di S. Ambrogio, nettamente in controtendenza rispetto alla politica cittadina, negli anni di massimo attrito tra Milano e il Barbarossa: AMBROSIONI, Il monastero di S. Ambrogio, pp. 65-78.

[55] Più precisamente, negli anni '80/'90 del sec. XII, quando cioè anche i rapporti tra Milano e Impero, tra Impero e papato si eran fatti più distesi. Il solo intervento imperiale diretto, oggi superstite, data, infatti, al 23 novembre 1191, allorché Enrico VI ratificò la decisione dei suoi giudici, Ottobello Zendadarius e Passaguerra, in merito alla causa, di cui alla nota 75 (BISCARO, Gli appelli, pp. 247-248), ma a non troppo lontani «privilegia ab imperatoribus monasterio ipsa[rum] indulta» allude, come si dirà, anche Clemente III, in una lettera databile tra il 1188 e il 1190 (doc. nr. 11). Il quadro assume lineamenti ancor più nitidi e coerenti, qualora si dia credito alla testimonianza riferita dalle duecentesche Memoriae Mediolanenses (a proposito delle quali si veda BUSCH, Die mailänder Geschichtsschreibung, pp. 25, 99, 100), pur non cronologicamente impeccabile, ma piuttosto coerente con i passi paralleli di Tristano Calco (qui, forse ispirato da una fonte comune) e di Bernardino Corio. Secondo le Memoriae Mediolanenses, infatti, «imperator Henrichus et imperatrix Costantia iverunt in Apuliam... Et eodem anno (scil. 1195) dicta Constantia venit in Mediolano, et ospitata fuit in monasterio de Meda, et tunc erat graveda de Fedricho» (p. 400); così, mentre il Calco (Historiae patriae Liber XII, p. 259) si limita ad annotare, per l'anno 1195, che «sequens virum uxor Constantia, in cenobio Medae pernoctavit», il Corio (Storia di Milano, I, p. 282), anticipando l'episodio al 1189, propone una versione assai diversa nei dettagli, ma affine nella sostanza dei fatti: «... si partì (scil. Henrico) con Constantia, sua moglie, per andare in Alamania e la prima giornata fu allogiato nel castello di Meda». Per nulla chiari, invece, i rapporti tra il cenobio e la massima autorità temporale negli anni, anzi nei secoli precedenti: deperdito qualsivoglia atto reale o imperiale, non rimane, infatti, che il malcerto e sibillino riferimento del BUGATTO (Historia, [p. 11]) a due carte, da lui consultate, «la prima d'Arrigo secondo imperatore l'anno 1024; la seconda del 1078 essendo abbatessa donna Berlinda sotto la quale il detto imperatore fece quel suo privilegio», a proposito delle quali rinvio ad ALBUZZI, Un monastero tra città e contado, I, Capitolo I: Erudizione e storiografia.

[56] Per la sostanziale uniformità di atteggiamenti che sembra connotare i rapporti tra comune, monasteri e Chiesa di Milano negli ultimi decenni del sec. XII, rinvio alle sintetiche note di OCCHIPINTI, Monasteri e comuni, pp. 191-195 e alla bibliografia ivi citata. Quanto ai rapporti tra S. Vittore e i da Rho, cf. infra, note 88-90.

[57] Nelle sentenze consolari del 17 maggio e del 3 giugno 1178 (ACM, docc. nr. 115 e 116), agisce, nell'ordine, come fideiussore e come missus; è, inoltre, ricordato tra i testimoni alla sentenza emanata nel 1191 da Ottobello Zendadarius e Passaguerra, giudici «regie aule», oltre che tra gli intervenienti al giuramento della badessa Letizia seguito alla sentenza del solo Passaguerra nel 1192 (AATMeda, SVP, sec. XII, docc. nr. 186bis e 192; cf. BISCARO, Gli appelli, pp. 246-247 e [ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, p. 55).

[58] Ad esempio Rambotto, che agisce in qualità di missus abbaziale nella vertenza risolta dai consoli milanesi il 17 maggio 1178 (ACM, doc. nr. 115).

[59] Nella sentenza del 17 maggio 1178 (ibidem) e in quella pronunciata nel 1192 dal giudice imperiale Passaguerra (AATMeda, SVP, sec. XII, doc. nr. 192; cf. BISCARO, Gli appelli, p. 246 e [ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, p. 55); sempre come teste è menzionato in un altro atto consolare emanato il 30 novembre 1189 (ACM, doc. nr. 167), nella lite tra un certo Guifredo di Velate e l'arciprete di S. Maria del Monte.

