Il dialetto bormino nei documenti d'archivio

di Remo Bracchi

Sommario

  1. Premessa
  2. Il lessico dialettale
  3. Antroponimi
  4. Toponimi
  5. Fenomeni fonetici
  6. Aspetti morfologici
  7. Annotazioni sintattiche

1. Premessa

I documenti superstiti del sec. XV sono redatti completamente nel latino cancelleresco del tempo. I processi sono trasunti in forma di resoconto nelle loro fasi essenziali da parte dei notai, che ancora non si ritengono in obbligo di riportare scrupolosamente gli interrogatori degli imputati e dei testimoni, adeguandosi perfino al loro linguaggio, come diventerà di norma più tardi.

Ma già in questa prima fascia di spigolature non mancano preziose irruzioni di termini che rimandano a referenti e ad antiche istituzioni autoctone. La figura del caniparius si delinea nelle sue varie specializzazioni all'interno dell'organizzazione cittadina, a seconda delle mansioni che gli sono affidate. Il caniparius maior era detto più anticamente gastaldus. Il caniparius bladorum si occupava delle granaglie del Comune, della riscossione delle decime e dei pagamenti in natura. Accanto a queste, altre figure collaterali fanno di tanto in tanto la loro comparsa.

Il centro principale di Bormio, la Villa, quando si intende abbracciare anche la corona dei nuclei dislocati nelle valli e sui monti, prende il nome di Magnifica Terra, di Terra Mastra o anche semplicemente di Terra.

Le prime citazioni dialettali di una certa consistenza, nel manipolo di processi che apre la serie, stilate in un dettato ancora piuttosto incerto e riecheggiante la parlata sovraregionale detta allora genericamente volgare, si affacciano soltanto a partire dall'anno 1515, colte dalla viva voce dei testimoni: Tace, fiolio de una stria! Tua matre fu arsa e tu è quello de qui, ossia "Taci, figlio di una strega! Tua madre è stata arsa e tu sei uno di quelli" … Tu non dice il vero … E po che per questo e sonto così valent homo come ti! "Se poi si tratta di questo, io sono un galantuomo al pari tuo!" (SB013).

I regesti dei dati e dei ricevuti, quelli delle deliberazioni di consiglio, della stesura della condanna o dell'assoluzione, in assenza di gente di estrazione prettamente popolare, continuano anche in seguito a essere stilati in latino.

Nel 1520, nel processo contro la madre di Taddeo del Piro di Bormio, si incontrano di nuovo alcune isolate espressioni di forte impronta dialettale, quelle che sono state giudicate le più importanti ai fini della sentenza, imputabili perciò di venire riportate nella loro integrità (formalia verba, come si scrive introducendole): Han official e consilier chi sostenen ladri, ladri, ladri, ladri! "Hanno ufficiali e consiglieri che sostengono autentici ladri!" … Da parte di chi li difende: Sono plù valenti homini de ti! (SB018).

L'uso sistematico della trascrizione degli interrogatori inizia soltanto a partire dall'anno 1551 col processo contro Susanna di Bernardo. In latino sono oramai vergate unicamente le parti introduttive delle singole fasi giudiziarie, quelle di collegamento, i resoconti notarili, le decisioni del consiglio, le sentenze, le spese. Della tessitura linguistica di questo importante processo si tratta più diffusamente in BSSV 55 (2002). Contemporaneamente il latino subisce una forte inflessione dialettale tanto nel lessico quanto nello scorrimento sintattico. Tra il perdersi del dettato latino e l'emergere di quello volgare si profila negli incartamenti, a partire da questo tempo, una specie di dissolvenza incrociata.


2. Il lessico dialettale

La prima voce dialettale che affiora rudemente nel resoconto notarile, probabilmente per la riscontrata impossibilità di una traduzione precisa, è camana (SB002), ora del tutto ignorata nel suo significato originale di "capanna, casotto imbastito alla meglio con pali e frasche", come facilmente si deduce dalla narrazione del manoscritto e dal fatto che una delle condannate rinchiusa sia riuscita a fuggire. Più tardi la voce si è specializzata nel linguaggio degli apicoltori a designare "l'arniaio", mentre nel gergo dei calzolai è stata assunta nell'accezione nobilitata di "casa". Nello stesso resoconto notarile vernice si coglie nell'accezione ristretta di "inchiostro" (SB002), riprendendo una parola in uso nella cancelleria locale, anche se certamente di trasmissione dotta.

L'antico nome cortìf, decaduto ormai definitivamente dall'uso e non più conosciuto da nessuno, designava "l'edificio chiamato anche curia comunale, dove si trovavano l'archivio, i magazzini, le cantine, la taverna del comune". Deriva dal lat. tardo curte per il classico cohors, -ortis "cortile (di adunanza dei militari)" con l'aggiunta del suffisso aggettivale -ivu. Al suo interno si trovava pure la stuffa magna (o estuarium magnum), nella quale si radunava il consiglio nella stagione fredda. Nel dialetto corrente il locale riscaldato destinato a tale uso sarebbe chiamato la sc'tùa grànda. Il termine sc'tùa "stanza foderata in legno, mantenuta calda dalla presenza della stufa in muratura, la pìgna", che qualche autore vorrebbe derivare direttamente dal ted. Stube "stanza riscaldata", è attestato come continuatore di un'eredità autoctona lungo l'intero arco della parabola documentaria nelle sue diverse variazioni stup(h)a, stufa, stuva, sulla base delle quali è da interpretarsi come un deverbale del lat. tardo extupare "riscaldare a vapore, esalare fumo", dal gr. thyphos "fumo, vapore".

