diocesi sec. IV - sec. XX

La fondamentale e organica circoscrizione territoriale della Chiesa cattolica è la diocesi. Nei documenti del Concilio Vaticano II i riferimenti alla diocesi, quale “base organizzativa delle chiese particolari, con a capo un vescovo”, assumono una valenza semantica assai vasta. Essi possono indicare infatti un semplice dato territoriale; il gruppo umano vivente in un’area determinata, con il suo contesto sociale, culturale e religioso specifico prodotto dalla storia; la connotazione cristiana del gruppo umano locale, come comunità liturgica e missionaria o come comunità carismatica e gerarchica, con le sue esperienze di fede, di culto, di disciplina, di spiritualità (Bertone 1983).

Il Codice di diritto canonico del 1983 adombra, per quanto riguarda l’aspetto strutturale-organizzativo, l’iter giuridico di formazione della diocesi, a partire dal momento della cristianizzazione del territorio (Midali 1983). Nei luoghi di missione, prima che sia stabilita la normale organizzazione ecclesiastica, vengono istituite le prefetture apostoliche e in seguito i vicariati apostolici, il cui governo è dato, rispettivamente, ai prefetti e ai vicari apostolici. A costituire, modificare e sopprimere le circoscrizioni diocesane e quelle a esse equiparate, cioè le abbazie nullius e le prelature nullius, è competente, a norma del diritto canonico vigente, esclusivamente il pontefice.

Le diocesi, salvo qualche eccezione, sono raggruppate in province ecclesiastiche dirette da un vescovo metropolita che porta il titolo di arcivescovo. Esistono diocesi indipendenti dalle province ecclesiastiche e immediatamente soggette alla Santa Sede, che sono dette diocesi esenti. L'azione della Santa Sede e della Curia Romana si esercita direttamente su ciascuna diocesi, senza intermediazione del metropolita. Le diocesi a loro volta si suddividono in parrocchie, nell’ambito delle quali attende alla cura d’anime un parroco o curato (rector). Dall’epoca successiva al Concilio di Trento, per meglio esercitare su tutta la diocesi e sulle parrocchie il proprio governo, il vescovo può raggruppare in distretti più parrocchie, affidandone la sorveglianza a un vicario foraneo; nell’epoca contemporanea, in particolare dopo il Concilio Vaticano II, l’organizzazione vicariale è stata rinnovata o sostituita da articolazioni diverse, come i decanati e le zone pastorali.

VESCOVO DIOCESANO

Nell’ordinamento canonico vigente, il papa nomina liberamente i vescovi in tutta la Chiesa latina. Nei primissimi secoli di vita della Chiesa e nell’alto medioevo, il vescovo veniva solitamente scelto tra il clero diocesano, ed era spesso un prete o un diacono della chiesa maggiore, eletto dal popolo e dal clero. Tentativi di ingerenza politica nell’elezione dei vescovi si ebbero con più frequenza a partire dall’età longobarda, e con maggior forza nel periodo carolingio, in coincidenza con il progressivo coinvolgimento del vescovo da una parte in funzioni politiche e amministrative sulla città e anche nell’amministrazione centrale del regno, dall’altra con l’affermazione dei legami feudali, secondo un percorso chiusosi con l’età ottoniana e salica. Dopo la lotta per le investitute conclusasi con il concordato di Worms nel 1122, le normali elezioni vescovili tornarono a clero e popolo, ovvero, con modalità diversamente applicabili, al diritto riservato ai canonici titolari della chiesa cattedrale. In passato, meno frequentemente nell’epoca contemporanea, i concordati riconoscevano ai sovrani, in seguito ai capi di stato, il diritto di designare i vescovi. Ancora oggi la Santa Sede ammette che l'autorità secolare possa interessarsi della scelta dei vescovi, concedendo un diritto di consultazione al governo che lo solleciti. In virtù di tale accordo, la Santa Sede si impegna a comunicare al potere civile il nome del candidato che ha intenzione di elevare all'episcopato, autorizzando il governo a formulare, se è il caso, le obiezioni di ordine politico che potrebbe sollevare la nomina. Ma qualunque sia il modo di designare i candidati, la collazione dei poteri propriamente detti di ordine e di giurisdizione dipende dalla competenza esclusiva della Santa Sede.