[60] ACM, docc. nr. 54, 65, 139.

[61] HAVERKAMP, La Lega lombarda, pp. 159, 161, 162, 165, 167, 170, 171, 173.

[62] AMBROSIONI, Le città italiane, pp. 37-38, 45-50.

[63] PADOA SCHIOPPA, La delega «appellatione remota», p. 181.

[64] PADOA SCHIOPPA, La delega «appellatione remota», pp. 182-187; ID., I limiti all'appello, pp. 402, 404.

[65] Lo si arguisce dalla frequenza con cui il divieto di «infra parrochiam monasterii..., sine auctoritate ... archiepiscopi et assensu vestro, ecclesiam vel oratorium de novo construere, salvis tamen privilegiis et autenticis scriptis apostolice sedis», attorno al quale ruota la lettera di Alessandro III a S. Vittore, ricorre nella documentazione pontificia di fine secolo XII: per il pontificato di Urbano III, si veda AMBROSIONI, Monasteri e canoniche, pp. 609-610, 617-618. In merito a un esempio relativo al Milanese, rievocato, in seguito, dal BERETTA, Recensione, p. 160, e dall'AMBROSIONI, Il monastero di S. Ambrogio, p. 70 nota 59: GIULINI, Memorie, III, p. 781.

[66] ACM, docc. nr. 115 e 116.

[67] Ibidem, doc. nr. 115, p. 159; l'episodio è inquadrato entro il più ampio contesto della libera mobilità contadina nella seconda metà del secolo XII dal PANERO, Terre in concessione, p. 259. Circa una possibile omogeneità d'ispirazione tra le due sentenze e il XXIX capitolo del Liber consuetudinum Mediolani: BERETTA, Recensione, p. 160 nota 2, e CHIAPPA MAURI, Tra consuetudine e rinnovamento, p. 84.

[68] ACM, doc. nr. 116, p. 160.

[69] Sui movimenti di popolazione nel corso del sec. XII e sull'intenso dinamismo che modificò non poco l'assetto territoriale dell'Italia settentrionale, oltre al PANERO, Terre in concessione, pp. 154-187, 252-271, si vedano le miscellanee I borghi nuovi (in particolare SETTIA, Le pedine e la scacchiera) e Borghi nuovi e borghi franchi.

[70] Per i rapporti - a dire il vero, apparentemente non del tutto idilliaci - tra Alessandro III e i comuni della Lega lombarda, tra i quali Milano, dal 1178 al 1180: AMBROSIONI, Le città italiane, pp. 38-41.

[71] Sul presule, che resse la diocesi di Milano dal 1187 al 1195: SAVIO, Gli antichi vescovi d'Italia, pp. 543-549; AMBROSIONI, Gli arcivescovi e la carità, pp. 57, 58, 62, 63; EAD., Milone da Cardano. Per quanto riguarda Clemente III, oltre alla voce del PETERSOHN, Clemente III, si tenga presente il ritratto tracciato dallo ZERBI, Papato, pp. 9-62.

[72] ALBERZONI, Nel conflitto tra papato e impero, p. 233; per alcune occorrenze documentarie: SAVIO, Gli antichi vescovi d'Italia, pp. 544-546.

[73] Docc. nr. 7 e 9, emanati, rispettivamente il 7 dicembre 1181 e il 14 gennaio 1186 (o, meno probabilmente, 1187), da Lucio III e da Urbano III. A proposito di Lucio III, eletto il primo settembre 1181, si rinvia alla voce del MERLO, Lucio III. Su Uberto Crivelli, papa, con il nome di Urbano III, tra il 25 novembre 1185 e il 20 ottobre 1187, nonché arcivescovo di Milano (senz'altro dalla primavera del 1185 fino alla morte), si vedano ZERBI, Un inedito, pp. 127-128; AMBROSIONI, Monasteri e canoniche, e GRILLO, Urbano III, in merito ad alcuni momenti e tendenze guida del pontificato; SAVIO, Gli antichi vescovi d'Italia, pp. 540-543, AMBROSIONI, Il monastero di S. Ambrogio, pp. 77-81, EAD., Milano e i suoi vescovi, pp. 297, 306, 308, 325, e ALBERZONI, Nel conflitto tra papato e impero, pp. 231-233, quanto ai rapporti con la diocesi ambrosiana; ed, infine, CASO, I Crivelli, pp. 29-35, per una contestualizzazione dell'azione svolta da Uberto entro il più ampio profilo della famiglia originaria.