Da uno spoglio anche sommario, risulta frequente il riscontro di tablato "fienile", latinizzazione dei tipi tablà, taulà, taolà, toilà proiettati nelle parlate attuali, che deriva dal participio passivo sostantivato tabulatum "pavimentato di assi" per fare da fondo alla stipa del fieno o per fornire uno spazio adatto alla battitura del grano.

Con theya, ora téa, nel territorio bormino si intende designare "la malga, la cascina, la stalla d'alpe, la baita tutta in legno collocata al limite inferire dei boschi, provvista di cucina, stalla e locale per la lavorazione del latte". Testimonia il prolungamento fino ai nostri giorni di un vocabolo celtico.

Come corrispondente del mil. mÔé "moglie", dovette esistere anche a Bormio un antico mogliér, parola che durante questi secoli viene a galla più volte dalle carte d'archivio (per es. in SB023), esito locale del lat. mulier, -ieris "donna, moglie", ma poi abbandonata in favore del più generico fémena "femmina, donna, moglie".

Non si conosce più il significato esatto di matrissa (SB029), dal momento che nessuno dei dialetti contemporanei ne ha assicurata la trasmissione, ma dal confronto con l'eng. madretscha, madrütscha è lecito dedurne l'accezione di "madrina".

Del tutto cancellato dalla memoria collettiva è pure il termine sclata (SB025), versione indigena del tipo it. schiatta "stirpe, discendenza", con la conservazione, nel nostro territorio, del nesso consonantico cl.

Nel tempo dei processi in esame l'etnico judeus designava ancora "colui che vive al di fuori dell'ortodossia" e perciò ritenuto capace di ogni aberrazione, quindi anche lo "stregone" (SB002). Similmente la qualifica di hereticus si estendeva alle due accezioni, e sotto la denominazione di heretica pravitas nel particolare contesto storico si doveva normalmente intendere la "stregoneria". In uno degli interrogatori di questa raccolta il termine egiptii è certamente da interpretare come sinonimico di "zingari" (SB020). Si trattava di una categoria considerata non molto diversa dalle due che precedono. Attualmente i gitani nomadi si designano con l'appellativo sc'tròlich. La voce è attestata anche nei processi con una duplice valenza, una positiva, in seguito perduta, di "indagatore degli astri", dal lat. astrologus, quindi di "conoscitore del destino degli uomini", e una negativa prolungatasi fino al nostro tempo, di "vagabondo senza dimora e senza leggi". Specialmente nella versione femminile sc'tròliga designa in senso proprio la "zingara", in quello traslato la "donna vagabonda, poco seria, disordinata fisicamente e moralmente". Nel processo del 1571 è attestata anche la forma sincopata strolo (SB024).

Dall'inquisizione contro la Petrogna del 1610 si ricava la spiegazione del misterioso termine borm. cói pl. "larve delle api". Del tutto casualmente se ne precisa infatti qui tra le righe il valore reale di "covata di pulcini" (SB051). Si tratta di un deverbale di coàr "covare" di valore collettivo, e la stessa metafora trova vasti riscontri anche in altre aree geografiche.

Solo dalla documentazione antica ci viene restituita la voce madéir (cf. maderos, SB009) nel senso di "tronco d'albero, trave", derivato dal lat. postclassico materia "materiale da costruzione", che viene continuato nella penisola iberica nelle forme madera, madeira "legname".

In uno degli ultimi documenti della serie, l'imputazione di infanticidio porta a investigare su eventuali pratiche abortive. Si cita così una manciata di erbe che sarebbero state impiegate a questo scopo: la crespola "matricaria partenio, Pyrethrum parthenium L." (cf. erba che si dimanda crespola, SB072), la soldola "Aiuga reptans L.", corrispondente dell'it. consolida, varietà entrambe sconosciute ai nostri contemporanei, e la taneda "Achillea millefolium L.", che invece continua ancora a portare tale nome fino a oggi. Tra le voci comuni relative all'agricoltura, perdutesi per strada prima di giungere a noi, troviamo siligine "sorta di grano gentile, Triticum hibernum", dal lat. siligo, -ginis, in origine "fior di farina". Invece si tramandava, almeno fino a quando è durata la coltivazione, il prezioso relitto prelatino doméga "orzo", termine citato più volte negli incartamenti (cf. SB074), insieme con macco (SB123), ora mach "orzo brillato" usato per dare consistenza alle minestre nella cucina locale.

Altre voci, recuperate attraverso lo spoglio di queste carte, in alcuni casi come testimonianza isolata, in altri come riconferma a un lessico già frammentariamente segnalato da altre fonti, risultano di particolare interesse per la documentazione dialettale in prospettiva diacronica. Si possono citare: unum usual sive scirpp (SB020), entrambe parole usate come sinonimo di "strumento", più in particolare di "recipiente" da cucina, la prima perdutasi, la seconda continuata fino ancora a una sessantina di anni fa nella forma sc'chirp "recipiente qualunque non molto grande", di origine longobarda, pestoyes "pugnale" originario di Pistoia (SB020), algor "gelo, brivido" (SB051), un turbello di tempo "turbine" (SB027), variazione del turnèl de vént "vortice di vento" che è ancora possibile sentire da qualche anziano di Morignone, sgrisor "brivido, senso di raccapriccio" (SB062), ora śg'grìgiol, di origine espressiva, robaria "furto, rapina, ruberia" (SB004, SB066), mascelàda "schiaffo sulla guancia" (SB051), da mascèla "guancia" che è termine ancora usuale, mentre il derivato non si riscontra più né in Bormio né alla periferia, slisancio "forzatura, rottura" in un contesto di furto senza danni ai serramenti (SB059), forse da un tardo *laesiare "danneggiare", derder "ultimo" (SB034), dal lat. tardo deretrarius "posto dietro, collocato in fondo". Nei dialetti attuali non è più dato di imbattersi in diferenza nell'accezione di "contrasto, lite", a partire dalla "diversità di veduta" che contrappone due interlocutori (per es. SB075).