La fonte unica da cui i vescovi ricevono qualsiasi loro ufficio e da cui derivano la sacra potestà è Cristo stesso, e non il papa. La sacra potestà di cui è dotato il vescovo e che egli esercita nel nome e nell’autorità di Cristo si esprime nella funzione di santificare, di insegnare e di governare. Tutti questi compiti il vescovo li riceve per mezzo della consacrazione episcopale (costituzione 21 novembre 1964, § 21; CIC 1983, can. 375 § 1). Con la consacrazione episcopale i vescovi entrano a far parte del collegio dei vescovi, che succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale e, di conseguenza, nel potere supremo su tutta la Chiesa, senza che sia determinato l’ambito entro cui possono e devono esercitarli. La determinazione in concreto di tali ambiti dipende dal papa, che detiene su tutta la Chiesa il potere primaziale. In forza di questo potere il papa manda i vescovi al servizio di quella particolare porzione del popolo di Dio che forma la diocesi. L’atto con cui il papa assegna ai vescovi il loro ufficio prende il nome di missione canonica (costituzione 21 novembre 1964, Nota explicativa praevia, § 2). La qualifica di canonica è data dal fatto che tale missione o determinazione è regolata da norme giuridiche. Il fatto che il vescovo eserciti la propria potestà personalmente in nome di Cristo non significa che i vescovi godano di una potestà assoluta, senza che il loro esercizio possa mai essere delimitato, nemmeno dal papa. I vescovi, infatti, esplicano sempre il loro potere sotto l’autorità del sommo pontefice (Abate 1983).

Il vescovo gode di poteri e di diritti ampi. Grazie alla pienezza di sacerdozio che gli è stata attribuita, può conferire gli ordini sacri e procedere a tutte le consacrazioni. Egli dispone del potere legislativo, giudiziario e coercitivo nei limiti fissati dal diritto canonico. L'importanza della carica impone al vescovo gravi obblighi. Egli deve vigilare sul bene dei fedeli che gli sono affidati, sulla dottrina, vita religiosa, costumi; ha la responsabilità del ministero pastorale nella diocesi; stabilisce il collegamento tra il potere centrale della Chiesa e i cristiani. La Santa Sede esercita la propria azione su ciascun fedele per l'intermediario dei vescovi.

Secondo quanto stabilito dal Concilio di Trento, ogni vescovo deve compiere, a date regolari, un viaggio a Roma, chiamato “ad limina apostolorum”, al fine di prendere contatto con il pontefice e con le diverse congregazioni romane. Ogni vescovo è obbligato a inviare a Roma, ogni cinque anni, un rapporto scritto che si estende a tutti gli aspetti della vita religiosa della diocesi: fede e culto; organizzazione della curia diocesana, statistica del clero; ordinazioni; pratiche religiose; opere di apostolato; collaborazione degli ordini religiosi. Questi rapporti quinquennali vengono esaminati dalla Congregazione Concistoriale.

Nell’esercizio del suo ministero, il vescovo è assistito da un organismo chiamato curia diocesana o curia episcopale, che lo asseconda nel lavoro amministrativo. Nella curia diocesana, l’ufficio preminente è quello del vicario generale (decreto 28 ottobre 1965, § 27). Nella diocesi gli affari giudiziari sono affidati a un tribunale ecclesiastico. Il vescovo si avvale della consultazione, in determinate circostanze, di un consiglio che prende il nome di capitolo cattedrale, composto da canonici. Nelle diocesi che non possiedono capitolo, i canonici sono sostituiti da sacerdoti designati dal vescovo che portano il titolo di consultori diocesani.

Il prelato (vescovo) che si trova a capo di una diocesi in piena attività, già chiamato vescovo residenziale, è detto oggi propriamente vescovo diocesano. Vescovo titolare è invece il prelato che è stato nominato dal papa a una antica sede episcopale, conservata a titolo onorifico, la cui popolazione è stata un tempo cattolica, ma il cui territorio è stato perduto dalla cristianità. Nelle diocesi maggiori, il vescovo viene coadiuvato nel proprio lavoro da uno o da diversi collaboratori, che hanno ricevuto la consacrazione episcopale e che, quindi, possono sostituirlo per le ordinazioni e soprattutto per l’amministrazione del sacramento della cresima. La Santa Sede concede sovente un coadiutore a un vescovo vecchio o ammalato. Qualche volta accorda a questo coadiutore il diritto di succedere al vescovo che egli assiste nella direzione della diocesi. Nel linguaggio canonico, la prassi riserva il titolo di ausiliario ai vescovi coadiutori che non godono del diritto di successione. I vescovi coadiutori e i vescovi ausiliari sono vescovi titolari. Il vescovo, all’interno della diocesi, è anche chiamato ordinario, termine che tuttavia designa, in senso ampio, tutte le persone che godono del potere di governo (giurisdizione) in foro esterno, ossia nel dominio degli atti pubblici (in opposizione al foro interno: dominio della coscienza). Queste persone sono il papa in tutta la Chiesa latina, il vescovo residenziale e il vicario generale nelle diocesi. Nei paesi di missione sono il vicario apostolico o il prefetto apostolico e il vicario generale che ha il titolo di provicario o di proprefetto. Nelle abbazie o nelle prelature nullius sono l'abate o il prelato nullius e il vicario generale. Negli istituti religiosi di sacerdoti esenti (esenti dalla giurisdizione del vescovo), l'ordinario è il religioso che ha il titolo di superiore maggiore. L'espressione ordinario del luogo designa le stesse persone, esclusi però i superiori religiosi che non godono del potere di giurisdizione territoriale, ma unicamente del potere di giurisdizione personale.