[74] Penso, in particolare, alla contesa per il «buscum de Bandarugo» (maggio 1189: AATMeda, SVP, sec. XII, docc. nr. 178-180), di cui costituisce senza dubbio una significativa avvisaglia la lite del 1188 tra alcuni homines di Barlassina (Pietrino de Poma, Girardino di Giovanni Pulicis e Pietrino de Asenago) e il camparo Civolla de Medda a proposito di sei buoi che Civolla stesso dichiarò «tulisse, quia eos in sua camparia invenit dampnum facientes in quodam busco et eos retinuisse...» ([ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, pp. 49-50).

[75] Le tappe del tortuoso iter sono scandite da uno scarno dossier (tre documenti in tutto) edito e commentato dal BISCARO, Gli appelli, pp. 219-233, 245-248, che, tuttavia, ragionando su copie settecentesche conservate nell'Archivio di Stato di Milano, da lui giudicate poco affidabili, alterò la successione cronologica degli avvenimenti. Originali - e copie coeve - alla mano, val dunque la pena fissare nuovamente i momenti salienti: poco prima del 24 gennaio 1191, una causa tra il comune di Barlassina e la badessa di S. Vittore circa il districtus esercitato dal monastero sul territorio e sugli uomini del luogo fu discussa, davanti ai consoli di Milano, e culminò con una sentenza di Nazario Vicecomes, consul Mediolani, che ordinò la prova del duello tra i testi delle due parti in causa; il monastero, naturalmente insoddisfatto dal verdetto, interpose appello alla curia imperiale, ma, nel frattempo, poiché la badessa «hanc remittere noluit appellationem», i consoli milanesi, tra i quali, Giacomo Gambarus, «contra ipsam dederunt sentenciam de toto negocio et illos de Barnassina a petitione ipsius absolverunt» (AATMeda, SVP, sec. XII, doc. nr. 190; cf. BISCARO, Gli appelli, p. 248), «et consules de Barnaxina responderent non esse ab illis sententiis nec ab aliqua earum appellatum» (AATMeda, SVP, sec. XII, doc. nr. 186bis; cf. BISCARO, Gli appelli, p. 247); a questo punto, S. Vittore si rivolse a Ottobello Zendadarius e a Passaguerra «regie aule iudices», che, il 24 gennaio, appunto, riconobbero «utramque appellationem esse factam» (AATMeda, SVP, sec. XII, doc. nr. 186bis; cf. BISCARO, Gli appelli, pp. 246-247) e «secundam sententiam consulum quam pendente appellatione dederant, ipso iure nullam esse pronuntiaverunt»; tuttavia, la sentenza dei giudici d'appello, pur confermata da Enrico VI, venne subito infirmata da Pietro «iudex potestatis Mediolani»: fu così che, il 23 novembre 1191, l'imperatore dovette nuovamente intervenire a ravvalorare le decisioni prese da Ottobello e da Passaguerra, cassando, nel contempo, la sentenza emanata da Pietro; finalmente, il solo Passaguerra, ormai «imperialis aule iudicem» (Enrico era stato incoronato imperatore il 15 aprile 1191), nei primi mesi del 1192 poté metter fine alla contesa, condannando i vicini di Barlassina in contumacia e sentenziando: «male iudicatum a prenominato Nazario et ideo bene appellatum a iamdicta sententia ab ipsa abbatissa et eius procuratoribus fore pronuntio et supradictum comune de Barnaxina et vicinos ... supradicte Letitie abbatisse condempno, ut de cetero per eam se distringant sicut districtabiles per suum dominum et hec secundum suam partem districti, quam ipsa abbatissa habet in loco et territorio de Faroa, si tamen iamdicta abbatissa iuraverit quod tota terra super quam locus de Barnaxina hedificatus est sive constructus est de territorio de Faroa» (AATMeda, SVP, sec. XII, doc. nr. 192; cf. BISCARO, Gli appelli, pp. 245-246 e [ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, pp. 54-55).

