consiglio generale sec. XVI - 1796

Nel 1515 il duca di Milano, Massimiliano Sforza, assillato dal bisogno di danaro necessario per pagare le truppe svizzere assoldate per far fronte alla spedizione del re di Francia volta alla riconquista del milanese, e desideroso di garantirsi l’appoggio incondizionato della cittadinanza, si vide costretto a “largheggiare” nelle concessione di autonomia che da tempo Milano rivendicava.
In quello stesso anno una grida ducale attribuì infatti alla città il diritto di eleggere i membri del Tribunale di provvisione, i giudici delle strade e delle vettovaglie con i rispettivi notai, i sindaci, il tesoriere del comune e, in generale, tutti gli ufficiali dipendenti, con un sistema a doppio turno. Centocinquanta deputati, scelti dall’intera cittadinanza sarebbero stati incaricati di eleggere tali officiali. Il duca lasciò ai cittadini il compito di trovare il sistema più opportuno per provvedere all’elezione dei “centocinquanta”; tuttavia fintanto che non avessero concordato il metodo di nomina, stabilì che il vicario di provvisione dovesse essere scelto dal Collegio dei giureconsulti e i dodici di provvisione dai collegi e luoghi pii della città (Verga 1894). Le vicende storiche che portarono ben presto al declino del potere del duca Massimiliano Sforza non consentono di sapere se la nomina dei “centocinquanta” sia mai stata compiuta (Verga 1914).
Tuttavia nel corso dei primi decenni del XVI secolo l’antica rappresentanza del Consiglio dei novecento subì significative trasformazioni sino a diventare il Consiglio generale composto da sessanta decurioni.
Quando nel 1516, in seguito a Marignano, Francesco I, re di Francia, divenne nuovo signore di Milano, i cittadini, preoccupati di perdere i diritti e le concessioni riconosciute loro con le riforme di Massimiliano Sforza, ne chiesero la conferma e proposero, attraverso una serie di petizioni, il metodo di elezione dei “centocinquanta”, incaricati – secondo quanto già concesso dal duca Massimiliano Sforza – di nominare gli ufficiali cittadini. I vicini di ciascuna parrocchia avrebbero dovuto nominare due deputati i quali, dopo aver discusso insieme, avrebbero eletto quattro rappresentanti per ognuna delle sei porte della città. Al Collegio di ventiquattro persone così formato sarebbe spettata la nomina dei “centocinquanta”, in numero di venticinque per porta. I “centocinquanta”, così eletti, avrebbero infine nominato il vicario, i dodici di provvisione, i giudici delle strade e delle vettovaglie.
Tuttavia Francesco I, non volendo rinunciare alle tradizionali prerogative del principe confermò alla città il diritto di eleggere i membri del Tribunale per mezzo dei “centocinquanta”, ma secondo un processo particolare: oltre ad imporre, per la prima volta, il requisito della nobiltà per l’accesso al Consiglio, il re francese stabilì che i “centocinquanta” avrebbero dovuto presentargli una terna di nomi dalla quale egli avrebbe scelto il vicario ed una lista di trentasei candidati tra i quali avrebbe designato i dodici di provvisione. Inoltre stabilì che i “centocinquanta” non avrebbero potuto adunarsi senza il suo permesso.
I milanesi vedendo notevolmente ridotte le concessioni loro precedentemente riconosciute da Massimiliano Sforza chiesero a Francesco I che almeno fosse eliminata la limitazione delle terne. Il re francese acconsentì, ed accettò in parte la controproposta: concesse ai cittadini la libera designazione dei dodici di provvisione ma mantenne la prescrizione della terna per quella del vicario (Verga 1914).
In seguito, nel 1518 un decreto di Odetto di Foix, conte di Lautrech e luogotenente di Francesco I ridusse il numero dei “centocinquanta” a sessanta: scegliendoli tra i nobili e non tra i vari ceti della città Lautrech nominò personalmente i “sessanta”, in numero di dieci per ciascuna delle sei porte (Arese 1980; Arese 1982; Pugliese 1924; Vismara 1958; Zanetti 1972).
E ancora nel 1524 l’elezione dei sessanta fatta da Francesco II Sforza avvenne per le stesse motivazioni e seguendo le medesime modalità: il duca scelse 60 nobili della città per provvedere alla nomina del vicario e dei dodici di provvisione.