Nelle diocesi e nei territori equiparati (prelature e abbazie nullius, vicariati e prefetture apostoliche) il potere legislativo appartiene a colui che detiene la giurisdizione. Nella diocesi è dunque il vescovo, ma se la diocesi è retta da un amministratore apostolico, il potere legislativo viene affidato all'amministratore. Se la sede episcopale è vacante, il capitolo della cattedrale, o in mancanza del capitolo, il collegio dei consultori diocesani esercita provvisoriamenle il potere legislativo. Nel caso in cui al vescovo sia impedito di esercitare le proprie funzioni a causa della prigionia, della relegazione, dell'esilio o dell'inabilità personale, in modo che non possa neppure comunicare con i fedeli mediante lettere, il potere legislativo passa nelle mani del vicario generale, o dei vicari generali, se ve ne sono diversi; o di un altro ecclesiastico designato dal vescovo.

Il vescovo, come regola generale, emana leggi per applicare nel proprio territorio le leggi universali della Chiesa. A questo scopo, egli prende provvedimenti per precisare le disposizioni del diritto canonico e all'occorrenza le sanziona. Nonostante l'autorità di cui è investito nella propria diocesi, il vescovo non può adottare provvedimenti che andrebbero direttamente contro il diritto delle autorità superiori, permettendo, per esempio, ciò che il diritto generale o provinciale proibisce, oppure vietando ciò che l'uno o l'altro di questi diritti autorizza espressamente. Nella diocesi spetta al vescovo scegliere la maniera di esercitare il proprio potere legislativo. Praticamente egli legifera con grande libertà; tuttavia in certi campi è obbligato a richiedere il parere del capitolo cattedrale e assai raramente il suo consenso. I provvedimenti legislativi del vescovo prendono solitamente la forma del decreto.

La redazione delle leggi da parte del vescovo è soggetta a regole, di cui la principale è la promulgazione. I provvedimenti presi dall’autorità vescovile, perché abbiano forza di legge, devono essere portati alla conoscenza del pubblico mediante un atto che prende il nome di promulgazione. I vescovi promulgano durante i sinodi diocesani i provvedimenti legislativi che prendono in quelle stesse occasioni, mentre le prescrizioni che essi elaborano al di fuori dei sinodi vengono pubblicate attualmente nell'organo ufficiale della diocesi (rivista, bollettino o foglio diocesano). Le leggi episcopali entrano in vigore al momento della loro promulgazione. Queste leggi non godono, in linea di principio, di alcuna mora nell'applicazione e la loro entrata in vigore è immediata. Ma niente impedisce al vescovo di accordare, in certe circostanze, una vacatio di cui fisserà il limite. È il caso, come regola generale, degli statuti sinodali.

Oltre alla legge, il vescovo, come le altre autorità ecclesiastiche che godono del potere di giurisdizione in foro esterno, dispone di un’altra istituzione per disciplinare situazioni particolari, che riguardano una o più persone, cioè il precetto. Il precetto è una disposizione di carattere particolare (personale e non territoriale) che si indirizza a individui e comunità incapaci di ricevere leggi e consiste in un ordine, dato in forma privata o solenne.

La cura di adattare le leggi spetta al legislatore stesso, al suo successore o al suo superiore, mediante l’abrogazione, l’obrogazione o la deroga (la soppressione di una legge, senza la sua sostituzione con un’altra è l’abrogazione; l’emanazione di una legge opposta alla legge in vigore, e che ne rende inutile la soppressione esplicita è l’obrogazione; l’introduzione di modifiche alla legge è la deroga). In casi speciali il vescovo può sospendere l’obbligazione della legge verso una o più persone, mediante un atto che prende il nome di dispensa. I vescovi dispensano dalle leggi proprie del loro territorio, di cui essi stessi o i loro predecessori sono stati gli autori. In casi particolari dispensano dalle leggi del concilio plenario e del concilio provinciale. Inoltre i vescovi fruiscono di un ampio potere delegato, potendo dispensare da tutte le leggi generali della Chiesa ogni volta che, contemporaneamente, il ricorso a Roma risulti difficile; il ritardo nella concessione provochi gravi inconvenienti agli interessati; si tratti di una legge da cui la Santa Sede è solita dispensare.