[76] È quanto si deduce, per lo meno, dal progressivo irrigidimento manifestato dagli ufficiali comunali di Milano (i consoli Nazario Vicecomes e Giacomo Gambarus, oltre che Pietro «iudex potestatis Mediolani») nella causa tra S. Vittore e il comune di Barlassina, di cui alla precedente nota 74; irrigidimento che, tuttavia, andrà forse messo in relazione più con la volontà dei milanesi di emanciparsi dalle superstiti paratie imperiali, piuttosto che con un atteggiamento pregiudiziale nei confronti del monastero medese. Per un sintetico profilo socio-politico della Milano di fine secolo, FRANCESCHINI, La vita sociale, pp. 115-136, e GRILLO, Milano in età comunale, specialmente pp. 644-646.

[77] I contenuti del districtus, così come, più in generale, le peculiarità della signoria territoriale in Italia sono stati oggetto in questi ultimi decenni - e lo sono tutt'ora - di un'efflorescente letteratura storiografica, che sarebbe ambizione velleitaria schematizzare in questa sede. Nonostante una possibilità di scelta assai ampia, mi limiterò, pertanto, a rinviare a essenziali esempi concreti, omogeni sia cronologicamente, sia geograficamente, al caso di S. Vittore e, quindi, funzionali non solo a una più consapevole comprensione, ma anche a un'analisi comparativa: il dominatus loci esercitato dal monastero di S. Ambrogio su Origgio (ROMEO, Il comune rurale) e su Cologno Monzese (SIRONI, Il districtus), oltre che quello detenuto dal monastero Maggiore nei confronti di Arosio (FONSECA, La signoria, e OCCHIPINTI, Il contado milanese); per quanto riguarda, nel dettaglio, Meda, si veda, per ora, ALBUZZI, Un monastero tra città e contado, I, Capitolo IV: La signoria rurale di S. Vittore di Meda nella prima metà del secolo XIII tra comunità locali e Milano.

[78] Il relativo dossier documentario è edito in ALBUZZI, Meda 1252.

[79] ALBUZZI, Meda 1252, p. 51.

[80] Cenni su Lomazzo, la sua storia religiosa, le sue fonti in CAZZANI, Gli archivi parrocchiali, pp. 61-107, e in COLOMBO - CAPPONI, Lomazzo. A proposito, invece, della pieve di S. Stefano in Appiano Gentile: VIGOTTI, La diocesi di Milano, pp. 110-113; COLOMBO - SPIRITI, Appiano Gentile; in particolare, per uno spaccato sui suoi rapporti con la canonica di S. Bartolomeo al Bosco, PICASSO, L'origine, oltre che, per un ambito cronologico più tardo, VILLA, Ottone Visconti.

[81] Sulla progressiva frantumazione dei diritti di decimazione ecclesiastica nel contado milanese, tra XII e XIII secolo: VIOLANTE, Pievi e parrocchie, pp. 386-390, 408-410; OCCHIPINTI, Il contado milanese, pp. 203-206.

[82] Sulla famiglia de Alliate, GRILLO, Milano in età comunale, pp. 320, 329, 374, 377, 381, 397, 418, 497 e 637.

[83] Si vedano, in proposito, alcuni ragguagli alla precedente nota 57.

[84] Agli inizi del Duecento - ad esempio - le decime di Lomazzo, procurando a S. Vittore un introito di oltre 100 lire, avrebbero permesso alle monache di estinguere debiti e di provvedere al pagamento di artigiani coinvolti nel completamento del «palatium novum monasterii» (ALBUZZI, Un monastero tra città e contado, II, Repertorio documentario [1201-1252], regesti nr. 34-36, 1208 febbraio 19 e 22).

[85] ALBUZZI, Per una prosopografia dei da Bovisio, pp. 221-222, 225-228.

[86] Un «Guilielmus iudex» è menzionato tra i consules negotiatorum del 1177 e tra i testi di una sentenza consolare del 1179 (ACM, docc. nr. 114 e 121); quanto a Stefano Menclozzi, più volte console tra il 1182 ed il 1188, AMBROSIONI, Il monastero di S. Ambrogio, pp. 70, 71, 73, e PERELLI CIPPO, Sulla linea dei cistercensi, p. 162 e nota 15.

[87] Fu lui, infatti, a profferire sentenza nella lite tra gli homines di Barlassina e il camparo Civolla de Medda il 15 dicembre 1188 ([ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, pp. 49-50).

[88] Consul iusticie nel 1170 (ACM, docc. nr. 75 e 76), è ricordato come teste in sentenze consolari del 1173 e del 1177, nonché come delegatus potestatis nel 1210 (ibidem, docc. nr. 85, 107, 335).