Sei anni più tardi dovendosi fare nuove elezioni il duca Francesco II Sforza introdusse un’innovazione, attribuendo tale compito al Senato, suprema magistratura dello stato istituita da Luigi XII nel 1499. Il Senato, pur riconoscendo ancora l’esistenza ed il permanere delle funzioni del Consiglio dei Novecento, surrogò i sessanta che a causa della morte o delle dimissioni per malattia di alcuni dei membri erano venuti meno. Il fatto che il Senato avesse assimilato il Consiglio dei novecento, che da tempo non si riuniva più, al corpo dei sessanta elettori del Tribunale di provvisione, lasciava intendere che questi ultimi sarebbero, di lì a poco, subentrati ufficialmente al primo (Verga 1914).
Surrogando i membri mancanti il Senato affermò che la loro carica sarebbe stata perpetua: in tal modo al popolo veniva sottratta la facoltà di eleggere la rappresentanza cittadina per riconsegnarla nelle mani del principe.
Altre surrogazioni dei membri venuti meno nel corpo dei sessanta elettori furono fatte nel 1535 da Francesco II Sforza e poi dal luogotenente di Carlo V, Antonio de Leyva: queste operazioni affermavano il principio che la carica dei Sessanta fosse vitalizia e ne introducevano di nuovi: con il consenso del principe la carica sarebbe stata anche trasmissibile di padre in figlio. La facoltà del popolo di eleggere i propri rappresentanti veniva così riconsegnata per sempre al principe.
Ma ancora in questi anni il corpo dei sessanta elettori non era ufficialmente divenuto il Consiglio generale dei sessanta decurioni: rimaneva sempre il corpo eletto allo scopo di nominare il vicario ed i dodici di provvisione.
Solo con le Novae Consitutiones il concetto che i sessanta rappresentassero l’antico Consiglio dei novecento venne giuridicamente recepito: nelle norme relative all’Officio di provvisione, i Sessanta vennero infatti dalle Costituzioni definiti come i rappresentanti del Consiglio generale: “Sexaginti viri, qui deni ex singulis Portis generale Civitatis Consilium representant” (Nuove Costituzioni 1571).
Con le Nuove Costituzioni si ufficializzò quindi che il Consiglio generale di Milano dovesse essere composto da sessanta membri chiamati anche decurioni, termine che, comparso già nei verbali di riunione del XIV secolo – riesumato dalla storia romana con intenti celebrativi – andò assumendo il significato di magistrati municipali (Pino 1979).
La carica di decurione, come si è già detto, aveva accennato a divenire vitalizia ed ereditaria fin dal 1531, quando il Senato, incaricato dal duca Francesco II Sforza di nominare i membri del mutilato corpo dei sessanta, si limitò a sostituire quelli deceduti o dimessi per malattia, e lo divenne definitivamente durante la dominazione spagnola. Oltre alla caratteristica di ereditarietà e perpetuità della carica, il governo spagnolo nel corso del XVI secolo definì tre requisiti fondamentali per l’accesso al decurionato: appartenere al patriziato milanese, non avere debiti o cause pendenti con la città, avere un’età non inferiore ai 35 anni.
La procedura di accesso prevedeva la presentazione della domanda da parte degli aspiranti al governatore dello stato. Questi, dopo essersi accertato che i requisiti di cui i candidati si facevano titolari fossero consoni alle norme statuite, incaricava il gran cancelliere di procedere alla nomina dei patrizi selezionati e di notificarne tale elezione al vicario di provvisione attraverso una lettera patente. Il criterio seguito nella valutazione dei candidati, considerava generalmente la dedizione al “reale e pubblico servigio” mostrata dal petente e soprattutto dalla famiglia, criterio che evidentemente favoriva le famiglie milanesi più antiche ed illustri (Nomine decurioni milanesi, 1581-1787). In ogni caso i governatori si trovavano di fronte a candidati già selezionati con l’ammissione al patriziato milanese e la loro scelta era quindi sovente condizionata dalle raccomandazioni che ciascun candidato faceva valere. Il governatore poteva inoltre disporre che i futuri seggi vacanti potessero essere concessi, in anticipo, con regolare patente.