VESCOVO AUSILIARE

Il vescovo ausiliare (uno o più), senza diritto di successione, è dato dalla Santa Sede al vescovo diocesano, dietro sua richiesta, quando le necessità pastorali della diocesi, cioè estensione territoriale, numero dei fedeli, complessità delle situazioni lo consiglino. Allo stesso vescovo diocesano può essere dato dalla Santa Sede un vescovo ausiliare dotato di facoltà speciali anche per ragioni personali.

Nel caso che per una diocesi venga nominato un vescovo ausiliare non speciale, il vescovo diocesano lo deve costituire, a sua scelta, o vicario generale o almento vicario vescovile. Lo stesso deve fare per ogni altro vescovo ausiliare qualora ne venisse istituito più di uno. Tutti dipendono unicamente dall’autorità del medesimo vescovo diocesano, o del vescovo coadiutore o del vescovo ausiliare speciale.

Nella vacanza della sede episcopale, se esiste un solo vescovo ausiliare, egli prende in cura la diocesi fino alla costituzione dell’amministratore apostolico; se ci fossero più vescovi ausiliari, assume l’ufficio il più anziano per promozione. Nell’ipotesi che il vescovo ausiliare venga designato amministratore della diocesi, egli, come qualsiasi altro sacerdote eletto al medesimo ufficio, gode della potestà del vescovo diocesano, esclusi quei compiti che, per natura propria o del diritto vengono eccettuati (CIC 1983, can. 247). Se non è assunto a tale ufficio, il vescovo ausiliare, anche nel breve periodo in cui prende in cura la diocesi, conserva tutte e soltanto le potestà e le facoltà che godeva prima come vicario generale o come vicario vescovile. Per concessione che gli proviene dallo stesso diritto, egli gode della medesima facoltà fino a che il nuovo vescovo non prende possesso della diocesi, che però deve esercitare sotto l’autorità dell’amministratore della diocesi stessa (Abate 1983).

VESCOVO COADIUTORE

Il vescovo coadiutore, con diritto di successione, è dato dalla Santa Sede di propria iniziativa, anche senza richiesta da parte del vescovo diocesano, “ove a essa sembri più opportuno”. In genere è dato, con facoltà speciali, in aiuto al vescovo diocesano a ragione di una causa inerente alla sua persona che lo rende incapace di assolvere adeguatamente il suo ufficio. Nella medesima diocesi ne può esistere uno soltanto. Il vescovo coadiutore deve essere nominato vicario generale dal vescovo diocesano, che gli deve conferire, prima che a ogni altro, i compiti che per diritto richiedono un mandato speciale. Nella vacanza della sede episcopale, il vescovo coadiutore diviene immediatamente vescovo della diocesi per la quale è stato costituito (Abate 1983).

VICARIO VESCOVILE

Il vicario vescovile è un sacerdote che coadiuva e rappresenta il vescovo in una determinata parte del territoio diocesano, o in un particolare genere di problemi, oppure nei riguardi dei fedeli di un determinato rito o di una categoria di persone, secondo la designazione del vescovo diocesano (CIC 1983, can. 476). Relativamente a questo settore soltanto, i vicari vescovili godono della stessa potestà che il diritto annette all’ufficio del vicario generale. Inoltre, nei limiti della loro competenza, godono delle facoltà abituali che la Santa Sede concede al vescovo. Tuttavia questi, anche nel settore affidato al vicario vescovile, è libero di riservare a sè o al vicario generale le cause che crede, così come può conferire al vicario vescovile il mandato speciale richiesto dal diritto per il vicario generale nella trattazione di alcuni problemi. La differenza tra il vicario generale e il vicario vescovile non è nella natura della potestà che loro compete, ma nell’ambito in cui si estende. Anche il vicario vescovile, come il vicario generale, gode di una potestà ordinaria, annessa all’ufficio e vicaria, cioè esercitata in nome del vescovo diocesano. Il vicario vescovile, eccetto che non sia vescovo ausiliare, riceve la nomina a tempo determinato, da fissarsi all’atto della nomina; può essere rimosso per qualsiasi motivo e in qualsiasi momento. Nella vacanza della diocesi, scade dall’ufficio (Abate 1983).