[89] Era figlia di Arderico de Raude Colomba, monaca di S. Vittore, che, con la consorella Bontade del fu Oldone de Brena, nel 1137 ottenne licenza di lasciare il monastero di S. Vittore e di andare «pro amore Dei et ut meliorem duceretur vitam» nella chiesa di S. Fedele, ubicata nel territorio di Tabiago, dove avrebbe vissuto «sicut decet et secundum regulam Sancti Benedicti», dopo aver rinunciato a quanto le spettava «per victum aut vestitum seu per habitationem aut per aliam quamlibet rationem» e a tutto ciò che aveva precedentemente affidato al monastero (AATMeda, SVP, sec. XII, nr. 61).

[90] Senza allontanarci troppo né dall'arco cronologico qui preso in considerazione, né dall'edito, ricordiamo che il diacono Anselmo non solo sottoscrive la sentenza di Robaldo del 1138 (doc. nr. 3 dell'Appendice), fatto di per sé non particolarmente significativo dal momento che il da Rho (a proposito del quale si veda anche la successiva nota 93) appartiene all'entourage del presule ambrosiano, ma agisce come «missus dominę Martinę abbatissę monasterii Sancti Victoris constructi in loco Meda» nella finis et refutatio del 1140 (doc. nr. 4 dell'Appendice), e rappresenta la badessa di S. Vittore in più occasioni, tutte particolarmente spinose (1137 settembre 13: AATMeda, SVP, sec. XII, nr. 61; 1144 settembre 18: [ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, pp. 31-33; 1146 marzo 13: AATMeda, SVP, sec. XII, nr. 81); Rambotto, esponente di spicco del ceto consolare milanese e, forse, padre di Allegranza, futura badessa di S. Vittore, venne scelto - come già anticipato - per rappresentare il monastero nella sentenza consolare milanese del 17 maggio 1178 (ACM, doc. nr. 115).

[91] Anche in questo caso, a puro titolo esemplificativo, Arnaldo «qui dicitur de Raude» è presente a una compravendita stipulata tra S. Vittore e il monastero milanese di S. Simpliciano nel 1138 ([ANTONA TRAVERSI], Per le nozze, p. 25); Bevulco e Ottolino de Raude sono ricordati tra gli intervenienti nella sentenza consolare del 17 maggio 1178 (ACM, doc. nr. 115); Rambotto e Ottone tra i testi della sentenza emanata nel 1191 da Ottobello Zendadarius e Passaguerra, giudici «regie aule» (AATMeda, SVP, sec. XII, doc. nr. 186bis; cf. BISCARO, Gli appelli, p. 247).

[92] Per qualche ulteriore ragguaglio sulla reciprocità di interessi e di intenti tra alcuni membri del clan familiare e S. Vittore: ALBUZZI, Un monastero tra città e contado, I, Capitolo II: Organizzazione interna e reclutamento nel monastero di S. Vittore durante la prima metà del secolo XIII. Manca, a tutt'oggi, un'indagine monografica dedicata alla famiglia nei secoli della sua affermazione tra le élites comunali milanesi; alcuni cenni su singoli esponenti in KELLER, Signori e vassalli, pp. 83 nota 27, 85 note 57 e 58, 186, 187, 349, 361 note 40 e 43, 364, e CASTAGNETTI, Feudalità e società comunale, testo corrispondente alle note 31, 102, 202, 209, 217, 223, 224, 228, 231, 233, 239, 243.

[93] Anselmo era ordinario della Chiesa milanese (si veda, in proposito, AMBROSIONI, Due chierici milanesi, pp. 110, 114-116; per altre occorrenze documentarie: CASTIGLIONI, Gli ordinari della metropolitana, pp. 26-27; MARTELLINI, Le pergamene, regesti nr. 15, 17, 18, 19, 20; AMBROSIONI, Contributo alla storia della festa, p. 96), mentre, tra i numerosi componenti della famiglia da Rho che ricoprirono la carica di console nel XII secolo, mette qui conto ricordare: Ottone, con tutta probabilità fratello di Anselmo e come lui messo della badessa Martina (1143, 1145, 1154: ACM, docc. nr. 9, 13, 30, 31 e pp. 538, 540), Bevulco (1173, 1183: ibidem, docc. nr. 88, 131), Rambotto (1179: ibidem, doc. nr. 121).

[94] Per l'abdicazione ai diritti giurisdizionali esercitati dal cenobio su Meda: ALBUZZI, Meda 1252, in particolare pp. 13-14, 22-26.