Gli incartamenti ci restituiscono una serie di verbi caduti dall'uso o modificati nel loro contenuto semantico, che è possibile recuperare nella loro trama fonetica e nella loro valenza originaria attraverso la comparazione con qualcuna delle varietà circostanti. Tra gli esempi più meritevoli di nota si possono ricordare qui: motegar "dire a mezza voce", alla lettera "far motto" (SB046), nello stesso processo strufinarsi "malmenarsi, prendersi per i capelli", come spiega la glossa, da mettersi a confronto con l'it. strofinare usato in senso traslato, scoar "flagellare, frustare" (nella formulazione latina scopatus "che presenta livido di percossa come da frusta", SB020), da collocare accanto al com. ant. scovà "segnato come da percossa", pledezar "litigare" (SB051), corrispondente dell'it. ant. piateggiare, piatire, denominali del lat. placitum "ciò che fa piacere", quindi "punto di vista personale" che si pone alla base del contrasto, scrizàr "scherzare, burlare" (cf. scrizzando da solazzo, SB031), ancora testimoniato dal Monti nel com. scrizà "far onta, offendere proditoriamente", ma contraddistinto da un significato più negativo, bigliar in riferimento al cavallo (SB071) "bardare, rivestire dei finimenti", formazione gemella dell'it. abbigliare con la perdita della preposizione ad come spesso avviene nel dialetto, deventar nell'accezione di "accadere" in continuità col retoromanzo (cf. se l deventa "se capita, se succede", SB062), gustar per "prendere una breve refezione, fare uno spuntino" (cf. andaremo a gustare, SB051), dimandàs, domandàs "chiamarsi, avere nome" ricorrente in più luoghi (cf. erba che si dimanda crespola, SB072), redegiar "avvicinarsi, accostarsi" (cf. era andata sempre redegiando, SB062) in collegamento areale col berg. redesàs "avvicinarsi", dal lat. tardo rasitare "rasentare, passare radente", stromentar "dimenticare" (cf. stromentà, SB123), composto da extra "fuori" e da mente, radigar "sbagliare" (cf. radigada "sbagliata", SB068). Da un processo del 1583 recuperiamo il verbo scidràr "rattrappire, paralizzare" (SB034), diffuso un tempo nell'antico lombardo. Dal punto di vista fonetico rappresenta il parallelo dell'it. assiderare, a motivo della somiglianza degli effetti prodotti dall'assideramento e dalla paralisi.

Con l'uscita dal corso legale delle monete, la memoria collettiva ne smarrisce anche il nome, che invece lascia tracce concrete nelle testimonianze scritte d'archivio: la (lira) terzuola così detta perché soltanto una terza parte di essa era d'argento, il testone (SB077), il marzello coniato per la prima volta dal doge Nicolò Marcello (1473-4, cf. SB078), il raines o "fiorino del Reno" (SB026), ted. Rheinisch, l'ongaro proveniente dalla Serenissima (SB044 e SB059), la moneta biancha non esattamente definibile, dal momento che sotto la medesima dicitura si indicava tutta una serie caratterizzata dal colore argenteo della lega (SB044), il berlingotto veneziano (SB044).

Per alcuni accatti dal tedesco risulta importante la segnalazione in questi antichi documenti, dal momento che essi, in casi specifici, rappresentano la prima attestazione delle voci sul nostro territorio, denunciando in modo circostanziato la profondità cronologica delle interferenze: Zanetus vocatus Cramerus (SB007), soprannome che ricalca l'appellativo professionale cràmer "merciaiolo ambulante", ancora conosciuto dai più anziani in Bormio e nelle valli, benché in fase di accelerata recessione, dal ted. Krämer "merciaio ambulante". L'insulto scelm "furfante" ricorre più volte (SB022, SB031, SB089, SB052). Ricalca il ted. Schelm "furfante, briccone". Gli si affianca morder, murder "assassino" (SB031, SB089, SB052), chiav. mórder "birbo, malvagio", dal ted. Morder "assassino, omicida". Le cosiddette brutte parole sono le prime a venire apprese sia per la forte carica affettiva che contengono, sia perché i contatti più diretti avvenivano spesso tra popolani assuefatti a un linguaggio privo di eccessivi blandimenti.

La voce abschaydt "relazione scritta proveniente del governo centrale" (SB027) è stata introdotta dall'amministrazione grigiona e riproduce il ted. Abschied "congedo, licenziamento; decisione". Il deciso sdoppiamento nella designazione dei referenti dialettali rivela che il termine spech "lardo" dal ted. Speck di uguale significato è stato introdotto al di qua dello spartiacque in due momenti distinti dell'interferenza linguistica. Nella citazione contenuta nei documenti che fanno parte di questa scelta, un cugiar o doi de spech "un cucchiaio o due di minestra" (SB099), l'accezione è ancora quella antica, conservata fino ad alcuni decenni fa a Trepalle di "frinata di segale con un siero grasso di latte di capra". Si trattava di un pasto di magro, nonostante che avesse continuato a portare la denominazione di quello che un tempo dovette essere stato un ingrediente così importante da caratterizzare l'intero piatto.