I requisiti e la procedura di accesso al decurionato divennero più restrittivi a partire dal XVI secolo ed andarono sempre più irrigidendosi nel corso del Seicento.
Mentre ai tempi di Carlo V, al decurionato venivano chiamati sia i membri delle grandi famiglie cittadine che avevano ricoperto cariche importanti sotto gli Sforza, sia coloro i quali durante il conflitto con la Francia avevano manifestato grande fedeltà all’imperatore – i giureconsulti che sedevano al Senato, i magistrati di cappa e di spada, i segretari delle magistrature maggiori, i notai e alcuni tra i principali mercanti cittadini – con la fine del XVI secolo, in seguito a numerosi decreti del Collegio dei giureconsulti, si dispose che l’accesso al patriziato e quindi al decurionato – dovendo i decurioni essere tassativamente esponenti del ceto patrizio – fosse esclusivo appannaggio del ceto nobiliare. L’accesso al patriziato diveniva incompatibile con l’esercizio dell’alta mercatura e degli affari in genere.
E questa politica di chiusura andò sempre più affermandosi intorno alla metà del Seicento, quando le ammissioni al patriziato incominciarono ad essere regolate da deliberazioni del Consiglio generale proposte però dai Conservatori degli ordini, i quali divennero la roccaforte del patriziato ed i veri arbitri delle decisioni del consiglio medesimo.
Nel 1652 una deliberazione, proposta dai tre Conservatori e votata dal Consiglio, stabiliva che all’organo preposto al governo della città potessero essere ammessi solo i nobili di nascita ed i cittadini originari la cui famiglia risiedesse in Milano da almeno cento anni. Patrizio era quindi colui che poteva dimostrare di trarre la propria origine da una “famiglia antica” e di “antica nobiltà”: una famiglia era considerata “antica” quando aveva superato sia i cento anni di nobiltà sia i cento anni di residenza in Milano; era invece definita “nobile” quando si era astenuta dalla mercatura, dagli affari e dai “sordi lucri” di qualsiasi tipo esercitati sia in proprio che per mezzo di intermediari (Arese 1980; Sella 1987; Zanetti 1972).
Nel corso della prima metà del Settecento queste disposizioni vennero ulteriormente definite e specificate: nel 1716 la “Cameretta” – altro nome che identificava il Consiglio generale – stabilì che per essere ammessi “agli onori della città”, cioè alle cariche politico-amministrative cittadine, oltre a presentare i requisiti sopra descritti, fosse necessario possedere la maggiore parte dei propri beni “stabili e censiti” nella città o nel suo ducato. E ancora su proposta dei Conservatori degli ordini, nel 1718, si ebbe un’ulteriore serie di disposizioni in materia, che riassunsero e specificarono quelle esistenti: per dimostrare la “centenaria abitazione”, bisognava darne prova per periodi successivi lunghi dieci anni, per mezzo di documenti pubblici e non per mezzo di “fedi private”; ogni candidato aspirante al patriziato doveva provare la nobiltà “positiva” e “negativa” della propria famiglia – la nobiltà “negativa” esigeva che una famiglia vivesse delle proprie rendite, senza esercitare alcuna attività; la nobiltà “positiva” si riferiva alle glorie del casato e in particolare alle cariche e dignità ricoperte nella vita pubblica, o ad eventuali investiture feudali (Sella 1987) – inoltre veniva ribadito che chiunque aspirasse al decurionato milanese dovesse dimostrare di possedere beni immobili nella città o nel suo ducato (patenti di nomina).
E ancora nel 1750 una “Istruzione per l’ammissione de novi soggetti al patriziato”, redatta da un conservatore degli ordini, ribadiva e chiariva i criteri che disciplinavano le ammissioni al patriziato e quindi al decurionato (Pino 1979).
Ma il sistema di valori che definiva il patriziato milanese – e quindi la composizione del Consiglio cittadino – incominciò ad essere intaccato intorno agli anni ’60 del Settecento, quando un decreto emanato per dare nuovo impulso alle manifatture ed al commercio della Lombardia austriaca, stabilì che il prendere parte alla produzione o al commercio della lana e della seta non avrebbe comportato né la perdita della condizione nobiliare, né delle prerogative inerenti alla medesima; e pertanto abrogava qualsiasi statuto, ordine o consuetudine che statuisse il contrario.