[95] ACM XIII, IV, docc. nr. 118-121, 124, 126, 131, 132, 317, 748, 754.

[96] Agli anni dell'abbaziato di Allegranza è dedicata, quasi per intero, la mia tesi di dottorato, ALBUZZI, Un monastero tra città e contado, I.

[97] Risposta al papele, p. [1].

[98] Per qualche dettaglio, è giocoforza rinviare all'ALLIEVI, Per una storia di Seveso, p. 90; ZOPPÉ, Per una storia di Meda, pp. 225-231; BUSNELLI, Il tramonto di un monastero patrizio, pp. 155-157, che, nella rapidissima ricostruzione della vicenda, si sono serviti essenzialmente della Risposta al papele. Nuovi spiragli di luce potranno essere gettati sull'intero svolgersi della vicenda, oltre che da uno studio sistematico degli atti processuali, anche dall'edizione commentata del Libro cronaca del monastero di S. Vittore di Meda, che il conte Luigi Antona Traversi sta approntando.

[99] Una ristampa anastatica dell'opuscolo, introdotta da una brevissima nota del Cajani, è stata accolta in Le vicende del monastero, pp. 9-49.

[100] È, per lo meno, quanto si evince dal Proemio, p. [1]: «per accertare... nella famosa pendenza sopra di quella Campana, che fece tanto rumore in ammendue li Fori di questa nostra Città», e p. [9]: «Compiuti sono tre anni, daché l'Insigne, Venerando Monistero di San Vittore di Meda, dalla comune aspettazione costituito fu verso il Pubblico debitore di un'adequata risposta a certo foglio stampato, e dappertutto sparso all'intorno nello scadere dell'anno 1737».

[101] Risposta al papele, p. [28].

[102] Risposta al papele, p. [8].

[103] ALBUZZI, Meda 1252, pp. 19-22.

[104] Edito in ALBUZZI, Il tabularium delle benedettine, pp. 73-77, andrà probabilmente identificato con la «Distribuzione de' casetti per archivio per le scritture», ovvero con l'«abozzo dell'archivio del mon(aste)ro» che il Custodi reclamava per sé, in quanto avrebbe potuto servire «di dettaglio per altri» (Inventario 1738, nr. 64).

[105] In larga parte deperditi, sono quelli evocati dall'Inventario 1738, nell'ordine al nr. 58, 60, 63, 65, 66, 67: «Principii di tre somarii delle scritture del mon(aste)ro», che, a detta del Custodi, non sarebbero dovute spettare alle monache, perché superflui, essendo il monastero già dotato di un «somario italiano sopra li instrumenti» consultabile in archivio, ma, soprattutto, in quanto destinati «all'Archivio dell'Arcivescovato, in vigore d'ordine dell'em(inentissi)mo Erba autto nella facoltà di formar l'archivio»; «Sumarium instrumentorum emptionum factarum etc.»; «;Privilegiorum mon(aster)ii Medę etc.»; «Sumarium scripturarum mon(aster)ii Medę pro beneficio de Mensa etc.»; «Quinterno (secun)do sumariorum scripturarum viccarię Sanctę Marię»; «Casetto D. 4», anch'esso un «somario», ricordato anche nell'Inventario 1739 (p. [10]) come «Carta cui titulus Cass. D.4.». Quest'ultimo, con tutta probabilità, relativo al cassetto ov'erano custoditi «Donazioni, Testamenti, Codicilli, Legati sempl(ic)i e perpetui dal 1011 inante» (ALBUZZI, Il tabularium delle benedettine, p. 74), sarà da riconoscersi nel Quinterno testamenti.

[106] È quanto si desume, ad esempio, dall'Inventario 1738, che, al nr. 3, ricorda: «copie sei, cioè copie n° 2 di due foglii, e altre quattro d'un solo foglio, scritture cavate dall'Archivio dell'Arcivescovato di Milano, sottoscritte dal sig. Sisino, archivista, con entro n° 2 disegni di chiesa e con memoriale», mentre al nr. 163 dà conto di «n° 53 pezzi di scritture cavate dall'Archivio dell'Arcivescovato di Milano».

[107] Paradigmatica, quella «Scrittura che comincia: De SS. Aymo et Vermondo...» (ossia, come glossò lo stesso Custodi, «l'estratto del Bollandi») ricordata al nr. 16 dell'Inventario 1738. Dello medesimo tenore sarà stata l'«altra scrittura che comincia: Passione di beatissimo S. Vittore martire», al nr. 59 del medesimo inventario.