3. Antroponimi

Entro il manipolo dei cognomi derivati da personali, presumibilmente di origine patronimica o matronimica, e confermati come tali dagli atti notarili nelle loro fasi documentarie più antiche, si può classificare il liv. Zini, vivo fino al presente, qui ancora nella formulazione provvisoria Francisco dicto Zino (SB001), da un ipocoristico di Lorenzino o simili. Il familiare Nesina o Nesini, definitivamente scomparso dal Bormiese, è attestato in alcune istantanee significative della sua traiettoria evolutiva. Nella formulazione più vicina all'origine appare nella sequenza Leo quondam Johanni(s) Anesi (SB074), che lo rivela quale prodotto di una cristallizzazione matronimica "Leone di Giovanni, discendente di un figlio di Agnese". La dizione più antica del ceppo degli Anzi era oscillante tra (H)aynzo e Aynzone (SB074), col caratteristico suffisso obliquo rifratto da influenze germaniche, che con ogni probabilità rinvia il gentilizio al personale Heinz, ipocorsitico di Heinrich "Enrico".

Gli ipocoristici meriterebbero una trattazione a parte. Si citano come esempi Vasio da Gervasio, con il tipo diminutivo Vasino, a Livigno Plasio per Biagio, con l'alterato Plasotto (SB067). Del gentilizio Donagrandi ci è trasmessa l'intera trafila di formazione: Donati appellati Grando, Donà Grandt, in versione latina Donati Magni (SB035).

Il cognome Illini in questo tempo si presenta ancora nella forma Daylini (SB007), con la concrezione della proposizione di appartenenza alla successione familiare. Si pensa a una formazione collaterale del tipo Gillini, testimoniato a Mesocco nei Grigioni già a partire dal 1452, diminutivo di Gillo, Giglio, derivato dal personale Aegidius di origine greca.

Per Gurini, familiare ancora ben rappresentato nella Valdidentro, si era pensato al possibile continuatore di un ipocoristico di Gregorio, ma la documentazione d'archivio sembra portare verso un'altra direzione. Negli incartamenti in esame incontriamo un quondam Columbanus de Guerin (SB072). In altri regesti questa nuova proposta trova conferme più esplicite.

Preziosissimo si rivela l'apporto dei verbali e degli atti notarili alla documentazione dei nomi familiari e dei toponimi. Spesse volte la distinzione tra le due categorie appare ancora labile e le numerose interferenze che si stabiliscono tra i due gruppi servono a un'illuminazione reciproca.

Tanto estrapolando da un manipolo quanto dall'altro, è possibile recuperare al lessico comune qualche voce che si era smarrita nel processo di trasmissione orale da una generazione all'altra, mentre la cristallizzazione cancelleresca si è fatta carico, a sua insaputa, di conservarne intatte le caratteristiche fisionomiche. Sembra questo il caso del cognome liv. Claoti (citato dal Longa nei primi decenni del secolo scorso anche nella variante Clauti), documentato in un incartamento del 1484 ancora in qualità di soprannome, attraverso la qualifica "dictus", nella trascrizione che probabilmente rispecchiava la pronuncia Clavotus (SB007). La più antica formulazione ci sembra così indicare che il borm. clòt, forb. clòlt, cep. clót (de téla) "tratto di tela che si stende sul prato a imbiancare" potrebbe essere dedotto, con buona approssimazione, dal lat. clavus nell'accezione specializzata di "striscia di stoffa".

Nel 1583 tra le pagine dei regesti fa capolino un certo Pedrot de Batlana (SB031 e SB072) il cui gentilizio non è più interpretabile attraverso il lessico dialettale contemporaneo, ma che risulta facilmente decodificabile ricorrendo alla comparazione con le varietà di altre fasce geografiche come un antico professionale che significava "follatore, gualchieraio". Si tratta di un sinonimo dello scomparso borm. folonèir, prolungatosi per secoli nel cognome locale Folonari, presente un tempo a Semogo e poi dileguatosi per la migrazione dell'intero ceppo.

Se in Adamus Paynus (SB040) l'accento corretto è da porre sulla ì, come lascerebbe supporre la continuazione del soprannome Paìn a Pedenosso, nonostante il segno grafico usato piuttosto per trascrivere il suono semivocalico, il familiare verrebbe a confermare, almeno fino verso il termine del secolo XVI, la presenza anche nel Bormiese dell'appellativo comune paìn "contadino", e per traslato "villano, maleducato, rude". Con procedimento analogo la dizione Petrus dictus Pigrus ci autorizza a recuperare l'aggettivo pégro nella sua forma semplice, mentre nei dialetti contemporanei non è più possibile spigolare se non derivati dal nome astratto: borm. plegrisgiós, forb. pagrisgión, pligrisgión "pigro, indolente".

Il contrassegno familiare che accompagna Joanes de Rauscinis de Murignono (SB060) attesta un'estensione maggiore nel passato dell'area di diffusione del fitonimo ora ristretto alla Valdidentro e a Livigno ràusc "rododendro" o anche altro cespuglio di conformazione simile, in origine "ontano di monte", dal celtico *drausa "ontano, rododendro, ginepro", da cui è pure ricavato il toponimo la Dròssa tra Livigno e i Grigioni.

Se nel gentilizio della uxor Nicolaii Belucii de Cipina, che fa la sua comparsa in un incartamento del 1515 (SB012), è da riconoscersi un soprannome che ricalca il locale sg'berlùc', ant. borm. (anno 1675) bellus, liv. sg'belùc', sem. sg'velùc' "lampo", si tratterebbe della prima attestazione indiretta della parola sul nostro territorio, nonostante la sua ascendenza prelatina.


4. Toponimi

Nel toponimo livignasco Federia (SB017), attualmente Fedarìa, si prolunga un appellativo comune scomparso già in tempo antico, che doveva indicare "un recinto o un pascolo destinato alle pecore", da féda "pecora" che sopravvive a Frontale, con suffisso aggettivale di destinazione. L'origine più remota è da cogliere nel lat. feta "pecora sgravata, che ha figliato".