Pochi anni più tardi venne deliberata la prima riforma teresiana rivolta espressamente alla nobiltà: nel 1768 il Tribunale araldico si impegnava infatti a razionalizzare la materia.
L’anno seguente, un editto regio rendeva note infatti le norme in vigore che disciplinavano la condizione nobiliare e ordinava alle città della Lombardia austriaca di compilare gli elenchi dei corpi nobili le liste dei patrizi. L’attività del Tribunale araldico stimolò quindi l’interesse di ogni famiglia, i cui esponenti erano membri delle magistrature cittadine, a regolarizzare la propria posizione nobiliare, presentando numerose richieste di ammissione al patriziato.
Nel 1791 infine, dopo che la riforma di Giuseppe II del 1786, pur lasciandolo in vita, aveva privato il Consiglio di ogni effettivo potere, i sessanta decurioni tornarono a deliberare sui requisiti necessari per la nomina alla carica di decurione, sino a quando, nel 1796, il Consiglio venne definitivamente soppresso.
Vertice dell’amministrazione della città di Milano, il Consiglio generale era un organo esclusivamente deliberativo le cui competenze spaziavano dalle questioni di ordinaria amministrazione a quelle di più vasta importanza e di interesse generale. Decideva della concessione di terreni della città ad enti religiosi e a privati a scopo “di ornato e di culto”, si occupava della manutenzione di acque e canali, dell’ordine pubblico e del vettovagliamento, costituiva commissioni decurionali incaricate di affrontare questioni particolari, organizzava la rappresentanza della città nelle celebrazioni solenni religiose e civili, si batteva per difendere gli interessi locali presso la corte e nei rapporti con le maggiori autorità ecclesiastiche, nominando e inviando ambasciatori. E ancora tra gli affari di maggiore rilievo che venivano sottoposti al Consiglio vi erano innanzitutto quelli di natura finanziaria: il controllo dei bilanci della città, la tipologia delle sovrimposte da adottare per rimediare al costante deficit di bilancio, l’approvazione delle spese straordinarie e dei conti del tesoriere della città, le eventuali alienazioni o obbligazioni di fondi civici.
Un altro vasto settore di competenza del Consiglio generale riguardava le nomine degli officiali cittadini. Esso trasmetteva al governatore, i nominativi per il periodico rinnovo delle principali magistrature cittadine, la cui scelta definitiva spettava però al governatore: annualmente le terne per l’elezione del luogotenente regio e dei dodici di provvisione, dei giudici delle vettovaglie e delle strade, ogni quattro anni quelle per il rinnovo dei conservatori del patrimonio. E ancora dal Consiglio venivano direttamente nominati quattro dei dieci membri della Congregazione del Banco di Sant’Ambrogio, e i tre conservatori degli ordini: i primi rimanevano in carica quattro anni, i secondi a vita.
Nel corso del tempo, il Consiglio, confermando la propensione a darsi da sé le regole per disciplinare la propria attività, dettò norme per regolamentare le elezioni degli ufficiali cittadini. Nel 1544 stabilì che a queste cariche non potesse essere eletto chi avesse cercato di esservi promosso ricorrendo a metodi illeciti: i membri del Consiglio che avessero sollecitato con denaro o raccomandazioni le cariche, dovevano essere rimossi e inabilitati a concorrere ai pubblici uffici e, qualora fossero stati membri del Collegio dei giureconsulti, ne dovevano essere espulsi. Una deliberazione del 1573 escludeva inoltre dall’essere “nominato o ballottato”, chiunque avesse interessi economici di vario tipo in conflitto con quegli uffici, ad esempio chi avesse in appalto entrate del comune o chi al comune fornisse vettovaglie.
Non potevano poi votare quei decurioni che, nelle liste dei candidati, avessero qualche parente sino al quarto grado.
Prima di procedere alla votazione i sessanta erano infatti tenuti a giurare di dare il propri voto a chi stimassero più utile al servizio della città e di negare il proprio voto a quelle persone che, da sole o per conto di intermediari, avessero fatto pressione per ottenere l’incarico; e ancora i sessanta si impegnavano a non delegare il proprio voto ad altri (dicasteri 102-108).