[108] Ecco allora la «Dissertazione che comincia: La cura di S. Maria», «autta e copiata dal Custodi», o la «Racolta di molte ragioni spettante al monastero s(opr)a la vicaria», registrate, rispettivamente, ai nr. 57 e 162 dell'Inventario 1738; o ancora, il «Mazzo di scritture intitolato: Fatti ed allegazioni e motivi legali spettanti alla vicaria di Meda sino l'anno 1705, segnat. D», «Altro mazzo di scritture intitolato: Chiesa di S. Maria di Meda, sua fabrica, e restaurazioni, e scritture comprovanti il privativo diritto sopra la medesima a favore del monastero di S. Vittore di Meda...», «Mazzo di scritture spettanti alla processione, non volevano fare quelli di Meda l'anno 1692, fatta poi 1704..., segnat. M», «Scritture spettanti alli sepolcri esteriori esistono fuori della chiesa di S. Vittore di Meda per gli parrocchiani, con due memoriali sporti dal monastero a monsignor vicario generale...», «Diverse scritture, e memorie volanti attinenti alla vicaria di Meda di puoco intrinseco valore, segnat. I», «Mazzo di lettere concernenti la lite seguita in Roma l'anno 1705..., segnat. L», «Scritture spettanti alla chiesa esteriore di S. Vittore di Meda...», «Scritture spettanti a certo sepolcro, che aveva la famiglia Asnaghi nella chiesa di S. Vittore...», «Scritture spettanti alle reliquie, che si conservano nella chiesa di S. Vittore...», «Mazzo di scritture spettanti alla spesa fatta per il deposito de i santi Aymo e Vermondo, messa dei stessi santi in stampa, ed ottenuta licenza per celebrar detta messa l'anno 1689, segnat. N», «Mazzo di scritture intitolato: Memorie instrumentali di diversi secoli fatti dal monastero di Meda, rogati da diversi notari, segnat. V», censiti nell'Inventario 1739, pp. [7], [9]-[11].

[109] Di quelle sopravvissute, sulla base delle segnature, si può agevolmente ricostruire l'ordine, sia quest'ultimo, concreto risultato dell'attività del Custodi o, piuttosto, più tarda conseguenza diretta: A, Carta finis et refutationis, 1140 marzo 27, Monza (doc. nr. 4 dell'Appendice); B, Alexandri papae III litterae executoriae, <1176> giugno 10, Anagni (doc. nr. 2); C, Alexandri papae III litterae executoriae, <1176> giugno 15, Anagni (doc. nr. 3); D, Omneboni Veronensis episcopi sententia, 1177 marzo 14, Verona (doc. nr. 5 dell'Appendice); E, Alexandri III papae litterae gratiosae, <1177> aprile 28, Ferrara (doc. nr. 4); F, Algisii archiepiscopi Mediolani litterae executoriae, <1177 marzo 14 - aprile 28> (doc. nr. 6 dell'Appendice); G, Alexandri papae III litterae gratiosae, <1173, 1174, 1176> maggio 22, Anagni (doc. nr. 1); I, Alexandri papae III litterae executoriae, <1178, 1180> ottobre 12, Tusculum (doc. nr. 5); L, Alexandri papae III litterae gratiosae, <1178, 1180> ottobre 12, Tusculum (doc. nr. 6); M, Lucii III papae litterae gratiosae, <1181> dicembre 7, Roma (doc. nr. 7); N, Urbani III papae litterae gratiosae, <1186, 1187> gennaio 14, Verona (doc. nr. 9); O, Clementis III papae litterae executoriae, [1188-1190] aprile [6-12], Laterano (doc. nr. 11).

[110] L'Inventario 1738 ne rammenta alcuni (nr. 62, 63, 68, 90), spesso esemplati in almeno tre copie, e genericamente definiti «Factum historicum», «Factum historico-iuridicum», «Fatto istorico del sig(nor) d(ottor) Custodi», «Tre scartapazi di fatto istorico italiano», oltre a «Varii abozzi di scritture» (ibidem, nr. 83) e all'«Abozzo d'un fatto che comincia: Qui custodit veritatem etc.» (ibidem, nr. 152), scritto, quest'ultimo, che andrà senza alcun dubbio identificato con l'opuscolo tutt'oggi conservato nell'archivio Antona Traversi e citato nel presente volume come: CUSTODI, Veritas oprimi potest.