Soluzioni etimologiche inattese per nomi di luogo rimasti a lungo privi di decodificazione si sono affacciate d'improvviso attraverso la testimonianza fornita dall'archivio anagrafico di coloro che ci hanno preceduto in secoli lontani, ricomposto attraverso i censimenti casuali ricavati dagli atti.

Dalla citazione di sghembo del marito di Ganzina uxor Christofori dicti Fochi de Premadio (SB003) si intravede un'interpretazione del tutto spontanea del toponimo Fochìn di Turripiano come località che da principio apparteneva a un discendente di questo antico personaggio (data la segnalazione in forma diminutiva del soprannome), piuttosto che rifarsi, in modo più dispendioso, all'appellativo geografico lat. *fodica "avvallamento, buca", che nel nostro territorio non avrebbe lasciata altra traccia diversa da questa.

La supposizione che nel semoghino Téls si prolunghi la eco di una voce prelatina, assonante con altre parallele segnalate in toponimi presenti al di là dello spartiacque, deve probabilmente essere abbandonata di fronte all'attestazione a Bormio nel 1590 di Joannes Tells offitiale (SB030). Si prospetta infatti come ipotesi più economica la derivazione dal nome del casato per il luogo dove, almeno per un certo tempo, esso avrebbe presumibilmente stabilita la sua residenza.

La casa detta Pramiöl o anche Premaiöl sopra Piatta può ora essere interpretata correttamente come "prato di Maiolo", dopo che dalla documentazione notarile è emersa con certezza, entro l'ambito comunale, la presenza del personale Maiolo (cf. Vasino di Maiolo, SB072), del quale i secoli successivi avevano completamente dilavata ogni memoria. Il collegamento sintattico diretto, senza la preposizione epesegetica di appartenenza fra un prato e il suo proprietario, si riscontra anche in Praculét "prato di Nicoletto" sempre sopra Piatta, in Preguzón in Valdidentro e altrove. Potrebbe ricalcare senza ritocchi sintattici volgari il genitivo latino dei catasti notarili. Anche in Pradurìsc, sopravvissuto in Valfurva, non risulta difficile riconoscere il significato originario di "prato di Dorico o di Odorico", personale che riemerge a più riprese nei documenti in esame (SB011, SB049). Presenta oscillazioni tra Pra Gràta e Pra de Gràta l'avvallamento erboso che si percorre scendendo dal passo di Fraele, alla sommità della diga di Cancano, in direzione di Livigno. Nel manipolo di testimonianze in esame troviamo un antico soprannome che, attraverso le sue ascendenze, indirizza a interpretare con certezza il toponimo: Jacobus Gratte de Premadio (SB041). La qualifica di Gratta potrebbe rivelare nel capostipite il vizio di metter mano sulla proprietà degli altri.

La località Picianécia in Valfurva diventa trasparente di fronte al soprannome Pizenez emerso dai fogli che riproducono gli interrogatori (SB036), interpretabile come diminutivo e peggiorativo insieme di pìcen, nella varietà furvasca pìcian "piccolo".

Il nome di Sughét, gruppetto di case affiancate al corso del Viola fra Turripiano e Piandelvino, italianizzato in Seghetto per reinterpretazione popolare fondata sulla presenza nella località di una segheria idraulica, deriva invece dal soprannome di un suo antico abitatore. Un suo discendente, Francischus Sughetellus, come ci testimonia la forma diminutiva, si introduce marginalmente nei nostri documenti (SB051). Il nomignolo dipende quasi certamente da sughét "tipo di farinata", a sua volta dal lat. sucus "sugo, succo", "pappa piuttosto liquida".

In modo simile il soprannome di Ursina dicta Pizafrigola (SB035) aiuta a interpretare con maggiore certezza la denominazione assegnata a un gruppo di prati sotto Piazza, al Pizafrìgul, in versione maschile. Il significato della qualifica attribuita a Ursina, ancora perfettamente leggibile ai nostri giorni, è quello di "becca briciole", forse nel senso di "eccessivamente risparmiatrice" o di "accattona".

Seguendo una trafila che procede in direzione contraria, in altre circostanze è il nome di luogo che è andato perduto e che viene riportato in superficie attraverso l'analisi del nome personale, del soprannome o del familiare.

La comparsa di Nicolaus quondam Antonii Nicolai de Cassibus de Taregua (SB009) conferma da un lato la provenienza del cognome Dei Cas, Deicas dalla Valfurva e dall'altro la sua reinterpretazione paretimologica sulla falsariga di "caso", mentre la sua origine dovrebbe essere posta in relazione con una località di provenienza o di abitazione del gruppo familiare non più conosciuta, ma caratterizzata dalla presenza di una costruzione che aveva richiamata su di sé l'attenzione dei contemporanei. L'attestazione più antica si presenta nella dizione de Casa già contenuta nel trattato di pace tra Como e Bormio del 16 aprile 1201, dalla quale, con altra sequenza, si distacca lateralmente il tipo semplice Casa ramificato soprattutto in Oga.

Il familiare forbasco che appare nella registrazione notarile della filia quondam Vitalis Zambreda (SB022) rimanda a un toponimo scomparso di identica fattura, derivato a sua volta da un appellativo comune anch'esso perduto *sgembréda, da sgémbro "pino cembro, cirmolo", con l'aggiunta del suffisso collettivo più ricorrente con i nomi di pianta -eta. Fra i toponimi inventariati nel Bormiese si riscontra (in Valdidentro e nel Livignasco) una versione maschile parallela Sgembré.

La comparsa di Baldesar de Rin di Pedenosso (SB046) fa preferire la derivazione del cognome Rini da un toponimo caratterizzato dalla presenza di un "ruscello", in dialetto rin, piuttosto che dall'ipocoristico di un personale.