Se si escludono le sessioni che il Consiglio doveva tenere per il periodico rinnovo degli ufficiali municipali le adunanze non seguivano scadenze regolari ed erano motivate dalle particolari esigenze del momento, di cui si faceva interprete il vicario di provvisione, previa autorizzazione del governatore. Le sessioni erano valide solo se vi partecipavano almeno i due terzi dei consiglieri: all’inizio di ognuna di esse si faceva l’appello e i sessanta decurioni venivano divisi tra presenti, “legittimamente impediti” ad essere assenti, e assenti. Ma essendo venuta meno la regola in uso nei primi secoli dell’età moderna, secondo la quale gli assenti ingiustificati dovevano essere puniti, o almeno redarguiti pubblicamente, accadeva spesso che le presenze in “Cameretta” non raggiungessero il numero legale necessario perché le delibere avessero valore. E se in origine, il Consiglio per poter deliberare legittimamente anche in assenza del numero legale necessitava di una precisa autorizzazione del governo, in seguito – probabilmente perché l’assenteismo dei decurioni era divenuto un fatto consueto ed ampiamente accettato – si affermò la prassi secondo cui venivano conteggiati come se fossero presenti, anche i “legittimamente impediti” ad esserlo. Va sottolineato però che alle sessioni di dicembre, nelle quali il Consiglio si riuniva per trasmettere al governatore i nominativi per il periodico rinnovo dei principali uffici municipali, e anche a tutte le altre sessioni convocate per rinnovare le magistrature cittadine, l’affluenza dei decurioni era molto elevata (Visconti 1913; dicasteri 102-108).
Poiché nelle riunioni del Consiglio era vietata qualsiasi discussione si leggevano consulte redatte in precedenza dalle commissioni decurionali e mozioni che venivano messe ai voti. I verbali delle deliberazioni del Consiglio si presentavano quindi in forma molto ridotta: in essi venivano indicate le due opzioni sulle quali i decurioni erano chiamati a votare, e cioè la ratifica della soluzione proposta dal vicario ed elaborata in sede di commissione decurionale, e il rifiuto di quella con l’aggiornamento della questione rimasta in sospeso ad altro appuntamento. Alla prima possibilità era consueto abbinare le palle rosse, all’altra quelle bianche. La votazione avveniva infatti per “Ballottas” con palle bianche e rosse – i colori della città – inserite in appositi bussolotti. All’atto della votazione ogni decurione presente inseriva una delle due palle, la rossa o la bianca, nel bussolotto che poi depositava nell’urna, quindi avveniva lo spoglio.
Con il Consiglio collaboravano quindi alcune commissioni decurionali, alle quali, costituite da un numero limitari di decurioni, erano appunto affidate incombenze di tipo ordinario e straordinario.
Di queste le più importanti furono la Giunta urbana del censimento, incaricata di contrastare l’operato delle giunte censuarie statali e di difendere gli interessi patrimoniali del patriziato; la Giunta urbana del mercimonio, incaricata invece di regolamentare e di promuovere lo sviluppo delle attività manifatturiere e commerciali.
Il Consiglio generale di Milano fu il solo organo amministrativo civico a non essere abolito nel 1786: a differenza delle altre magistrature milanesi al Consiglio non erano demandati compiti di natura esecutiva e dunque non venne considerata una minaccia per il successo della riforma.
Il Consiglio tuttavia perse gradatamente ogni influenza sulla vita amministrativa della città, riunendosi solo poche volte all’anno per questioni di ordinaria amministrazione quali, ad esempio, l’approvazione del bilancio provinciale.
La soppressione del Consiglio generale venne determinata dal decreto 19 maggio 1796 del generale Bonaparte, nonostante proprio quel giorno il Consiglio e la Congregazione dello stato avessero rivolto una petizione al Bonaparte stesso, chiedendo protezione da coloro che incitavano il popolo “a strappare dalle mani degli oligarchici municipali il deposito dello scettro austriaco” e rivendicando di avere sempre servito il “bene pubblico”. Lo scioglimento del Consiglio divenne esecutivo il 21 maggio per mano del generale Despinoy, comandante di piazza di Milano (Arese 1982).

ultima modifica: 13/10/2003

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