[111] Per limitarci alla documentazione qui edita, non sarà certo un caso che i soli due estratti del privilegio di Robaldo del 1138 citati dalla Risposta al papele (pp. [8] e [13]: «His ita peractis, tot evidentibus atque perspicuis fulti rationibus, sæpe memoratam capellam ad ius et dominium ex integro prædicti monasterii pertinere diffinitiva decrevimus sententia» e «Ut inibi sacerdotes qui divina celebrant officia et populum spiritualiter regant atque gubernent, abbatissa quæ pro tempore fuerit sua ponat auctoritate unumquemque voluerit, iure concedimus perpetuo») coincidano alla lettera, nonostante un lievissimo scarto di varianti ortografiche, con quelli fedelmente trascritti nel Veritas oprimi potest, e nel Pro monialium Medę iuribus.

[112] Risposta al papele, p. [22].

[113] Risposta al papele, pp. [26]-[27].

[114] Rispettivamente alle pp. [7] (Epigr. II 77, 7) e [38] (Ep. I 3, 18-20).

[115] Un succinto estratto del lodo arbitrale, «fatto, scritto e sottoscritto» da Carlo Antonio Birago, è inserto nell'atto del 20 ottobre 1739, al quale ho fatto riferimento per l'Inventario 1739.

[116] La presentazione di alcuni tra i fondi, entro i quali è articolato l'archivio abbaziale, è proposta dal CATTANA, Documenti storici.

[117] AP, I, docc. nr. 5, 8, 91, 115; II, 191, 253, 268, 278, 291, 318, 341; III, 384, 396, 407, 454, 455, 465, 470, 473, 475, 483, 484, 487, 488, 537, 543; IV, 553, 555, 562, 564, 576, 587, 599, 602, 610, 614, 637, 648, 652, 653, 683, 684, 722, 734, 753, 790, 798, 821, 839, 844, 881, 886; ALBUZZI, Pergamene inedite, docc. nr. 3-7.

[118] Oltre alla rapida sintesi 'per campione' fornita dalla BARONI, La documentazione arcivescovile milanese, pp. 305-317, non esiste a tutt'oggi un'analisi sistematica delle peculiarità e dell'evoluzione della diplomatica arcivescovile milanese. Sono, invece, disponibili trattazioni parziali, dedicate a tranches cronologicamente delimitate o a ben precise serie documentarie: ad esempio, il BASCAPÈ (Antichi diplomi, sul quale si vedano le osservazioni del CENCETTI, Note di diplomatica vescovile, pp. 149-150) ha spaziato, nelle sue ricerche, entro gli atti conservati nell'archivio dell'Ospedale Maggiore; mentre la ZAGNI (Gli atti arcivescovili milanesi e Note sulla documentazione arcivescovile milanese) ha riconsiderato il periodo più antico (fino al sec. X) e la BARONI (Ottone Visconti, Gli atti dell'arcivescovo... Ottone Visconti e Leone da Perego) gli anni da Leone da Perego a Ottone Visconti.

[119] ALBUZZI, Meda 1252.

[120] Ad esempio ANSANI, Le carte, I e II, oltre che BARBIERI - CAU, Le carte del monastero.

[*] Non per civetteria, né per ubbidire ad un copione rituale e stereotipato, ma in virtù di un autentico sentire, mi sia consentito ricordare tutti coloro verso i quali, prima e durante la realizzazione di questo volume, ho contratto un inestimabile debito di gratitudine. Raffaello Volpini e Giorgio Picasso, innanzitutto, alla cui ben nota maestria e generosità non comune devo incoraggiamenti e incisivi consigli. Luigi, Federica e Giovanni Antona Traversi, solerti custodi di un preziosissimo scrinium, che, con premurosa cordialità e fine cultura, hanno reso agevole e proficua ogni mia incursione archivistica, e più lieve la fatica. Il Rotary Club di Meda e delle Brughiere e, in particolare, i presidenti che si sono avvicendati, da Alessandro Clerici, che con entusiasmo ha accettato di patrocinare l'iniziativa editoriale, fino ad Armando Manera, che si è impegnato con tenacia perché il lavoro giungesse a definitivo compimento. Senza dimenticare chi, in tempi e modi diversi, sempre con pazienza e intelligente sensibilità, ha condiviso almeno un tratto del cammino: un semplice ma sincero grazie, dunque, ad Andreina Bazzi, Martina Basile Weatherill, Guido Cariboni, Gianmario Ferraris e Giuseppe Motta.

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