L'attuale nome Magliàga col quale si designa il tratto di piano da cui sgorgano le sorgenti ferruginose a Santa Caterina di Valfurva non risulterebbe più trasparente nella sua struttura compositiva, se non ci venisse in aiuto l'antica forma Magliavacha (SB036), un composto dal significato immediato "divora vacca". Il riferimento sotteso è alla zona paludosa, nella quale i bovini che si avventuravano correvano il rischio di sprofondare.

Una località Cavalécia segnalata nella fascia prativa di Plaghéira in Valfurva (cf. Cavalazias, 011) non si conosce più e il suo ricordo sarebbe del tutto sparito, se non se ne conservasse una traccia sicura nei fascicoli notarili. Anche il composto Forbaplàna, che si suppone alla base di Furva Plana citata qui in veste latineggiante nell'anno 1484 (SB007) è uscito dall'uso. Dovette indicare il villaggio di Sant'Antonio in Valfurva, collocato nel più ampio tratto pianeggiante dell'intera valle.


5. Fenomeni fonetici

Si deve forse interpretare come un tentativo di rendere graficamente la pronuncia mediopalatale la trascrizione chi(e) documentata in chiera "aspetto", ora borm. céira, piatt., cep. c(hi)éira, e in Chiega soprannome dato a Domenica Pradella Castelera, nel quale si riprende l'appellativo céga "nebbia", dal lat. caeca "cieca, che impedisce la vista", per la credenza superstiziosa che fossero le streghe librate nell'aria a scatenare le tempeste.

Uno degli esiti più caratteristici del vocalismo tonico in alta valle è rappresentato dalla palatalizzazione della a in e, per lo più provocata dal contatto con una consonante palatale. Ne abbiamo traccia, nei documenti in esame, nel soprannome Margneco (SB031), di fronte all'attuale margnàch "babbeo, buono a nulla", derivato da un antico margna "gozzo". Incontriamo oscillazione all'interno di uno stesso documento fra andéi e andai, prima persona del perfetto di andare (SB066). Le testimonianze più cospicue del fenomeno ci vengono fornite dagli esiti del suffisso -ariu, -aria: archara e archera "intelaiatura in legno" con funzioni diverse, ora archéira (SB014), in fase di scomparsa, dal lat. arca con suffisso derivativo -aria, Iohanes de Heira, Sumbhera (SB034), ora pas d'Éira, antico Sompéira fra Trepalle e Livigno, dal lat. area "spazio pianeggiante, aperto", Castelér (SB031, SB089 e SB066), ora Casc'teléir, probabilmente in memoria di un caselliere preistorico, in partibus de Valeyra (SB015), ora Léira tra Bormio e Piatta, dal lat. vallaria "appartenente alla valle, conformato ad avvallamento".

La palatalizzazione è segnalata anche in concomitanza con l'esito it del nesso latino ct, presente nella sola alta valle: m'ha treyt "mi ha tirato" (SB031), participio ora in disuso, dal lat. tractus, venne in Freita (SB051), ancora Fréita dal lat. fracta "taglio di bosco", poi anche "accumulo di ramaglie tagliate, siepe imbastita con fronde ammassate".

In pazze pl. "orme" (SB030) abbiamo forse un ipercorrettismo, se si confronta la variante con l'attuale pècia dal lat. tardo *pecida per pedica "impronta del piede, orma".

In protonia si è avuta oscillazione tra a / e a contatto con r: Janoti Sertoris (SB011), da cui i cognomi Sertorio e l'alterato Sertorelli, dall'appellativo professionale sartór, cep. ant. sertór "sarto", uscito ormai dall'uso, Parnis (SB046) soprannome, borm. pernìsc, forb., cep. ant. parnìsc "pernice". Lo stesso si verifica talora nel contatto con la nasale: Sentello (SB057), ora Santelli cognome diffuso soprattutto in Oga, da un toponimo santèla "cappelletta votiva" non meglio precisabile, derivato dal lat. sanctus con suffisso diminutivo.

Una labializzazione della e in u in protonia per contatto con la m si riscontra in Zumellus (cf. uxoris Johannis Zumelli, SB015), forb. sgiumèl "gemello", esito confermato da altre attestazioni anche nella toponomastica, borm. sgemèl.

Del tipico esito ö da ev / ve tonici, proprio anch'esso soltanto dell'alta valle al di sopra della Serra, non si ha segnalazione alcuna dallo spoglio di questi documenti. Quella che sarà la successiva fase flöl "debole, fiacco", ormai in direttiva di scomparsa, nell'anno 1597 appare ancora nelle sua forma di transizione fievol (cf. gli ho fievol cretta "gli do debole credito, non ne ho grande stima", SB038), dal lat. flebilis "lamentevole, misero, debole".

Dei fenomeni consonatici uno dei più vistosi e ricorrenti è senza dubbio costituito dalla conservazione della l come seconda componente dei nessi: l'é lu ben a clamàr "è cosa buona chiamare, invocare" (SB051), ora soltanto a Livigno clamàr, altrove ciamàr, lat. clamare "gridare, chiamare", plurando "piangendo" (SB051), gerundio di un ploràr scomparso, lat. plorare "piangere", scioflava "soffiava" (SB049), forma flessa dell'infinito scioflàr "soffiare" sempre vivo ma avvertito come eccessivamente rustico, lat. sufflare, teneva placà "teneva nascosto" (SB055), ora placàr, a Bormio ormai piacàr "coprire, nascondere", Martin del Clevo (SB031), ora cléf "pendio, declivio", lat. clevus variante di clivus, dit Sarclet (SB063) soprannome ricavato da un diminutivo di sàrclo, sérclo "sarchiello", sarclar (SB070), ancora sarclàr, serclàr "sarchiare", lat. popol. sarculare, quella rota non vadi plù intorno (SB027), ancora plù in tutte le varietà delle valli, con tendenza alla sostituzione in favore di più a Bormio, lat. plus, stava qua nel Plazin (SB027), borm. al Plazìn piccola piazza all'inizio di via Roma, tuttora Piazìn, Plaz(o)castello (SB054) spazio sgombro da alberi, che prende nome dal castello di San Pietro sulla Réit, lat. tardo plagius "spazio libero", di origine greca, liv. Plasio, Plasotto (SB067) varianti del nome personale Biagio, lat. Blasius. Il cognome Canclini ramificato soprattutto a Piatta, tra le carte in esame è testimoniato nel processo del 1597 nella forma Canclinus (SB092, cf. anche SB105), ma era già documentato nel 1316 nella cristallizzazione Chinclino, probabilmente da un nome locale scomparso campo inclino "campo inclinato". Sono inoltre da aggiungere i già citati tablato "fienile", sclata "discendenza, famiglia" (SB025).