CURIA VESCOVILE

L’insieme delle persone, ecclesiastiche e laiche, che coadiuvano il vescovo nel governo della diocesi costituisce la curia diocesana o vescovile. La struttura della curia vescovile, così come tratteggiata nel diritto canonico codificato nel 1917, riflette la plurisecolare evoluzione di questo istituto e dei suoi organi. Nell’organizzazione ecclesiale tra XIX e XX secolo, la curia è stata articolata normalmente in due sezioni, una amministrativa e una per gli affari giudiziari. La prima era presieduta dal vicario generale e ne facevano parte il cancelliere, che formulava gli atti, custodiva l’archivio e rilasciava le copie e i certificati consentiti; gli esaminatori sinodali, nominati, su proposta del vescovo, dal sinodo diocesano, per partecipare alle commissioni per le provviste delle parrocchie e dare consiglio nelle cause per la rimozione dei parroci; i parroci consultori, nominati anch’essi dal sinodo per dare pareri sui ricorsi presentati all’ordinario dai parroci rimossi. Nelle diocesi maggiori, in rapporto alla quantità degli affari, vi potevano come vi possono essere altri ufficiali, tra cui il vice cancelliere, l’archivista, il protocollista, i censori. Alla sezione giudiziaria presiedeva l’officiale di curia, provveduto di potestà ordinaria vicaria. Di tale sezione facevano parte i giudici sinodali, il promotore di giustizia, il difensore del vincolo, gli uditori, i notai. Nella curia vi erano ufficiali con mansioni d’ordine: cursori o uscieri, apparitori o notificatori. Gli ufficiali della curia dovevano prestare nelle mani del vescovo il giuramento di adempiere le loro mansioni con fedeltà e diligenza a norma del diritto e di serbare il segreto d’ufficio nei limiti e nel modo stabiliti dal diritto o dal vescovo. Gli uffici di curia erano per loro natura amovibili e non avevano carattere beneficiario (Retzbach 1960).

Il nuovo Codice di diritto canonico ha confermato che la curia diocesana è costituita dalle persone e dagli organismi che aiutano il vescovo nel governo di tutta la diocesi, cioè nel dirigere l’attività pastorale, nel curare l’amministrazione della diocesi come pure nell’esercitare la potestà giudiziaria (CIC 1983, can. 469). La nomina di coloro che esercitano un ufficio nella curia diocesana spetta al vescovo diocesano (CIC 1983, can. 470); tra costoro vi deve essere un moderatore di curia (CIC 1983, can. 473 § 2) che preferibilmente è individuato nel vicario generale (CIC 1983, can. 473 § 3). A lui spetta, sotto l’autorità del vescovo, coordinare le attività che riguardano la trattazione degli affari amministrativi come pure curare che gli addetti alla curia svolgano fedelmente l’ufficio loro affidato. Tra i collaboratori principali del vescovo c’è il vicario giudiziale (CIC 1983, can. 472; 1420) e il cancelliere (CIC 1983, can. 482) al quale possono essere affiancati altri notai, la cui scrittura o firma fa pubblica fede (CIC 1983, can. 483-485). In ogni curia poi deve essere costituito l’archivio (CIC 1983, can. 486-488), come pure un archivio segreto (CIC 1983, can. 489).

Il nuovo Codice di diritto canonico prevede poi obbligatoriamente la creazione di un consiglio per gli affari economici, presieduto dal vescovo diocesano o da un suo delegato e composto da almeno tre fedeli; in aggiunta a tale consiglio, in ogni diocesi il vescovo dopo aver sentito il collegio dei consultori e il consiglio per gli affari economici nomina un economo. Il consiglio per gli affari economici è subentrato all’ufficio amministrativo diocesano, che aveva un direttore amministrativo (Bertone 1983).

