collegio fiscale 1541 - 1786

Composto da tre avvocati e tre sindaci tassativamente milanesi, il Collegio fiscale doveva rappresentare tanto presso il Senato quanto presso i due Magistrati ordinario e straordinario, le ragioni del “fisco”, al fine di ovviare, almeno in parte, agli inconvenienti che si verificavano a causa dell’inesistente divisione tra potere giudiziario, esecutivo, legislativo: il Senato, pur essendo un corpo essenzialmente giudiziario era infatti investito anche di attribuzioni politiche; i Magistrati, a loro volta, pur vedendosi affidate mansioni di carattere esecutivo, svolgevano anche funzioni giudiziarie.
Data la situazione il Collegio era chiamato ad intervenire qualora si fossero verificate controversie sui diritti od obbligazioni della Camera: nei casi di imposizione di nuovi carichi, di accensione di nuovi debiti o di estinzione di antichi, o ancora quando si doveva procedere alla compilazione di nuovi riparti delle imposte, i Magistrati delle entrate si spogliavano della veste di semplici esecutori per assumere quella di giudice tra il “Fisco”, rappresentato appunto dal collegio fiscale, e l’altra parte, che poteva essere tanto un privato quanto un corpo di privati.
Mentre in origine il Collegio fiscale interveniva alle sedute dei Magistrati e del Senato e prendeva decisioni solo collegialmente, intorno alla fine del XVII secolo, e soprattutto durante il regno di Carlo II, si rese sempre più consuetudinaria la pratica secondo cui solo un sindaco ed un avvocato fiscale – e sempre i medesimi – fossero incaricati di seguire le sedute dei due consessi al fine di conoscerne costantemente l’attività.
In ogni città capoluogo delle province dello stato, il Collegio fiscale era “rappresentato” da due fiscali, un avvocato – il quale doveva essere estraneo alla città di destinazione – ed un sindaco, che invece poteva anche essere un “locale”: a loro il Collegio fiscale delegava la cura degli interessi dell’erario. Ma la principale incombenza loro attribuita consisteva nel sorvegliare che i giusdicenti locali giudicassero repentinamente e, soprattutto, equamente le cause criminali; e ancora che i giusdicenti locali, gli anziani delle comunità e i consoli non mancassero di denunciare i crimini e le “nefandezze” che si compivano nei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Al Collegio fiscale era quindi riconosciuta la facoltà di intervenire nelle cause penali al fine di far fronte agli interessi materiali dell’erario pubblico. Nel corso dei secoli dell’età moderna ancora radicata era la concezione barbarica secondo cui la pena era considerata come una vendetta contro il reo; e ancora nel Settecento, abolita la vendetta privata, era rimasta quella “sociale”, rappresentata appunto dal Fisco il quale oltre alla punizione corporale, esigeva multe e, a seconda della gravità del reato commesso, la confisca dei beni.
L’attività del Collegio era quindi, soprattutto nei momenti di grandi ristrettezze finanziarie, mirata a ricavare le maggiori entrate possibili dai fatti criminosi: per i reati minori, quali ad esempio i contrabbandi, il colpevole poteva scegliere tra l’esborso di un certo numero di scudi d’oro e tre tratti di corda; i delitti gravi, quali ad esempio l’omicidio, venivano invece non solo puniti con la morte, ma anche con la confisca di tutti i beni del reo, colpendo quindi inevitabilmente anche la famiglia del condannato.
Il processo riformatore settecentesco, iniziato dalla sovrana Maria Teresa e continuato dal figlio Giuseppe II investì anche il Collegio fiscale che venne definitivamente abolito nel 1786 (Bendiscioli 1957 a; Bendiscioli 1957 b; Pugliese 1924).

ultima modifica: 19/01/2005

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