6. Aspetti morfologici

Stando alle informazioni spigolate, almeno fino all'anno 1590 risulterebbe ancora in uso, anche nella Valfurva, la variante soror "sorella" (cf. sua soror Catarna, SB036), testimoniata ormai soltanto a Livigno nella dizione parallela sarór, mentre altrove non è più dato di incontrare se non la forma diminutiva sorèla, surèla. Non apparirebbe infatti facilmente comprensibile un latinismo introdotto in modo così inatteso in bocca popolare. Le concordanze tra Livigno e la Valfurva, fasce collocate alle due estremità del territorio bormino non sono rare e meriterebbero un'indagine specifica.

Rappresenta un'importazione dalla pianura il plurale femminile ottenuto mediante l'aggiunta del suffisso -an, che si riscontra sporadicamente nella voce tosa "ragazza, figlia" (cf. le tosan dela Balsera, SB099). Nelle pagine degli incartamenti presi in esame ci si imbatte anche in una formazione analogica striana "strega" al singolare (SB046).

Per quanto concerne la morfologia verbale, uno dei fenomeni che si affacciano per primi a chi provenga dal di fuori è certamente la conservazione della -s finale nella seconda persona del singolare. La spigolatura condotta nei documenti d'archivio risulta discretamente ricca di esempi: tu non sas "tu non sai" (SB034), t'has fat ti "hai fatto tu" (SB035), stria che tu sias "strega che tu sia" (SB046), se non vos, mi vos "se non vuoi, mi vuoi", fas così, se ne vos "fai così, se ne vuoi" (SB049), se te dises "se tu dici" (SB051), tu habbias ditto "tu abbia detto" (SB064).

Il pronome enclitico vos alla seconda persona plurale del verbo appare attualmente in una -f residua del tipo fàuf "facevate", parlàuf "parlavate", parlésof "se voi parlaste", parlerésof "parlereste". Negli incartamenti che entrano nella serie in esame incontriamo un interessante esemplare in frase interrogativa vorave "vorreste voi" (cf. o vorave che la castigassi?, SB022).

Il pronome personale di terza persona nelle proposizioni interrogative viene posposto al verbo nella forma -l(o): ingiuriavalo, vi dicevalo ingiurie, hallo poi detto? "ingiuriava egli, vi diceva egli delle ingiurie, ha egli poi detto?" (SB038).

Anche nell'imperativo il pronome personale di seconda persona singolare risulta posposto: tu postu dar gió "possa tu precipitare" (SB027).

Per quanto riguarda l'infinito troviamo il caso di torturalla (SB103), attualmente torturàla "torturarla", formazione oscurata perché il pronome oggetto appoggiato al verbo subisce l'assimilazione nel punto di sutura del nesso rl in ll, seguita successivamente dallo scempiamento delle doppie. A Sondalo si direbbe ancora torturàrla.

L'uso del perfetto si dimostra ancora vivo, mentre nei dialetti attuali è del tutto scomparso senza lasciare traccia alcuna. Negli incartamenti in esame appaiono sovente formazioni forti in s: viste "egli vide" (SB030), non volse (SB030), morse "morì", non mi polse agiutar "non mi poté aiutare" (SB062). Alla terza persona plurale non sono rari i tipi in -no sincopati: furno "furono", ritrovorno "ritrovarono", andorno "andarono", si partirno "partirono" (SB030), bisognorno andar "dovettero andare" (SB038).

In poraf "potrebbe" (anno 1610, cf. SB051), probabilmente formazione contratta da *poderàf, la -f dovrebbe rappresentare ciò che sopravvive dell'evoluzione fonetica dell'originale habuit che nel periodo di formazione delle lingue romanze formava il condizionale sintetico.

Forme verbali degne di una memoria a parte che ne ponga in evidenza la singolarità potrebbero essere riconosciute in: sonto così valent homo come ti! "io sono un galantuomo al pari tuo!" (SB013), mi non sei "io non so" (SB044), ora mi nu séi, eramo stati dacordi, eramo andati in su "eravamo stati d'accordo, ci eravamo intesi", "eravamo andati su" (SB044).

Antico participio passato caduto dall'uso è oldito "udito, sentito" (SB027), con esito ol da au, in altri documenti attestato anche nella forma dell'infinito oldire. Il tipo le ho sentute (SB036) differisce nella scelta del suffisso dall'attuale li éi sentìda.

Un arcaico gerundio analogico è segnalato nella formazione stagando "stando" (SB030). In un altro incartamento incontriamo digend "dicendo" (SB099). Ora il gerundio come forma verbale è completamente abbandonato.