VICARIO GENERALE

Nella curia diocesana, l’ufficio preminente è l’ufficio del vicario generale. Il vicario generale è colui che fa le veci del vescovo, lo rappresenta e lo sostituisce, anche quando egli è presente in sede, in tutto il territorio della diocesi, in tutte le materie e in tutte le persone demandate alla cura pastorale del vescovo diocesano. Il vicario generale gode di potestà ordinaria, cioè agisce con potere che gli è accordato non dal vescovo, nei limiti da lui voluti, ma dallo stesso diritto, annesso all’ufficio che occupa. Però si tratta di una potestà “vicaria”, esercitata a nome di un altro, non a nome proprio. Gli atti di governo contenuti nei suoi poteri, anche se fisicamente sono posti da lui, moralmente e giuridicamente devono essere considerati atti del vescovo. Pertanto, al vicario generale compete la stessa potestà che spetta al vescovo per diritto proprio, eccettuato in quelle materie che il vescovo abbia voluto riservare a sè o per le quali è richiesto uno speciale mandato o incarico da parte del vescovo stesso. La nomina del vicario generale è obbligatoria. Il vicario generale è nominato a tempo indeterminato, ma può essere rimosso per qualsiasi motivo e in qualsiasi momento. In caso di vacanza della diocesi, scade dall’ufficio. Di regola il vescovo ne deve nominare uno solo; ci sono però casi in cui il vescovo può nominare più vicari generali nella stessa diocesi. La facoltà è data quando lo consiglino l’estensione della diocesi o il numero dei fedeli. In questi casi, la competenza di ciascuno è sempre generale in tutta la diocesi e non soltanto nel settore che ha richiesto o consigliato la nomina. Per ovviare alle difficoltà che possono sorgere in questi casi, possono esser costituiti, nella curia diocesana, uno o più vicari vescovili (CIC 1983, can. 476) (Abate 1983).

CAPITOLO DELLA CATTEDRALE

Si chiama capitolo (capitulum canonicorum) un collegio di sacerdoti istituito in una chiesa perché sia reso più solenne il culto e siano adempiute altre mansioni di ordine spirituale. Il capitolo della cattedrale è un collegio di sacerdoti il cui compito specifico è di assicurare il culto pubblico nella chiesa cattedrale. Trae la sua origine da quei gruppi di chierici che fin dai primi secoli del cristianesimo vivevano legati alla chiesa episcopale e aiutavano il vescovo nelle funzioni religiose e nel ministero pastorale. Per il fatto che vivevano insieme, sotto una regola o canone, furono chiamati canonici. Il capitolo cattedrale ha avuto per secoli carattere di senato o consiglio del vescovo, per coadiuvarlo nell’esercizio della sua potestà giurisdizionale, e, nel caso di vacanza della sede vescovile, assumendo compiti diretti per il governo interinale della diocesi. Gli uffici capitolari si distinguono in dignità e canonicati. Le denominazioni delle dignità e degli altri uffici capitolari possono essere varie. Le più comuni sono decano, arcidiacono, arciprete, prevosto, primicerio, cantore, priore, teologo, penitenziere. Il capitolo possiede statuti propri che indicano quali siano le dignità e i differenti compiti, le prerogative interne e onorifiche a ciascuno spettanti. Gli statuti capitolari possono risultare o dallo stesso atto di costituzione o da deliberazione dello stesso capitolo approvata e resa esecutiva dal vescovo .

Nel corso del tempo, il capitolo ha perduto una parte considerevole dell'importanza di cui aveva goduto in passato. Il Codice di diritto canonico del 1917 l'ha ulteriormente diminuita, per cui il vescovo non è obbligato a ottenere il consenso del capitolo che in rare circostanze, nella maggior parte dei casi essendo sufficiente che solleciti il parere del suo consiglio, senza essere tenuto a seguirlo. Il capitolo ritrova il proprio prestigio al momento della vacanza della diocesi a causa della morte, del trasferimento o della rinuncia del vescovo. Ma ciò avviene per breve durata. Il diritto gli affida la direzione della diocesi con l'obbligo di nominare, entro otto giorni, un vicario capitolare. Al momento della sua nomina, il vicario capitolare assume l'amministrazione della diocesi fino alla presa di possesso del nuovo titolare e il capitolo riprende il suo posto primitivo (Abate 1983).

Collegio dei consultori · Il collegio dei consultori è costituito da sacerdoti, non meno di sei e non più di dodici, scelti dal vescovo diocesano nella cerchia dei membri del consiglio presbiterale, i quali agiscono sotto la sua presidenza, con compiti fissati dal diritto comune o particolare (CIC 1983, can. 502). Fra questi compiti, ve ne sono due che spettano, per diritto comune, al collegio dei consultori, durante la vacanza di una diocesi. Il primo è di reggere la diocesi, se non c’è un vescovo ausiliare o se la Santa Sede non ha provveduto diversamente, fino alla costituzione dell’amministratore diocesano, che viene eletto dallo stesso collegio dei consultori. L’altro suo compito è di adempiere gli uffici del consiglio presbiterale, il quale cessa con la vacanza della diocesi. Mentre la sede episcopale è impedita o vacante, al collegio dei consultori, che perdura, presiede colui che, nel frattempo, occupa il posto del vescovo; se questo non fosse stato ancora costituito, il sacerdote più anziano per ordinazione. La Conferenza episcopale può stabilire che gli uffici dei consultori siano affidati al capitolo della cattedrale (Abate 1983).