La maggior parte degli avverbi termina in -a, che diventa una specie di contrassegno di categoria: quanta a mi "quanto a me, per quanto mi riguarda" (SB062), se te dises davera "se dici per davvero, sul serio" (SB051), el vera o non? "è o non è vero?" (SB051), né poco né onda "né poco né assai" (SB051), dal lat. abunde "abbondantemente", al aperta "apertamente, palesemente" (SB062), bonadina "per lungo tempo, lungamente" (SB062), composto con l'ancora appena ricordato dìna "a lungo", derivato dal lat. diu "a lungo", gueira lontano "molto lontano" (SB059), dal francone waigaro "molto", da cui anche l'it. ant. guari e il fr. guère "non molto, poco, appena", con rovesciamento di significato per l'uso che se ne faceva specialemente in contesto negativo. Il tipo overamente "ovvero, oppure" (SB059) non è più in uso.


7. Annotazioni sintattiche

Il sintagma preposizionale in del "nel" con le sue variazioni andrebbe più correttamente sezionato nella sequenza ind el, come rivelano le antiche grafie su int i piedi "sui piedi, nei piedi" (SB051), su int i cavei "sui capelli, nei capelli" (SB057). Riproduce infatti l'avverbio lat. intus "dentro" seguito dall'articolo.

Un pronome impersonale di terza persona singolare appare cristallizzato nell'avverbio bulù "certo, veramente", ormai in fase di sparizione. Nei processi qui raccolti se ne avverte ancora la fase analitica, prima della grammaticalizzazione in voce unica opacizzata: questo è bulò "questo è davvero" (SB036), belù "davvero, proprio" (SB038), nella forma sciolta e con le componenti invertite: l'é lu ben se "è cosa buona se" (SB051). L'avverbio rafforzativo ben può anche mancare: l'é lu venuto su "è ben venuto su lui" (SB051), poria lu esser in oscillazione con poria esser "(ciò) potrebbe essere" (SB051). Al tipo borm. bulù, forb. blù, derivato come si è visto da bene lui "veramente ciò", fanno riscontro il semoghino bumì da bene mi "bene io" col pronome di prima persona singolare, e il liv. bunù "bene noi" con quello di prima plurale.

Il sintagma pronominale da perlù (SB059) è continuato nell'attuale de per lu, deperlù "da solo". Come nel veneto, ci si poteva imbattere, nonostante la contraddizione ontologica, nel plurale di negùn, gnigùn "nessuno" (cf. nisuni, SB059).

L'antica negazione madenò con la variante maidenò deriva dalla locuzione sincopata m'aiuti Dio, no!, con l'invocazione di Dio a garante di quanto si è detto. La incontriamo nel reciso rifiuto: madenò et madenò mille volte, stranò (SB051). Anche stranò rappresenta una negazione rafforzata con la preposizione stra di valenza elativa. Esisteva pure il corrispondente affermativo madesì, maidesì! "sì certamente", che però non rientra in questo fascio di testimonianze.

Numerose formule avverbiali e locuzioni non più in uso fanno ancora la loro comparsa in questo tempo nella documentazione d'archivio, segnalando una lingua in continuo movimento, nonostante le apparenti strutture conservative: con frezza "di fretta, con premura" (SB055), in guerni "in serbo, in custodia" (SB044), dall'ant. verbo guarnàr "mettere in serbo, conservare", anch'esso caduto dall'uso, lat. gubernare "governare, reggere" di origine greca. Resta traccia nel gerg. guarnéira "carne", in origine "vivanda tenuta in serbo, conservata".

Il verbo bisognar appare talvolta in costruzione personale: et bisognorno andar "e dovettero andare" (SB038), bisogno ben tor su pase "debbo bene procurare di far pace" (SB099). Abbiamo un caso di ausiliare avere col verbo riflessivo: sempre mi haveva sentita male "sempre mi ero sentita male" (SB051).

Aggiungeremo qui alcune locuzioni caratteristiche cadute dall'uso: far venir gionta "far arrabbiare" (SB061), col sostantivo (ag)giunta forse nel senso di "gonfiore" provocato dalla stizza, germano per amistà probabilmente nell'accezione di "cugino per fidanzamento" (SB061), dar la man in fede "porgere la mano come segno di garanzia, promettere offrendo la mano" (nella versione lat. dare manum in fidem, SB113), te vengha la frasela! "possa andare alla malora!" (SB063), con voce derivata dal lat. fragium "rottura", berg., bresc. andà in frasèle "andare in frantumi". La ricorrente locuzione mentire per la gola negli Statuti criminali è glossata "mentire e stramentire" (c. 36). Di uso frequente è anche il sintagma bastar l'animo nel senso di "avere il coraggio, l'ardire". Legate alle pratiche esorcistiche sono i modi di dire leggere addosso o sopra, in origine formulazioni generiche dettate dalla reticenza (SB038).

Da un'analisi attenta dei documenti, talvolta risulta possibile cogliere anche qualche rilevamento delle varianti locali o qualche particolarità stilistica imputabile alla personalità del notaio. Gli avverbi isa "ora" e chigliò "qui" segnalati a Morignone (SB111) sono i corrispondenti degli attuali ìsa e chilò, in opposizione alle varianti ésa e chiglià, chigliè, chiè, c(h)i, chi continuate altrove. Su bocca livignasca è raccolta la locuzione el pega tot'una "tutto ripaga allo stesso modo", ossia "l'una cosa vale l'altra" (SB062), mentre la forma verbale suonerebbe a Bormio al paga "(ri)paga, vale", e ugualmente stemmi fuor di casa (SB046), appartiene alle varietà della Valdidentro e di Livigno, mentre a Bormio si direbbe sc'tam fòra de bàita. L'avverbio tras "molto" (SB062) sopravvive ormai soltanto a Livigno, dov'è pure testimoniato al tempo dei processi in esame, dal lat. trans "al di là, oltre", da cui anche il fr. très "molto".