CONSIGLIO PRESBITERALE

Il Codice di diritto canonico del 1983, al can. 495, dispone che in ogni diocesi si costituisca il consiglio presbiterale (Sacra Congregatio pro clericis, Litterae Circulares “Presbyteri Sacra”,11 aprile 1970, Acta Apostolicae Sedis 62, 1970, § 459-465), cioè un gruppo di sacerdoti che aiuti il vescovo nel governo pastorale della diocesi. Il consiglio presbiterale è un organismo che ha il suo fondamento teologico nella comunione gerarchica che esiste tra il vescovo e i suoi sacerdoti, esclude pertanto i laici e anche i diaconi. Il consiglio si deve comporre per metà di sacerdoti eletti liberamente; in parte da sacerdoti eletti in virtù del loro specifico ufficio; in parte da sacerdoti eletti dal vescovo. I membri del consiglio sono nominati per uno spazio di tempo determinato negli statuti, con la norma che l’intero consiglio o almeno una parte di esso venga rinnovato ogni cinque anni. Qualora il consiglio non adempia l’ufficio affidatogli o ne abusi gravemente, il vescovo lo può sciogliere anche prima della scadenza del quinquennio, con l’obbligo di costituirlo di nuovo entro l’anno. Il criterio da seguire nell’elezione dei membri deve essere determinato dagli statuti, in modo però che, per quanto possibile, vengano rappresentate le diverse situazioni, mansioni e ambienti del presbiterio. Il consiglio presbiterale costituisce una sorta di senato del vescovo, non potendo però agire senza di lui. È compito esclusivo del vescovo diocesano convocare, presiedere, determinare le questioni da trattare, ammettere gli argomenti proposti dai membri, divulgare quanto è stato stabilito dall’assemblea. Oggetto di esame del consiglio presbiterale sono i problemi che concernono il governo della diocesi, cioè l’efficace esercizio dell’ufficio episcopale nelle sue diverse funzioni. In particolare, dall’assemblea possono essere trattate le questioni che si riferiscono al ministero che i sacerdoti svolgono per il bene della diocesi, alla loro vita, alla santificazione dei fedeli, alla necessità dell’opera pastorale. Circa le questioni in programma, ognuno dei membri può esprimere il proprio parere e indicare i principi da difendere, le decisioni da prendere, le eventuali norme da emanare, gli opportuni criteri di azione pastorale da adottare. Dopo che il punto di vista di ciascuno è stato sentito e vagliato, l’ordinario diocesano formula la proposta da mettere al suffragio dell’assemblea. In genere il vescovo diocesano, per agire, è tenuto ad ascoltare il parere dell’assemblea presbiterale, ma non è da esso vincolato. L’assemblea gode al riguardo solo di voto consultivo, che orienta il vescovo nella decisione, che potrà però essere anche diversa dal pensiero della maggioranza se egli crederà opportuno non seguirla (CIC 1983, can. 127). Il vescovo diocesano è legato al consenso dell’assemblea solo nei casi espressamente definiti dal diritto comune o particolare. Con la vacanza della diocesi, il consiglio presibiterale cessa; i suoi compiti vengono assolti dal collegio dei consultori (Abate 1983).

SINODO DIOCESANO

Il Codice di diritto canonico del 1983 definisce il Sinodo diocesano, la cui vicende riconducono a una antichissima prassi ecclesiale, come “assemblea dei sacerdoti e degli altri fedeli della Chiesa particolare, scelti per prestare aiuto al vescovo diocesano” (CIC 1983, can. 460). Il Sinodo diocesano non deriva, come il Concilio ecumenico, dal diritto divino, bensì dal diritto canonico, perciò non partecipa del potere di giurisdizione sulla diocesi. Il vescovo è per la diocesi l’unico legislatore, tutti gli altri partecipanti al Sinodo hanno solamente un voto consultivo. Il sinodo si doveva tenere almeno ogni dieci anni, a norma del Codice di Diritto canonico del 1917 (ora la celebrazione è a giudizio del vescovo, cfr. CIC 1983, can. 461 § 1), è convocato e presieduto dal vescovo. Sono tenuti a parteciparvi il vicario generale; i canonici della cattedrale o i consultori diocesani; il rettore del seminario; i vicari foranei; un rappresentante di ogni capitolo collegiale (eletto dal medesimo capitolo); tutti i parroci del luogo dove si tiene l’adunanza, cioè di solito la città dove risiede il vescovo, e almeno un parroco di ogni vicariato foraneo, eletti da tutti i parroci in cura d’anime; gli abati reggenti; un superiore di ogni istituto di vita consacrata che ha sede in diocesi. Il vescovo, a suo beneplacito, può invitare anche altri ecclesiastici i quali, salvo diversa disposizione, hanno gli stessi diritti dei partecipanti ordinari. Il sinodo diocesano tratta solamente questioni che interessano il clero e i fedeli della rispettiva diocesi.

Compito del sinodo, tra l’altro, è la scelta dei giudici (giudici sinodali). Prima dell’adunanza, il vescovo può affidare a commissioni apposite la preparazione di temi da trattare (Retzbach 1960; Bertone 1983).

CONSIGLIO PASTORALE DIOCESANO

Il Codice di diritto canonico del 1983, al can. 511, inserisce nella curia diocesana un nuovo organismo, detto consiglio pastorale, da costituirsi “dove le circostanze particolari lo consiglino”. Sulla base delle nozioni fornite dai documenti conciliari (decreto 28 ottobre 1965, § 27), il consiglio pastorale esprime la responsabilità di tutto il popolo di Dio nella conduzione della comunità diocesana. È suo compito specifico ricercare ed esaminare, sotto l’autorità del vescovo, tutto ciò che si riferisce alle opere di apostolato e di proporre al riguardo conclusioni pratiche. Nel consiglio pastorale devono essere rappresentate tutte le categorie dei fedeli che operano nei diversi settori e generi di vita; perciò ne fanno parte fedeli che sono in piena comunione con la Chiesa cattolica, sia chierici, sia membri di istituti di vita consacrata, e principalmente laici, con designazione effettuata nel modo determinato dal vescovo diocesano. Il consiglio pastorale costituisce un organo consultivo non tecnico, ma pastorale, le cui proposte devono servire “a promuovere la conformità della vita e dell’azione del popolo di Dio” con il vangelo. Le proposte formulate sono sempre pareri, che possono offrire al vescovo un indirizzo nella decisione, senza vincolarlo o impedirgli di agire diversamente. Spetta unicamente al vescovo diocesano convocare il consiglio pastorale, presiederlo o personalmente o per mezzo di un delegato, pubblicare ciò che è stato trattato dall’assemblea. Il consiglio pastorale è costituito con durata temporanea, secondo le norme fissate dal vescovo, deve essere convocato almeno una volta all’anno; cessa con la vacanza della diocesi (Abate 1983).

CONSIGLIO DIOCESANO PER GLI AFFARI ECONOMICI

Il titolo II del Codice di diritto canonico del 1983 dedica alcuni canoni ai problemi amministrativi propri delle diocesi. Nell’amministrazione diocesana, il vescovo è attualmente assistito da due organismi collegiali: il consiglio dei consultori e il consiglio per gli affari economici (CIC 1983, can. 492-493), del quale fanno parte almeno tre laici. Il vescovo diocesano è coadiuvato anche dall’economo (CIC 1983, can. 494) al quale può essere affidata l’amministrazione degli enti per i quali non siano previsti amministratori (CIC 1983, can. 1278-1279). Con riferimento al decreto 7 dicembre 1965, § 27-28, e al motu proprio 6 agosto 1966, § 8, il Codice di diritto canonico del 1983 prevede tre organismi: a livello diocesano uno speciale istituto per la raccolta di beni e offerte destinati al sostentamento del clero che presta servizio in favore della diocesi (CIC 1983, can. 1274 § 1) e una “massa comune” che metta in grado i vescovi di provvedere alle necessità della diocesi e di aiutare le diocesi più povere (CIC 1983, can. 1974 § 3); a livello di Conferenza episcopale prevede un istituto che preveda alla sicurezza sociale del clero, soprattutto in caso di malattia, invalidità e vecchiaia (CIC 1983, can. 1274 § 2). I canoni 1284 e seguenti danno un elenco esemplificativo dei diversi compiti amministrativi, tra i quali la vigilanza sulla conservazione del patrimonio, la tutela della proprietà in forme valide anche civilmente, osservanza delle norme poste dal diritto canonico e civile, erogazione di redditi e proventi secondo gli statuti, regolare tenuta dei libri contabili, rendiconto annuo, custodia dei documenti e degli strumenti, osservanza delle leggi, anche civili, riguardanti il lavoro e la vita sociale.

ultima modifica: 19/01/2005

[ Saverio Almini ]